Sono un perito industriale con specializzazione in chimica industriale. Subito dopo il militare ho fatto domanda alla Montedison e mi hanno chiamato alla sede di Milano, in Foro Bonaparte, per un colloquio, poi sono stato sottoposto a una visita medica e dopo qualche tempo mi hanno comunicato che mi avrebbero ammesso a un corso di formazione residenziale della durata di tre mesi presso la scuola che l’azienda aveva in via Hayek a Milano. Era il 1° ottobre 1968, eravamo tutti periti chimici e il corso in pratica era un approfondimento delle nostre competenze, in più c'erano esperienze di laboratorio. A conclusione del corso, il 2 gennaio 1969 sono stato assunto al Petrolchimico di Mantova, dove sono stato inserito in addestramento in un reparto di produzione affiancato a un tecnico.
Per
i primi due mesi lavoravo di giornata, poi sono passato su turni, essendo la
produzione a ciclo continuo. Ogni squadra era composta da un tecnico e nove
operai e il mio incarico era quello di diventare responsabile di turno,
coordinando la squadra che aveva il compito di condurre l'impianto. Si tratta
di impianti mastodontici che producono centinaia di tonnellate di prodotti al
giorno, piuttosto complessi, pericolosi sia dal punto di vista del processo che
dell'impatto ambientale. Dopo otto mesi di affiancamento sono diventato
responsabile della squadra a tutti gli effetti. Ho fatto questo lavoro per
vent'anni.
Nel
1989, ero nel consiglio di fabbrica da sette anni e componente della
commissione ambiente, sono stato eletto nell'esecutivo del consiglio di
fabbrica e ho avuto un distacco interno diventando responsabile dell’ufficio
sindacale aziendale. Ho ricoperto questo incarico per sei anni fino al 1995,
quando sono uscito per diventare segretario territoriale della Flerica della
provincia di Mantova fino al 2001. Quando la Flerica si è unita con la Filta ed
è nata la Femca sono diventato segretario generale aggiunto, nel 2003 sono
diventato segretario generale e lo sono stato fino alla fine del 2005, quando
sono andato in pensione.
Organizzazione del lavoro
La
Montedison erano l'unica grande società di chimica di base italiana ed era nata
dalla fusione tra la Montecatini e la Edison. La Montecatini aveva il know how,
i brevetti, l'Edison aveva i soldi in cassa dopo la nazionalizzazione
dell'energia elettrica. Il Petrolchimico di Mantova, uno dei diversi
petrolchimici che Montedison aveva in Italia, era uno stabilimento integrato,
nel senso che alcune produzioni servivano per farne altre ed era alimentato dal
Petrolchimico di Marghera attraverso una pipeline e delle bettoline che
seguivano il corso del Po. È stato aperto nel 1956 e si diceva dovesse avere un
grande sviluppo che prevedeva di arrivare fino a cinquemila addetti, in realtà
quei piani di sviluppo sono stati ridimensionati e quando sono entrato io i
lavoratori erano 2.400. Nel mio settore si faceva l’elettrolisi del cloruro di
sodio e si producevano soda caustica, idrogeno e cloro. Il cloro, che è un gas
tossico, veniva in parte convogliato verso un altro reparto per farlo reagire
con etilene e ottenere il dicloroetano, un prodotto intermedio che poi veniva
spedito a Porto Marghera e utilizzato per la produzione del polivinilcloruro,
il Pvc, mentre una parte veniva purificato e liquefatto e quindi caricato su
cisterne per varie destinazioni. L'idrogeno veniva usato in stabilimento per
fare delle idrogenazioni. Si produceva anche dello stirene monomero e polimero,
in sostanza il granulato del polistirolo. Inizialmente nello stabilimento era presente
anche un cracking che produceva etilene, poi è stato fermato e sostituito da un
impianto più grande e più moderno a Marghera, che mandava il gas di etilene via
pipeline a Mantova.
Nel
1992 il mio reparto è stato fermato. Quando sono passato all'ufficio sindacale
interno eravamo già scesi a 1.600 addetti e sei anni dopo, quando sono uscito,
eravamo 1.100. Col passare degli anni la manodopera si è molto specializzata,
gli addetti hanno dovuto fare dei corsi di aggiornamento e col tempo erano
sempre più i diplomati che venivano assunti. Non c'erano donne in fabbrica.
Nello stabilimento c'era anche un grosso Centro ricerca che occupava duecento
persone circa che lavorava per tutto il gruppo e li c'era qualche laureata in
chimica.
Ad
un certo punto l’azienda è passata all'Eni, diventando prima Enimont e quindi
Enichem.
Sindacato
Mi
sono iscritto al sindacato dopo un anno di lavoro in azienda, era il 1969 e ci
sono stati molti scioperi e proteste ma io ero un novellino e i lavoratori
stessi mi dicevano di entrare in fabbrica perché non volevano farmi saltare il
posto di lavoro. Nel mio reparto c'erano dei delegati della Cisl e della Cgil,
non c'era la Uil. Nei primi anni Sessanta Cisl e Cgil avevano più o meno lo
stesso grado di rappresentanza, poi con l'andar del tempo la Cgil ha preso il
sopravvento. Io avevo già una certa sensibilità sociale ed ero attento ai
problemi del mondo del lavoro e ho iniziato a confrontarmi con il delegato
della Cisl e quando mi ha proposto di iscrivermi ho accettato volentieri.
Nell'ufficio sindacale c'erano quattro persone pagate dall'azienda: due Cgil, una
Cisl e una Uil.
In
fabbrica non ci sono mai state altre presenze se non quelle di Cgil Cisl Uil.
Le assemblee erano molto partecipate e vivaci. Partecipavano anche i turnisti
fuori dall'orario di lavoro, perché essendo la produzione a ciclo continuo non
potevano staccarsi dagli impianti e pertanto per loro le assemblee erano
pagate. Era stato fatto un apposito accordo aziendale che prevedeva che i
lavoratori giornalieri partecipassero alle assemblee durante l'orario di lavoro
e potevano staccarsi, mentre i turnisti partecipavano fuori dall'orario di
lavoro. Negli anni Settanta anche i cortei e le manifestazioni esterne erano
molto partecipate, anche quando si trattava di temi generali e non aziendali.
Negli
anni caldi, durante gli scioperi, si fermavano anche gli impianti che però
subivano degli stress molto pesanti, e anche l'ambiente veniva inevitabilmente
inquinato, sia aria che acqua. Alla fine si è riconosciuto che questi scioperi
erano altamente deleteri e si è arrivati a un accordo aziendale per cui quando
c'era sciopero i turnisti erano comandati al lavoro, ma si era convenuto di
portare gli impianti al minimo tecnico e di tenerli in questa condizione un
numero di ore sufficienti a perdere la produzione che corrispondeva alle ore di
sciopero. In questo modo gli impianti non avevano stress e non c'erano
pericoli.
Relazioni industriali
Quando
sono entrato c'erano già delle relazioni con il consiglio di fabbrica, ma la
svolta c'è stata dopo l'autunno caldo. Le nostre richieste trovavano ascolto
nella direzione anche se non eravamo mai soddisfatti, perché le risposte
arrivavano sempre dopo molto tempo, però in quegli anni siamo riusciti a
rovesciare l'azienda come un calzino e se oggi il Petrolchimico di Mantova è
ancora attivo, al contrario di molti altri che sono stati chiusi, è stato
grazie alla nostra azione dall'89 al ‘95. Sono stati fermati impianti, se ne
sono attivati di nuovi, sono state riqualificate le persone, si è intervenuti
sulla qualità delle acque e dell'aria di scarico.
Tutto
questo è avvenuto in un sistema di relazioni sindacali che io considero tra le
più avanzate. Me ne sono reso ben conto quando sono diventato segretario della
Flerica e facevo il confronto con le altre realtà industriali del settore. Mi è
capitato in diverse aziende minori di sentirmi dire che io non dovevo essere
lì, che non avevo niente da fare in quella azienda: "Qui il padrone sono
io".
Contrattazione
L'ambiente
non era dei migliori, c'erano odori che a volte erano insopportabili. Sono
state fatte delle azioni, ma fino al 1970 non sono state sufficienti. Dopo
l'autunno caldo e con una nuova sensibilizzazione degli operai sui temi
ambientali, che coinvolgeva anche la popolazione, e l'arrivo di nuove leggi,
l'azione sindacale è diventata più efficace. Il tema ambientale comunque è
sempre stato al centro dell'iniziativa dei delegati in fabbrica.
Le
persone erano tutte addestrate e conoscevano le sostanze con cui avevano a che
fare, si facevano dei corsi, si spiegavano i rischi e c'erano dei dispositivi
di protezione individuale come casco, maschere antigas, autoprotettore, tute
antiacide, scarpe dielettriche e c'erano procedure molto precise da seguire.
L'azienda stessa si è fatta promotrice della necessità di togliere l'indennità
di nocività dallo stipendio, sostenendo che avesse messo in campo tutti gli
interventi necessari e idonei a evitare che le persone fossero esposte a
rischi. Ogni sei mesi tutti gli operai erano sottoposti a visita medica e se
c'erano problemi noi venivamo informati.
Un
obiettivo della contrattazione aziendale è stato quello di migliorare la
flessibilità. Nel 1969, in base al contratto nazionale, si facevano 42 ore
settimanali, quando sono uscito nel 1995 se ne facevano 36. In azienda abbiamo
costituito la banca delle ore per gestire i momenti di alta e bassa produzione,
abbiamo concordato l'orario flessibile per i giornalieri. Inizialmente l'orario
era 8-12 e 13-17, con una trattativa aziendale abbiamo ottenuto la flessibilità
di mezz’ora in entrata e in uscita eliminando così ogni contenzioso sui ritardi
e discussione sulle multe.
Abbiamo
ottenuto l'istituzione di un premio di produzione al raggiungimento di certi
standard produttivi, differenziati per gruppi di lavoratori, collegati a
obiettivi di produttività, considerando i parametri di qualità, presenza e
redditività.
Abbiamo
rivendicato la possibilità di contrattare dei super minimi, ma l'azienda non ci
sentiva dicendo che i super minimi li distribuiva lei come voleva. Alla fine
abbiamo fatto breccia, abbiamo impiegato parecchi mesi per definire le modalità
di calcolo e abbiamo varato l'elemento variabile della retribuzione.
A
un certo punto l'azienda si è messa in testa di voler eliminare i capi turno
perché pensava che non fossero più necessari e noi abbiamo contrapposto l'idea
di una rotazione tra tutti i componenti della squadra e attraverso la
contrattazione abbiamo ottenuto una certa polivalenza delle diverse figure,
anche tra i responsabili.
Nel
corso degli anni gli impianti sono stati più volte aggiornati e ogni volta che
questo avveniva l'azienda prevedeva un minor utilizzo di manodopera. Su questo
non abbiamo fatto muro perché sapevamo benissimo anche noi che con
l'innovazione tecnologica dove c'era una persona veniva inserito un computer o
un robot e noi non volevamo fare i luddisti e allora cercavamo di scambiare la
riduzione del numero di addetti con una maggiore qualifica.
L'uscita
dei lavoratori, col passaggio da 1.600 a 1.100 addetti, è stata gestita senza
nessun licenziamento. Negli anni Ottanta la mobilità ci dava una mano per
sostenere le uscite, ma abbiamo fatto accordi anche per il ricollocamento di
alcuni lavoratori e la riqualificazione di altri. Anche in questi casi, seppure
fossero processi decisi dalla direzione nazionale, abbiamo sempre gestito
direttamente noi in azienda le trattative, eventualmente con il supporto del
sindacato territoriale. Da parte aziendale arrivavano dei responsabili dalla
sede centrale, però credo di poter dire che i dirigenti locali avessero più
autonomia quando la proprietà era Montedison che non quando è passata all'Eni. Il
rapporto con Eni era più lineare, però le decisioni erano più centralizzate e
abbiamo avuto la sensazione che avessero tolto poteri ai dirigenti locali dello
stabilimento di Mantova.
Welfare aziendale
Siamo
stati tra i primi ad attivare il fondo Fiprem, fondo di previdenza integrativa
Montedison, facendo assemblee congiunte tra dirigenti sindacali e dirigenti
aziendali e abbiamo avuto un grande successo perché la maggior parte dei
lavoratori si è iscritta al fondo. Il Fondo poi è passato a Fondenergia, il
fondo di pensione complementare per i lavoratori del settore.
L'azienda
aveva delle colonie marine e montane e ho mandato mia figlia per due anni al
mare a Riccione, con un controllo da parte di una commissione nazionale
composta anche da lavoratori.
C'era
il Fida, che era un fondo aziendale locale del Petrolchimico di Mantova di
mutuo soccorso per le malattie, alimentato da contributi versati sia dai
lavoratori che dall'azienda. Alla sua guida si alternavano un rappresentante
dei lavoratori e uno dell'azienda, quando presidente era un lavoratore
vicepresidente era un dirigente aziendale e viceversa. Una forma di
bilateralità che contribuiva a sostenere le spese sanitarie dei lavoratori.
In
azienda era attivo un cral che aveva la sua sede all'interno, con una sala per
le conferenze, i campi da tennis. Grazie al circolo ricreativo ho fatto un
corso di fotografia e abbiamo creato una camera oscura completamente attrezzata
a spese dell'azienda.
Era
attiva una scuola aziendale, impegnata soprattutto per organizzare corsi di
addestramento sull'uso delle tecnologie presenti in fabbrica. Negli anni Cinquanta
sono stati organizzati anche dei corsi di alfabetizzazione per i lavoratori.
Per
le visite e gli esami di controllo funzionava un servizio sanitario interno.