Sono nato il
30.9.1947 a Rho, dove abito tuttora.
Ho iniziato a
lavorare a 15 anni, per un annetto, in una piccola tipografia, poi sono passato
alla Philco di Rho dove erano occupate circa 150 persone e si producevano
televisori. A 18 anni sono andato per due anni in seminario e ho frequentato il
ginnasio. Tornato dal seminario ho lavorato con un contratto a termine in un
magazzino di stoffe, dove eravamo in una settantina e si preparavano i tessuti
che si spedivano ai sarti di tutta Italia. Infine, con il desiderio di entrare
in una grande fabbrica, sono stato assunto in Alfa Romeo il 5 settembre 1969.
Nel cortile dove abitavo c’era un signore, amico dei miei
genitori, che aveva la fama di riuscire a far assumere persone in Alfa e mia
mamma si è rivolta a lui. Si è detto subito disponibile, mi ha fatto presentare
la domanda e sono stato immediatamente assunto.
Lavorare in Alfa Romeo voleva dire avere un posto sicuro, era
un fatto importante. Stare in Alfa nei primi momenti
era per me motivo di soddisfazione e quando ne parlavo con i miei amici ne ero
orgoglioso. Il salario non era molto differente rispetto a quanto guadagnavo in
precedenza, ma il lavoro era più organizzato.
L’impatto con la
fabbrica è stato forte: il primo giorno ho fatto fatica a trovare il reparto e
per qualche tempo faticavo a individuare lo spogliatoio. Era un paese, un
ambiente enorme. Mi spaventava un po’ la dimensione di tutto quanto, ma
l’accoglienza è stata positiva. L’inserimento alla catena di montaggio, seppure
un poco mi ci fossi abituato alla Philco, invece non è stato dei migliori,
quando vedevo persone più anziane in linea mi dicevo che non avrei potuto
restare una vita a fare quel lavoro. Ma sono stato fortunato.
Sono rimasto in
quel posto dal settembre al maggio dell’anno successivo, poi quando il
capolinea ha chiesto al mio vicino di posto se aveva fatto la scuola di disegno,
siccome lui ha detto di no io mi sono fatto avanti spiegando che avevo fatto i
tre anni di avviamento professionale e un anno e mezzo di disegno alla scuola
serale. Non avevo un diploma, ma il disegno meccanico un po’ lo conoscevo. Nel
giro di due mesi mi sono trovato al Reparto sperimentale “Espe” ad Arese, dove
si lavorava sulle vetture di serie, ma anche sui prototipi. Dopo sei mesi che
stavo in sperimentale sono andato alla pista dell’Alfa a Balocco e mi hanno
riportato a casa alle due e mezza di notte. C’erano macchine che giravano e io
ero al controllo. Quando le vetture in prova rientravano dopo alcuni giri si dovevano
cambiare gli assetti delle gomme, la convergenza o altro e ripartivano. Con i
disegni controllavamo i particolari.
Uno dei mestieri
più interessanti che ho fatto in quel reparto, e che dal punto di vista della
carriera professionale è stato una fortuna, era la messa in piano della scocca.
Si metteva su un piano di riscontro tutto tracciato la scocca e poi si
montavano la pedaliera, il cambio, il motore per verificare con i disegni in
mano che i vari componenti fossero posizionati correttamente e non
interferissero tra loro. Per le ruote, facevamo delle dime sul cerchione,
creavamo le condizioni del movimento della ruota di modo che questa, con gli
scuotimenti e le sterzate, non andasse a interferire con la carrozzeria. Era un
lavoro che mi piaceva, certosino e che ora fanno al computer. Già allora si
cominciavano a utilizzare i computer, ma ci facevano sempre fare le verifiche
pratiche.
Arrivare dalla
catena – che io chiamavo il lavoro del pensatore perché le mani andavano da
sole - alla sperimentale è stato un passaggio importante, era un impegno che mi
dava soddisfazione. Si andava in pista, a volta in macchina accanto ai
collaudatori. Ho avuto qualche attimo di paura, ma alla mia età era bello. Dopo
qualche tempo che ero in quel reparto mi hanno passato equiparato.
Ho lavorato lì fino
all'80, poi la nostra attività di controllo è di fatto sparita e sono stato
trasferito in ufficio a fare il disegnatore. Non il progettista, ma il
particolarista e il lucidista, perché la mia base non mi consentiva di affrontare
i disegni più complessi. Sono stato in quel reparto fino al ’91, quando ho
iniziato il mio impegno come responsabile della Fim nel consiglio di fabbrica.
Sono uscito
dall'azienda nel giugno del 2000 e ho fatto un anno e mezzo di mobilità. Però io
dico che sono andato in pensione al momento in cui ho lasciato la fabbrica.
Appena entrato
in Alfa Romeo sono stato contattato da un delegato della Fiom e poi da quello
Fim. Mi sono accorto che questo era già informato su di me, che sapeva che
arrivavo dall’oratorio e mi sono iscritto alla Cisl. Dopo quattro mesi dal mio
ingresso avevo già la tessera del sindacato in tasca. Mio padre mi diceva che
dovevo pensare più a me stesso, ma io avevo una sensibilità sociale e pensavo
fosse giusto iscriversi al sindacato.
Dopo pochi
giorni che ero in fabbrica c’è stato il mio primo sciopero con picchetto. Ero
preoccupato perché ero in prova e non potevo scioperare, ma i vecchi mi hanno
detto che non dovevo preoccuparmi, mi hanno fermato e non è successo nulla.
Il mio percorso
di maturazione sindacale e politico non è stato però così lineare. Dopo il
seminario ho attraversato un periodo di crisi e mi sono allontanato da un
cammino di fede. Quando sono entrato alla sperimentale sono stato avvicinato da
un rappresentante del Pci e ho partecipato ad un corso di partito a Faggeto
Lario. Hanno capito che ero in cerca di qualcosa, che non ero soddisfatto. Lì
però è andata male, mi sembrava di essere ad un corso di esercizi, ma senza
avere come obiettivo la vita eterna. Poi sono stato avvicinato da un gruppo di
lavoratori di Cl e ho iniziato a incontrarmi con loro. Oggi sono un ciellino “molto
largo”.
I primi anni a
Natale si celebrava la messa di Natale in reparto, poi non è stato più
possibile e allora la celebravamo lì vicino, all'asilo della Valera, con un
prete salesiano che ci aveva dato uno spazio per trovarci fuori dalla fabbrica.
In azienda, infatti, era quasi impossibile trovarci con turni diversi e
dispersi come eravamo in reparti differenti tra circa 20mila addetti. Alla
Valera ci trovavamo per un incontro di preghiera, ma immancabilmente si finiva
per parlare delle condizioni della fabbrica e dei diversi problemi che si
vivevano all'interno.
I reparti erano
segnati politicamente, c’era quello comunista e quello democristiano. In ognuno
c’era la prevalenza di un colore politico. Alla sperimentale, invece, era un
miscuglio, c’era rappresentato l’intero arco costituzionale e c’era perfino gente
che ha sfiorato le Brigate rosse.
Il terrorismo è
stato molto presente in Alfa Romeo. Ricordo quando hanno rapito il primo
dirigente e uno dei suoi colleghi si è suicidato in seguito a queste vicende
per paura e stress. Però non ho vissuto direttamente nessun episodio. Ho
conosciuto persone nel mio reparto che ci sono andate molto vicino. Qualcuno mi
ha confessato che aveva paura di essere arrestato e qualcuno è stato abbastanza
intelligente da fermarsi un attimo prima di entrare in clandestinità.
In consiglio di
fabbrica ho avuto modo di conoscere un delegato della Fim ha fatto il salto nel
terrorismo. Un altro è finito nella colonna Walter Alasia. Ma io ho saputo
delle loro storie solo dopo gli arresti, quando li abbiamo visti nei
telegiornali o letto i loro nomi sui giornali. Anche perché normalmente questi erano
insignificanti nell'iniziativa sindacale, non intervenivano nei dibattiti. Di
qualcuno avevamo il sentore, ma niente di più. Anche se ho visto personalmente
che quando hanno rapito Moro c’erano alcuni che erano contenti e si sono messi
a ballare sul tavolo.
Ho assistito a
processi politici, qualche democristiano portato davanti a tutti e giudicato in
assemblea.
C’era un viale
che univa i reparti, dove c’erano le macchinette per il caffè e dove erano
piazzate tutte le bacheche dove ognuno esponeva i propri manifesti. Da Lotta
Continua alla Dc, oltre che le organizzazioni sindacali. Più che una serie di
bacheche era l’intero viale che era una bacheca unica. C’era anche quella di
Comunione e Liberazione.
A volte la
convivenza non era facile e qualche volta mi hanno minacciato di suonarmele, ma
non è mai successo nulla. Ricordo che in occasione di una tornata elettorale
erano arrivati fuori dai cancelli degli studenti ciellini per fare campagna per
la Democrazia Cristiana. Erano una quindicina di ragazzi, ultimi anni di liceo,
un po’ preoccupati di doversi presentare davanti ai cancelli dell’Alfa. Avevano
allestito un banchetto ed io ero lì con loro con in mano il megafono. Ad un
certo punto siamo stati circondati da un numeroso gruppo di persone che
minacciavano di rovesciare il banchetto. I ragazzi si sono spaventati, io ho
cercato di reagire ma non sapevo come, fortunatamente alcuni di coloro che
stavano con i contestatori hanno alzato la voce chiedendo di lasciarci stare,
che avevamo anche noi il diritto di dire la nostra. A quel punto ho ripreso
vigore e tutto si è risolto senza ulteriori incidenti.
Il consiglio di
fabbrica era composta da circa 400 delegati e coloro che erano legati ai
diversi gruppi politici cercavano di influenzare anche le scelte sindacali.
Anche le nomine nell'ambito dell’esecutivo erano influenzate dai diversi
schieramenti.
Sono stato
eletto delegato per la prima volta nel 1975 nel reparto esperienze come
rappresentante degli equiparati, eravamo una cinquantina in quella condizione e
abbiamo deciso di eleggerci un nostro delegato invece di farci rappresentare
dagli impiegati o dagli operai come era avvenuto fino a quel momento.
La prima
vertenza che ho seguito come delegato è stata quella per far cancellare la
qualifica di equiparati e farli diventare impiegati.
Nel frattempo,
era il 1977, mi sono sposato.
Sono stato
eletto delegato fino alla mia uscita. Ho staccato per meno di un anno perché
ero un po’ stufo delle vicende Fim e delle storie interne all'organizzazione
legate a Piergiorgio Tiboni. Ero in buoni rapporti con alcuni di quelli che poi
hanno fatto la scissione dalla Fim, ma ricordo che quando è venuto in fabbrica
Gianni Italia, segretario nazionale della Fim, l’hanno trattato come una pezza
da piedi. Io non condividevo quei comportamenti. Sapevo che c’erano dei
problemi, però mi è sembrata una cosa inaccettabile. Anche questa vicenda ha
contribuito a farmi abbandonare, ma è durato poco. Sono sempre stato iscritto e
appena si è votato nuovamente per il rinnovo del consiglio di fabbrica sono stato
rieletto. Ho dato la mia disponibilità, ma senza fare nessuna campagna, però i
miei compagni di lavoro mi hanno votato lo stesso.
In occasione del
superamento della Flm non abbiamo avuto particolari problemi. Qualcuno non era
d’accordo e ha mantenuto la tessera unitaria ancora per qualche tempo. In quel
momento ero delegato di reparto e non ho vissuto particolari traumi e nemmeno
ne ho visto da parte di altri di altre sigle. Non ho dovuto fare azioni
particolari per far iscrivere i lavoratori alla Fim, chi proveniva da quella
esperienza è tornato a iscriversi alla Cisl. C’è stato un delegato Fim poi Flm,
che al momento della scelta si è iscritto alla Uilm e questo mi ha colpito,
perché era una persona rappresentativa e non ho capito quella scelta.
Nel ’91 è
arrivata la proposta del distacco sindacale per la Fim. L’azienda in quel
momento era Fiat.
La proposta di
fare il coordinatore per la Fim è arrivata da Vito Milano, che allora era
segretario della Fim di Milano, che ha messo insieme Renzo Comi turoldiano
politicamente di sinistra, Mario Rigo democristiano cane sciolto e Banfi
ciellino, che da allora hanno guidato la Fim in fabbrica lavorando bene
insieme. Mi rendo conto che hanno fatto una grande scommessa su di me. Non
avendo esperienza potevo durare due mesi, sono durato nove anni. E’ andata
bene.
Fare il
distaccato voleva dire agire come un operatore, solo che invece di girare nelle
varie fabbriche, si doveva muovere tra capannoni e uffici di una stessa
azienda. Fim, Fiom e Uilm avevano ognuno un proprio ufficio e io lavoravo in
quello della Cisl. Poi c’era la sala del consiglio di fabbrica, c’era la sala
stampa dove si producevano manifesti e volantini e c’era anche qualche altro
locale a disposizione delle organizzazioni sindacali.
Gli strumenti unitari
per comunicare con i lavoratori erano soprattutto la cartellonistica e le
assemblee tenute da qualcuno del consiglio di fabbrica o da qualche
sindacalista esterno. Solitamente si facevano sei, sette assemblee generali
contemporaneamente per raggiungere tutti i lavoratori. Erano riunioni sempre
molto numerose.
Come Fim
facevamo dei manifesti di organizzazione. Io andavo molto nei reparti, passavo
a trovare i nostri delegati, parlavo con la gente, andavo in mensa insieme.
Negli ultimi
anni con la Fiom abbiamo avuto scontri politici abbastanza forti e pure con i
Cobas, anche se personalmente ho avuto più problemi con la Fiom. Non
condividevo nulla di quanto dicevano i Cobas, ma a loro modo erano più onesti
intellettualmente, mentre la Fiom misurava tutto su basi politiche.
L’Alfa Romeo era
un paese. C’era di tutto, ma complessivamente era un’azienda dove la gente
lavorava. Si sapeva che nei reparti dove si facevano i turni c’erano alcuni che
avevano un secondo lavoro. Nel mio reparto ho visto gente che riusciva a
ritagliarsi gli spazi per studiare e laurearsi.
C’era la
possibilità di lavorar poco, se si voleva, ma non era lo stile che
caratterizzava il lavoro all'Alfa. Un clima che però è cambiato negli ultimi
anni, quando si andava verso la chiusura definitiva.
Il rapporto con
i capi era aperto. Durante le fasi in cui non si capiva quale fosse il destino
di una produzione o di un reparto alcuni di loro hanno dato una mano al
sindacato. La Fiat ha certamente cercato di stabilire rapporti più gerarchici.
Nonostante la Fiat, però, il rapporto è sempre stato abbastanza buono e
collaborativo.
Noi avevamo la
vestaglia blu mentre nei reparti produttivi erano in tuta. Anche i capi erano
in vestaglia. Progettisti e disegnatori stavano con gli abiti borghesi.
La Fiat aveva
cancellato la figura dei capisquadra, persone che guidavano piccoli gruppi di
sei, sette lavoratori. Questo richiedeva maggiore responsabilità e
professionalità da parte di ciascuno, per qualcuno era un miglioramento, ma non
tutti erano in grado di fare questo salto e sono stati costretti a cambiare
mansione.
Tra i tecnici e
gli operai dell’Alfa c’era sempre stata una visione conflittuale nei confronti
della Fiat, per cui la vendita da parte dell'Iri è stata subita e non piaceva a
nessuno. Anch’io l’ho vissuta male. Mi sono sentito colpito nel mio orgoglio,
di dipendente di un’azienda che produceva vetture di gamma alta, sportive, di
buona qualità. Ben altra cosa rispetto alle automobili Fiat. Ci sentivamo in
qualche modo defraudati. Ma pensavamo la stessa cosa anche della Ford. Anche se
eravamo convinti che mentre la Fiat ci avrebbe presi per assoggettarci, se
fosse subentrata la Ford questa avrebbe avuto più interesse a sviluppare lo
stabilimento di Arese. Ma sarebbe stata comunque una sconfitta.
Però nel periodo
che precedette la vendita alla Fiat avevamo capito che non si poteva andare
avanti. L’Alfa viveva un po’ alla giornata. Si vedeva che mancava una guida
forte, che alcuni manager non si preoccupavano dei risultati e del destino
dell’azienda. Dati i ridotti quantitativi prodotti si era legati al successo di
un singolo modello, se sul mercato andava bene, tutto bene, ma se andava male
l’azienda era immediatamente in crisi.
Inoltre,
periodicamente in Alfa arrivavano i lavoratori di aziende pubbliche che
chiudevano. Gli ultimi erano stati quelli dell'Unidal, anche se non ce n’era
bisogno. Vicende che davano il segno di una situazione che non avrebbe potuto
andare avanti ancora a lungo.
Appena arrivata
la Fiat, nel 1987, aveva assunto dei giovani, ma è stato un fuoco di paglia.
Nel ’91 c’erano già state le prime casse integrazioni, c’erano problemi di
mercato e nel ’94 abbiamo fatto il primo accordo che si diceva avrebbe evitato
la chiusura della fabbrica. Secondo me, ha invece pianificato la chiusura nel
corso degli anni.
Dalla fine degli
anni ottanta al duemila ci sono stati periodi in cui uscivano da Arese anche
mille persone all’anno. Il nostro lavoro è stato sempre quello di mettere dei
paletti, ma dentro di noi cresceva la consapevolezza che si andava verso la
chiusura, non volevamo ammetterlo ma eravamo consapevoli che quello era il
destino. Ogni tanto ci illudevamo di poter fermare quella deriva. Non era un
ragionamento razionale, ci attaccavamo alla speranza di poter riuscire a
fermare l’emorragia delle uscite. Solo negli ultimi anni ci siamo convinti che
non c’era più nulla da fare. Dal ’95 in su il percorso era abbastanza chiaro.
Nonostante
questo noi cercavamo di parare i colpi, cercando di far uscire la gente con
accordi più o meno buoni, ma sostanzialmente in modo indolore. Questo siamo
riusciti ad ottenerlo. Sostanzialmente un’azienda di 20mila persone è stata
smantellata senza nessun licenziamento. In occasione di certi accordi più
favorevoli le persone correvano a mettersi in lista. Addirittura è capitato che
qualche operaio si presentasse nell'ufficio del personale a firmare le
dimissioni con una bottiglia di spumante per festeggiare. Purtroppo abbiamo
sempre fatto accordi per far uscire persone e mai per far assumere qualcuno.
Una delle
esperienze più belle che ho vissuto è stata quella dell’accordo del ’94.
L’azienda aveva inserito la messa in mobilità di 200 impiegati con l’intesa che
sarebbero stati richiamati in Alfa dopo due anni. Alcuni di loro si sono
rivolti a noi, ma molti non avevano rapporti e non si fidavano del sindacato.
Parecchi erano scioccati, perché fino al giorno prima facevano gli straordinari
e nessuno si aspettava di essere estromesso, diversi erano distrutti
psicologicamente. Abbiamo fatto un’assemblea e ho proposto loro di lasciarmi
numero di telefono e indirizzo, qualcuno si è offerto volontario, e ogni mese,
mese e mezzo, li richiamavamo in fabbrica facendo un’assemblea per loro e
tenendoli informati sull'evoluzione della situazione. E’ stato importante
perché abbiamo evitato che si disperdessero. Nel frattempo abbiamo fatto un
accordo con il Comune di Milano, che poi è stato copiato anche da altre
amministrazioni locali, per utilizzare il personale in cassa integrazione o in
mobilità. L’iniziativa era unitaria, ma in realtà l’abbiamo gestita tutta noi
della Fim, con un sostegno della Uilm, mentre la Fiom non si è mai impegnata in
questa attività.
Prima della fine
dei due anni sono stati effettivamente richiamati in Alfa. Qualche donna si era
ormai abituata a lavorare nel centro di Milano ed era dispiaciuta di dover
rientrare ad Arese.
Negli ultimi
anni, quando è nato il Consorzio di reindustrializzazione che non è mai
partito, ho avuto un contrasto con il coordinatore nazionale Fim per il gruppo
Fiat, Cosmano Spagnolo. Prima di lui c'era stato Pier Paolo Baretta, ma abbiamo
avuto dei problemi anche con lui, non riuscivamo a capirci per cui dopo due
anni si è fatto da parte lasciando l'incarico a Spagnolo. Costui era un
napoletano molto simpatico e qualche volta con questa simpatia mi fregava pure.
In genere, prima di andare al ministero a Roma per qualche trattativa oppure a
Torino per un incontro ci riunivamo con lui.
Al Consorzio di
reindustrializzazione non era mai arrivata nessuna proposta. La Regione, la Provincia
e i Comuni non ci hanno molto sostenuto in questa vicenda. Una volta, però,
l'assessore Chiara Bisogni è venuta con noi a Roma ad un incontro con il
governo dove è stato definito l'accordo di programma che prevedeva l'ingresso
di nuove imprese nell’area di Arese. E stata una vicenda molto contrastata. Tra
l’altro Nicola Alberta, responsabile della Fim milanese, non aveva potuto partecipare.
Noi tre rappresentanti della Fim non abbiamo firmato l'intesa perché non ci
sembrava giusto che arrivassero imprese che si occupavano essenzialmente di
recupero di rottami e di smistamento di rifiuti e non eravamo d’accordo che ci
andassero a lavorare proprio le persone con problemi di salute. Abbiamo firmato
l'accordo 34 mesi dopo, l'abbiamo fatto perché speravamo di poter comunque
gestire quel poco che c'era, ma in realtà non c'era nulla da gestire.
Dopo il 2000 la
Fim nazionale avrebbe voluto che io continuassi nel mio ruolo all'Alfa Romeo.
In quel momento eravamo in circa 4.000 dipendenti, però di aziende diverse. Era
arrivata Targaservice che faceva tutt'altro lavoro, con nuovi assunti giovani
per fare assistenza al cliente anche attraverso il call center, io però ho
deciso di lasciare e me ne sono andato. Non ero arrabbiato, ma mi rendevo conto
che non c'erano prospettive di nessun genere, mi sembrava che fosse
un'eperienza esaurita, ero stanco e ho lasciato. Al mio posto è subentrato
Paolo Milani che ha continuato il mio lavoro.
Per me l'esperienza
sindacale è stata molto importante. Mi ha aiutato a superare le difficoltà di
tipo professionale, perché mi rendevo conto che non ce l'avrei fatta a seguire
le evoluzioni che avvenivano nel mio reparto, inoltre mi ha permesso di fare
esperienze che altrimenti non avrei potuto fare. Mi è piaciuto vivere quell'esperienza
anche se è stata difficile, anche se certi momenti, sia livello aziendale, che
di gruppo, che nazionale col governo, sono stati brutti. Ho partecipato a tutte
le mille riunioni che in quegli anni abbiamo fatto ai vari livelli. A volte
alle riunioni ho incontrato Luigi Angeletti, la Camusso, che allora seguivano
il settore auto. Ho assistito a scontri pesanti interni alle stesse sigle
sindacali: la Fim nazionale con Vito Milano, la stessa Fiom tra i loro rappresentanti
aziendali e i dirigenti nazionali. Ho visto dirigenti piangere perché venivano
trattati dai delegati in modo estremamente duro.
Ho fatto quasi
31 anni di lavoro all'Alfa Romeo e di questa mia esperienza sono soddisfatto.
Sono entrato come manovale specializzato e sono finito al sesto livello. Ho
cercato di vivere questi anni pienamente, ritengo che quando una persona copre
un ruolo debba cercare di svolgerlo al meglio dopo di che, nel momento in cui
smette, basta. Devo dire che ho visto che la gente mi ha voluto bene e questo
mi basta e con questo ho chiuso.
Oggi faccio
parte del direttivo di lega dei pensionati della Cisl nella zona di Rho e due
volte alla settimana faccio la regia a Radio missioni, la radio del santuario
di Rho.