lunedì 30 marzo 2020

LUIGI BANFI - Alfa Romeo - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “I motori di Milano. Tute blu per il secolo veloce”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2013
  
Sono nato il 30.9.1947 a Rho, dove abito tuttora.
Ho iniziato a lavorare a 15 anni, per un annetto, in una piccola tipografia, poi sono passato alla Philco di Rho dove erano occupate circa 150 persone e si producevano televisori. A 18 anni sono andato per due anni in seminario e ho frequentato il ginnasio. Tornato dal seminario ho lavorato con un contratto a termine in un magazzino di stoffe, dove eravamo in una settantina e si preparavano i tessuti che si spedivano ai sarti di tutta Italia. Infine, con il desiderio di entrare in una grande fabbrica, sono stato assunto in Alfa Romeo il 5 settembre 1969.
Nel cortile dove abitavo c’era un signore, amico dei miei genitori, che aveva la fama di riuscire a far assumere persone in Alfa e mia mamma si è rivolta a lui. Si è detto subito disponibile, mi ha fatto presentare la domanda e sono stato immediatamente assunto.
Sono entrato al Portello come operaio, alla catena di montaggio motori.

Lavorare in Alfa Romeo voleva dire avere un posto sicuro, era un fatto importante. Stare in Alfa nei primi momenti era per me motivo di soddisfazione e quando ne parlavo con i miei amici ne ero orgoglioso. Il salario non era molto differente rispetto a quanto guadagnavo in precedenza, ma il lavoro era più organizzato.
L’impatto con la fabbrica è stato forte: il primo giorno ho fatto fatica a trovare il reparto e per qualche tempo faticavo a individuare lo spogliatoio. Era un paese, un ambiente enorme. Mi spaventava un po’ la dimensione di tutto quanto, ma l’accoglienza è stata positiva. L’inserimento alla catena di montaggio, seppure un poco mi ci fossi abituato alla Philco, invece non è stato dei migliori, quando vedevo persone più anziane in linea mi dicevo che non avrei potuto restare una vita a fare quel lavoro. Ma sono stato fortunato.

Sono rimasto in quel posto dal settembre al maggio dell’anno successivo, poi quando il capolinea ha chiesto al mio vicino di posto se aveva fatto la scuola di disegno, siccome lui ha detto di no io mi sono fatto avanti spiegando che avevo fatto i tre anni di avviamento professionale e un anno e mezzo di disegno alla scuola serale. Non avevo un diploma, ma il disegno meccanico un po’ lo conoscevo. Nel giro di due mesi mi sono trovato al Reparto sperimentale “Espe” ad Arese, dove si lavorava sulle vetture di serie, ma anche sui prototipi. Dopo sei mesi che stavo in sperimentale sono andato alla pista dell’Alfa a Balocco e mi hanno riportato a casa alle due e mezza di notte. C’erano macchine che giravano e io ero al controllo. Quando le vetture in prova rientravano dopo alcuni giri si dovevano cambiare gli assetti delle gomme, la convergenza o altro e ripartivano. Con i disegni controllavamo i particolari.
Uno dei mestieri più interessanti che ho fatto in quel reparto, e che dal punto di vista della carriera professionale è stato una fortuna, era la messa in piano della scocca. Si metteva su un piano di riscontro tutto tracciato la scocca e poi si montavano la pedaliera, il cambio, il motore per verificare con i disegni in mano che i vari componenti fossero posizionati correttamente e non interferissero tra loro. Per le ruote, facevamo delle dime sul cerchione, creavamo le condizioni del movimento della ruota di modo che questa, con gli scuotimenti e le sterzate, non andasse a interferire con la carrozzeria. Era un lavoro che mi piaceva, certosino e che ora fanno al computer. Già allora si cominciavano a utilizzare i computer, ma ci facevano sempre fare le verifiche pratiche.
Arrivare dalla catena – che io chiamavo il lavoro del pensatore perché le mani andavano da sole - alla sperimentale è stato un passaggio importante, era un impegno che mi dava soddisfazione. Si andava in pista, a volta in macchina accanto ai collaudatori. Ho avuto qualche attimo di paura, ma alla mia età era bello. Dopo qualche tempo che ero in quel reparto mi hanno passato equiparato.
Ho lavorato lì fino all'80, poi la nostra attività di controllo è di fatto sparita e sono stato trasferito in ufficio a fare il disegnatore. Non il progettista, ma il particolarista e il lucidista, perché la mia base non mi consentiva di affrontare i disegni più complessi. Sono stato in quel reparto fino al ’91, quando ho iniziato il mio impegno come responsabile della Fim nel consiglio di fabbrica.

Sono uscito dall'azienda nel giugno del 2000 e ho fatto un anno e mezzo di mobilità. Però io dico che sono andato in pensione al momento in cui ho lasciato la fabbrica.

Appena entrato in Alfa Romeo sono stato contattato da un delegato della Fiom e poi da quello Fim. Mi sono accorto che questo era già informato su di me, che sapeva che arrivavo dall’oratorio e mi sono iscritto alla Cisl. Dopo quattro mesi dal mio ingresso avevo già la tessera del sindacato in tasca. Mio padre mi diceva che dovevo pensare più a me stesso, ma io avevo una sensibilità sociale e pensavo fosse giusto iscriversi al sindacato.
Dopo pochi giorni che ero in fabbrica c’è stato il mio primo sciopero con picchetto. Ero preoccupato perché ero in prova e non potevo scioperare, ma i vecchi mi hanno detto che non dovevo preoccuparmi, mi hanno fermato e non è successo nulla.
Il mio percorso di maturazione sindacale e politico non è stato però così lineare. Dopo il seminario ho attraversato un periodo di crisi e mi sono allontanato da un cammino di fede. Quando sono entrato alla sperimentale sono stato avvicinato da un rappresentante del Pci e ho partecipato ad un corso di partito a Faggeto Lario. Hanno capito che ero in cerca di qualcosa, che non ero soddisfatto. Lì però è andata male, mi sembrava di essere ad un corso di esercizi, ma senza avere come obiettivo la vita eterna. Poi sono stato avvicinato da un gruppo di lavoratori di Cl e ho iniziato a incontrarmi con loro. Oggi sono un ciellino “molto largo”.
I primi anni a Natale si celebrava la messa di Natale in reparto, poi non è stato più possibile e allora la celebravamo lì vicino, all'asilo della Valera, con un prete salesiano che ci aveva dato uno spazio per trovarci fuori dalla fabbrica. In azienda, infatti, era quasi impossibile trovarci con turni diversi e dispersi come eravamo in reparti differenti tra circa 20mila addetti. Alla Valera ci trovavamo per un incontro di preghiera, ma immancabilmente si finiva per parlare delle condizioni della fabbrica e dei diversi problemi che si vivevano all'interno.

I reparti erano segnati politicamente, c’era quello comunista e quello democristiano. In ognuno c’era la prevalenza di un colore politico. Alla sperimentale, invece, era un miscuglio, c’era rappresentato l’intero arco costituzionale e c’era perfino gente che ha sfiorato le Brigate rosse.
Il terrorismo è stato molto presente in Alfa Romeo. Ricordo quando hanno rapito il primo dirigente e uno dei suoi colleghi si è suicidato in seguito a queste vicende per paura e stress. Però non ho vissuto direttamente nessun episodio. Ho conosciuto persone nel mio reparto che ci sono andate molto vicino. Qualcuno mi ha confessato che aveva paura di essere arrestato e qualcuno è stato abbastanza intelligente da fermarsi un attimo prima di entrare in clandestinità.
In consiglio di fabbrica ho avuto modo di conoscere un delegato della Fim ha fatto il salto nel terrorismo. Un altro è finito nella colonna Walter Alasia. Ma io ho saputo delle loro storie solo dopo gli arresti, quando li abbiamo visti nei telegiornali o letto i loro nomi sui giornali. Anche perché normalmente questi erano insignificanti nell'iniziativa sindacale, non intervenivano nei dibattiti. Di qualcuno avevamo il sentore, ma niente di più. Anche se ho visto personalmente che quando hanno rapito Moro c’erano alcuni che erano contenti e si sono messi a ballare sul tavolo.
Ho assistito a processi politici, qualche democristiano portato davanti a tutti e giudicato in assemblea.

C’era un viale che univa i reparti, dove c’erano le macchinette per il caffè e dove erano piazzate tutte le bacheche dove ognuno esponeva i propri manifesti. Da Lotta Continua alla Dc, oltre che le organizzazioni sindacali. Più che una serie di bacheche era l’intero viale che era una bacheca unica. C’era anche quella di Comunione e Liberazione.
A volte la convivenza non era facile e qualche volta mi hanno minacciato di suonarmele, ma non è mai successo nulla. Ricordo che in occasione di una tornata elettorale erano arrivati fuori dai cancelli degli studenti ciellini per fare campagna per la Democrazia Cristiana. Erano una quindicina di ragazzi, ultimi anni di liceo, un po’ preoccupati di doversi presentare davanti ai cancelli dell’Alfa. Avevano allestito un banchetto ed io ero lì con loro con in mano il megafono. Ad un certo punto siamo stati circondati da un numeroso gruppo di persone che minacciavano di rovesciare il banchetto. I ragazzi si sono spaventati, io ho cercato di reagire ma non sapevo come, fortunatamente alcuni di coloro che stavano con i contestatori hanno alzato la voce chiedendo di lasciarci stare, che avevamo anche noi il diritto di dire la nostra. A quel punto ho ripreso vigore e tutto si è risolto senza ulteriori incidenti.

Il consiglio di fabbrica era composta da circa 400 delegati e coloro che erano legati ai diversi gruppi politici cercavano di influenzare anche le scelte sindacali. Anche le nomine nell'ambito dell’esecutivo erano influenzate dai diversi schieramenti.
Sono stato eletto delegato per la prima volta nel 1975 nel reparto esperienze come rappresentante degli equiparati, eravamo una cinquantina in quella condizione e abbiamo deciso di eleggerci un nostro delegato invece di farci rappresentare dagli impiegati o dagli operai come era avvenuto fino a quel momento.
La prima vertenza che ho seguito come delegato è stata quella per far cancellare la qualifica di equiparati e farli diventare impiegati.
Nel frattempo, era il 1977, mi sono sposato.

Sono stato eletto delegato fino alla mia uscita. Ho staccato per meno di un anno perché ero un po’ stufo delle vicende Fim e delle storie interne all'organizzazione legate a Piergiorgio Tiboni. Ero in buoni rapporti con alcuni di quelli che poi hanno fatto la scissione dalla Fim, ma ricordo che quando è venuto in fabbrica Gianni Italia, segretario nazionale della Fim, l’hanno trattato come una pezza da piedi. Io non condividevo quei comportamenti. Sapevo che c’erano dei problemi, però mi è sembrata una cosa inaccettabile. Anche questa vicenda ha contribuito a farmi abbandonare, ma è durato poco. Sono sempre stato iscritto e appena si è votato nuovamente per il rinnovo del consiglio di fabbrica sono stato rieletto. Ho dato la mia disponibilità, ma senza fare nessuna campagna, però i miei compagni di lavoro mi hanno votato lo stesso.

In occasione del superamento della Flm non abbiamo avuto particolari problemi. Qualcuno non era d’accordo e ha mantenuto la tessera unitaria ancora per qualche tempo. In quel momento ero delegato di reparto e non ho vissuto particolari traumi e nemmeno ne ho visto da parte di altri di altre sigle. Non ho dovuto fare azioni particolari per far iscrivere i lavoratori alla Fim, chi proveniva da quella esperienza è tornato a iscriversi alla Cisl. C’è stato un delegato Fim poi Flm, che al momento della scelta si è iscritto alla Uilm e questo mi ha colpito, perché era una persona rappresentativa e non ho capito quella scelta.

Nel ’91 è arrivata la proposta del distacco sindacale per la Fim. L’azienda in quel momento era Fiat.
La proposta di fare il coordinatore per la Fim è arrivata da Vito Milano, che allora era segretario della Fim di Milano, che ha messo insieme Renzo Comi turoldiano politicamente di sinistra, Mario Rigo democristiano cane sciolto e Banfi ciellino, che da allora hanno guidato la Fim in fabbrica lavorando bene insieme. Mi rendo conto che hanno fatto una grande scommessa su di me. Non avendo esperienza potevo durare due mesi, sono durato nove anni. E’ andata bene.
Fare il distaccato voleva dire agire come un operatore, solo che invece di girare nelle varie fabbriche, si doveva muovere tra capannoni e uffici di una stessa azienda. Fim, Fiom e Uilm avevano ognuno un proprio ufficio e io lavoravo in quello della Cisl. Poi c’era la sala del consiglio di fabbrica, c’era la sala stampa dove si producevano manifesti e volantini e c’era anche qualche altro locale a disposizione delle organizzazioni sindacali.
Gli strumenti unitari per comunicare con i lavoratori erano soprattutto la cartellonistica e le assemblee tenute da qualcuno del consiglio di fabbrica o da qualche sindacalista esterno. Solitamente si facevano sei, sette assemblee generali contemporaneamente per raggiungere tutti i lavoratori. Erano riunioni sempre molto numerose.
Come Fim facevamo dei manifesti di organizzazione. Io andavo molto nei reparti, passavo a trovare i nostri delegati, parlavo con la gente, andavo in mensa insieme.

Negli ultimi anni con la Fiom abbiamo avuto scontri politici abbastanza forti e pure con i Cobas, anche se personalmente ho avuto più problemi con la Fiom. Non condividevo nulla di quanto dicevano i Cobas, ma a loro modo erano più onesti intellettualmente, mentre la Fiom misurava tutto su basi politiche.

L’Alfa Romeo era un paese. C’era di tutto, ma complessivamente era un’azienda dove la gente lavorava. Si sapeva che nei reparti dove si facevano i turni c’erano alcuni che avevano un secondo lavoro. Nel mio reparto ho visto gente che riusciva a ritagliarsi gli spazi per studiare e laurearsi.
C’era la possibilità di lavorar poco, se si voleva, ma non era lo stile che caratterizzava il lavoro all'Alfa. Un clima che però è cambiato negli ultimi anni, quando si andava verso la chiusura definitiva.
Il rapporto con i capi era aperto. Durante le fasi in cui non si capiva quale fosse il destino di una produzione o di un reparto alcuni di loro hanno dato una mano al sindacato. La Fiat ha certamente cercato di stabilire rapporti più gerarchici. Nonostante la Fiat, però, il rapporto è sempre stato abbastanza buono e collaborativo.
Noi avevamo la vestaglia blu mentre nei reparti produttivi erano in tuta. Anche i capi erano in vestaglia. Progettisti e disegnatori stavano con gli abiti borghesi.
La Fiat aveva cancellato la figura dei capisquadra, persone che guidavano piccoli gruppi di sei, sette lavoratori. Questo richiedeva maggiore responsabilità e professionalità da parte di ciascuno, per qualcuno era un miglioramento, ma non tutti erano in grado di fare questo salto e sono stati costretti a cambiare mansione.

Tra i tecnici e gli operai dell’Alfa c’era sempre stata una visione conflittuale nei confronti della Fiat, per cui la vendita da parte dell'Iri è stata subita e non piaceva a nessuno. Anch’io l’ho vissuta male. Mi sono sentito colpito nel mio orgoglio, di dipendente di un’azienda che produceva vetture di gamma alta, sportive, di buona qualità. Ben altra cosa rispetto alle automobili Fiat. Ci sentivamo in qualche modo defraudati. Ma pensavamo la stessa cosa anche della Ford. Anche se eravamo convinti che mentre la Fiat ci avrebbe presi per assoggettarci, se fosse subentrata la Ford questa avrebbe avuto più interesse a sviluppare lo stabilimento di Arese. Ma sarebbe stata comunque una sconfitta.
Però nel periodo che precedette la vendita alla Fiat avevamo capito che non si poteva andare avanti. L’Alfa viveva un po’ alla giornata. Si vedeva che mancava una guida forte, che alcuni manager non si preoccupavano dei risultati e del destino dell’azienda. Dati i ridotti quantitativi prodotti si era legati al successo di un singolo modello, se sul mercato andava bene, tutto bene, ma se andava male l’azienda era immediatamente in crisi.
Inoltre, periodicamente in Alfa arrivavano i lavoratori di aziende pubbliche che chiudevano. Gli ultimi erano stati quelli dell'Unidal, anche se non ce n’era bisogno. Vicende che davano il segno di una situazione che non avrebbe potuto andare avanti ancora a lungo.
Appena arrivata la Fiat, nel 1987, aveva assunto dei giovani, ma è stato un fuoco di paglia. Nel ’91 c’erano già state le prime casse integrazioni, c’erano problemi di mercato e nel ’94 abbiamo fatto il primo accordo che si diceva avrebbe evitato la chiusura della fabbrica. Secondo me, ha invece pianificato la chiusura nel corso degli anni.

Dalla fine degli anni ottanta al duemila ci sono stati periodi in cui uscivano da Arese anche mille persone all’anno. Il nostro lavoro è stato sempre quello di mettere dei paletti, ma dentro di noi cresceva la consapevolezza che si andava verso la chiusura, non volevamo ammetterlo ma eravamo consapevoli che quello era il destino. Ogni tanto ci illudevamo di poter fermare quella deriva. Non era un ragionamento razionale, ci attaccavamo alla speranza di poter riuscire a fermare l’emorragia delle uscite. Solo negli ultimi anni ci siamo convinti che non c’era più nulla da fare. Dal ’95 in su il percorso era abbastanza chiaro.
Nonostante questo noi cercavamo di parare i colpi, cercando di far uscire la gente con accordi più o meno buoni, ma sostanzialmente in modo indolore. Questo siamo riusciti ad ottenerlo. Sostanzialmente un’azienda di 20mila persone è stata smantellata senza nessun licenziamento. In occasione di certi accordi più favorevoli le persone correvano a mettersi in lista. Addirittura è capitato che qualche operaio si presentasse nell'ufficio del personale a firmare le dimissioni con una bottiglia di spumante per festeggiare. Purtroppo abbiamo sempre fatto accordi per far uscire persone e mai per far assumere qualcuno.

Una delle esperienze più belle che ho vissuto è stata quella dell’accordo del ’94. L’azienda aveva inserito la messa in mobilità di 200 impiegati con l’intesa che sarebbero stati richiamati in Alfa dopo due anni. Alcuni di loro si sono rivolti a noi, ma molti non avevano rapporti e non si fidavano del sindacato. Parecchi erano scioccati, perché fino al giorno prima facevano gli straordinari e nessuno si aspettava di essere estromesso, diversi erano distrutti psicologicamente. Abbiamo fatto un’assemblea e ho proposto loro di lasciarmi numero di telefono e indirizzo, qualcuno si è offerto volontario, e ogni mese, mese e mezzo, li richiamavamo in fabbrica facendo un’assemblea per loro e tenendoli informati sull'evoluzione della situazione. E’ stato importante perché abbiamo evitato che si disperdessero. Nel frattempo abbiamo fatto un accordo con il Comune di Milano, che poi è stato copiato anche da altre amministrazioni locali, per utilizzare il personale in cassa integrazione o in mobilità. L’iniziativa era unitaria, ma in realtà l’abbiamo gestita tutta noi della Fim, con un sostegno della Uilm, mentre la Fiom non si è mai impegnata in questa attività.
Prima della fine dei due anni sono stati effettivamente richiamati in Alfa. Qualche donna si era ormai abituata a lavorare nel centro di Milano ed era dispiaciuta di dover rientrare ad Arese.

Negli ultimi anni, quando è nato il Consorzio di reindustrializzazione che non è mai partito, ho avuto un contrasto con il coordinatore nazionale Fim per il gruppo Fiat, Cosmano Spagnolo. Prima di lui c'era stato Pier Paolo Baretta, ma abbiamo avuto dei problemi anche con lui, non riuscivamo a capirci per cui dopo due anni si è fatto da parte lasciando l'incarico a Spagnolo. Costui era un napoletano molto simpatico e qualche volta con questa simpatia mi fregava pure. In genere, prima di andare al ministero a Roma per qualche trattativa oppure a Torino per un incontro ci riunivamo con lui.
Al Consorzio di reindustrializzazione non era mai arrivata nessuna proposta. La Regione, la Provincia e i Comuni non ci hanno molto sostenuto in questa vicenda. Una volta, però, l'assessore Chiara Bisogni è venuta con noi a Roma ad un incontro con il governo dove è stato definito l'accordo di programma che prevedeva l'ingresso di nuove imprese nell’area di Arese. E stata una vicenda molto contrastata. Tra l’altro Nicola Alberta, responsabile della Fim milanese, non aveva potuto partecipare. Noi tre rappresentanti della Fim non abbiamo firmato l'intesa perché non ci sembrava giusto che arrivassero imprese che si occupavano essenzialmente di recupero di rottami e di smistamento di rifiuti e non eravamo d’accordo che ci andassero a lavorare proprio le persone con problemi di salute. Abbiamo firmato l'accordo 34 mesi dopo, l'abbiamo fatto perché speravamo di poter comunque gestire quel poco che c'era, ma in realtà non c'era nulla da gestire.

Dopo il 2000 la Fim nazionale avrebbe voluto che io continuassi nel mio ruolo all'Alfa Romeo. In quel momento eravamo in circa 4.000 dipendenti, però di aziende diverse. Era arrivata Targaservice che faceva tutt'altro lavoro, con nuovi assunti giovani per fare assistenza al cliente anche attraverso il call center, io però ho deciso di lasciare e me ne sono andato. Non ero arrabbiato, ma mi rendevo conto che non c'erano prospettive di nessun genere, mi sembrava che fosse un'eperienza esaurita, ero stanco e ho lasciato. Al mio posto è subentrato Paolo Milani che ha continuato il mio lavoro.

Per me l'esperienza sindacale è stata molto importante. Mi ha aiutato a superare le difficoltà di tipo professionale, perché mi rendevo conto che non ce l'avrei fatta a seguire le evoluzioni che avvenivano nel mio reparto, inoltre mi ha permesso di fare esperienze che altrimenti non avrei potuto fare. Mi è piaciuto vivere quell'esperienza anche se è stata difficile, anche se certi momenti, sia livello aziendale, che di gruppo, che nazionale col governo, sono stati brutti. Ho partecipato a tutte le mille riunioni che in quegli anni abbiamo fatto ai vari livelli. A volte alle riunioni ho incontrato Luigi Angeletti, la Camusso, che allora seguivano il settore auto. Ho assistito a scontri pesanti interni alle stesse sigle sindacali: la Fim nazionale con Vito Milano, la stessa Fiom tra i loro rappresentanti aziendali e i dirigenti nazionali. Ho visto dirigenti piangere perché venivano trattati dai delegati in modo estremamente duro.

Ho fatto quasi 31 anni di lavoro all'Alfa Romeo e di questa mia esperienza sono soddisfatto. Sono entrato come manovale specializzato e sono finito al sesto livello. Ho cercato di vivere questi anni pienamente, ritengo che quando una persona copre un ruolo debba cercare di svolgerlo al meglio dopo di che, nel momento in cui smette, basta. Devo dire che ho visto che la gente mi ha voluto bene e questo mi basta e con questo ho chiuso.

Oggi faccio parte del direttivo di lega dei pensionati della Cisl nella zona di Rho e due volte alla settimana faccio la regia a Radio missioni, la radio del santuario di Rho.