domenica 9 agosto 2020

TOMMASO SALVATO - Petrolchimico di Mantova

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017

Sono un perito industriale con specializzazione in chimica industriale. Subito dopo il militare ho fatto domanda alla Montedison e mi hanno chiamato alla sede di Milano, in Foro Bonaparte, per un colloquio, poi sono stato sottoposto a una visita medica e dopo qualche tempo mi hanno comunicato che mi avrebbero ammesso a un corso di formazione residenziale della durata di tre mesi presso la scuola che l’azienda aveva in via Hayek a Milano. Era il 1° ottobre 1968, eravamo tutti periti chimici e il corso in pratica era un approfondimento delle nostre competenze, in più c'erano esperienze di laboratorio. A conclusione del corso, il 2 gennaio 1969 sono stato assunto al Petrolchimico di Mantova, dove sono stato inserito in addestramento in un reparto di produzione affiancato a un tecnico.

Per i primi due mesi lavoravo di giornata, poi sono passato su turni, essendo la produzione a ciclo continuo. Ogni squadra era composta da un tecnico e nove operai e il mio incarico era quello di diventare responsabile di turno, coordinando la squadra che aveva il compito di condurre l'impianto. Si tratta di impianti mastodontici che producono centinaia di tonnellate di prodotti al giorno, piuttosto complessi, pericolosi sia dal punto di vista del processo che dell'impatto ambientale. Dopo otto mesi di affiancamento sono diventato responsabile della squadra a tutti gli effetti. Ho fatto questo lavoro per vent'anni.

Nel 1989, ero nel consiglio di fabbrica da sette anni e componente della commissione ambiente, sono stato eletto nell'esecutivo del consiglio di fabbrica e ho avuto un distacco interno diventando responsabile dell’ufficio sindacale aziendale. Ho ricoperto questo incarico per sei anni fino al 1995, quando sono uscito per diventare segretario territoriale della Flerica della provincia di Mantova fino al 2001. Quando la Flerica si è unita con la Filta ed è nata la Femca sono diventato segretario generale aggiunto, nel 2003 sono diventato segretario generale e lo sono stato fino alla fine del 2005, quando sono andato in pensione.

Organizzazione del lavoro

La Montedison erano l'unica grande società di chimica di base italiana ed era nata dalla fusione tra la Montecatini e la Edison. La Montecatini aveva il know how, i brevetti, l'Edison aveva i soldi in cassa dopo la nazionalizzazione dell'energia elettrica. Il Petrolchimico di Mantova, uno dei diversi petrolchimici che Montedison aveva in Italia, era uno stabilimento integrato, nel senso che alcune produzioni servivano per farne altre ed era alimentato dal Petrolchimico di Marghera attraverso una pipeline e delle bettoline che seguivano il corso del Po. È stato aperto nel 1956 e si diceva dovesse avere un grande sviluppo che prevedeva di arrivare fino a cinquemila addetti, in realtà quei piani di sviluppo sono stati ridimensionati e quando sono entrato io i lavoratori erano 2.400. Nel mio settore si faceva l’elettrolisi del cloruro di sodio e si producevano soda caustica, idrogeno e cloro. Il cloro, che è un gas tossico, veniva in parte convogliato verso un altro reparto per farlo reagire con etilene e ottenere il dicloroetano, un prodotto intermedio che poi veniva spedito a Porto Marghera e utilizzato per la produzione del polivinilcloruro, il Pvc, mentre una parte veniva purificato e liquefatto e quindi caricato su cisterne per varie destinazioni. L'idrogeno veniva usato in stabilimento per fare delle idrogenazioni. Si produceva anche dello stirene monomero e polimero, in sostanza il granulato del polistirolo. Inizialmente nello stabilimento era presente anche un cracking che produceva etilene, poi è stato fermato e sostituito da un impianto più grande e più moderno a Marghera, che mandava il gas di etilene via pipeline a Mantova.

Nel 1992 il mio reparto è stato fermato. Quando sono passato all'ufficio sindacale interno eravamo già scesi a 1.600 addetti e sei anni dopo, quando sono uscito, eravamo 1.100. Col passare degli anni la manodopera si è molto specializzata, gli addetti hanno dovuto fare dei corsi di aggiornamento e col tempo erano sempre più i diplomati che venivano assunti. Non c'erano donne in fabbrica. Nello stabilimento c'era anche un grosso Centro ricerca che occupava duecento persone circa che lavorava per tutto il gruppo e li c'era qualche laureata in chimica.

Ad un certo punto l’azienda è passata all'Eni, diventando prima Enimont e quindi Enichem.

Sindacato

Mi sono iscritto al sindacato dopo un anno di lavoro in azienda, era il 1969 e ci sono stati molti scioperi e proteste ma io ero un novellino e i lavoratori stessi mi dicevano di entrare in fabbrica perché non volevano farmi saltare il posto di lavoro. Nel mio reparto c'erano dei delegati della Cisl e della Cgil, non c'era la Uil. Nei primi anni Sessanta Cisl e Cgil avevano più o meno lo stesso grado di rappresentanza, poi con l'andar del tempo la Cgil ha preso il sopravvento. Io avevo già una certa sensibilità sociale ed ero attento ai problemi del mondo del lavoro e ho iniziato a confrontarmi con il delegato della Cisl e quando mi ha proposto di iscrivermi ho accettato volentieri. Nell'ufficio sindacale c'erano quattro persone pagate dall'azienda: due Cgil, una Cisl e una Uil.

In fabbrica non ci sono mai state altre presenze se non quelle di Cgil Cisl Uil. Le assemblee erano molto partecipate e vivaci. Partecipavano anche i turnisti fuori dall'orario di lavoro, perché essendo la produzione a ciclo continuo non potevano staccarsi dagli impianti e pertanto per loro le assemblee erano pagate. Era stato fatto un apposito accordo aziendale che prevedeva che i lavoratori giornalieri partecipassero alle assemblee durante l'orario di lavoro e potevano staccarsi, mentre i turnisti partecipavano fuori dall'orario di lavoro. Negli anni Settanta anche i cortei e le manifestazioni esterne erano molto partecipate, anche quando si trattava di temi generali e non aziendali.

Negli anni caldi, durante gli scioperi, si fermavano anche gli impianti che però subivano degli stress molto pesanti, e anche l'ambiente veniva inevitabilmente inquinato, sia aria che acqua. Alla fine si è riconosciuto che questi scioperi erano altamente deleteri e si è arrivati a un accordo aziendale per cui quando c'era sciopero i turnisti erano comandati al lavoro, ma si era convenuto di portare gli impianti al minimo tecnico e di tenerli in questa condizione un numero di ore sufficienti a perdere la produzione che corrispondeva alle ore di sciopero. In questo modo gli impianti non avevano stress e non c'erano pericoli.

Relazioni industriali

Quando sono entrato c'erano già delle relazioni con il consiglio di fabbrica, ma la svolta c'è stata dopo l'autunno caldo. Le nostre richieste trovavano ascolto nella direzione anche se non eravamo mai soddisfatti, perché le risposte arrivavano sempre dopo molto tempo, però in quegli anni siamo riusciti a rovesciare l'azienda come un calzino e se oggi il Petrolchimico di Mantova è ancora attivo, al contrario di molti altri che sono stati chiusi, è stato grazie alla nostra azione dall'89 al ‘95. Sono stati fermati impianti, se ne sono attivati di nuovi, sono state riqualificate le persone, si è intervenuti sulla qualità delle acque e dell'aria di scarico.

Tutto questo è avvenuto in un sistema di relazioni sindacali che io considero tra le più avanzate. Me ne sono reso ben conto quando sono diventato segretario della Flerica e facevo il confronto con le altre realtà industriali del settore. Mi è capitato in diverse aziende minori di sentirmi dire che io non dovevo essere lì, che non avevo niente da fare in quella azienda: "Qui il padrone sono io".

Contrattazione

L'ambiente non era dei migliori, c'erano odori che a volte erano insopportabili. Sono state fatte delle azioni, ma fino al 1970 non sono state sufficienti. Dopo l'autunno caldo e con una nuova sensibilizzazione degli operai sui temi ambientali, che coinvolgeva anche la popolazione, e l'arrivo di nuove leggi, l'azione sindacale è diventata più efficace. Il tema ambientale comunque è sempre stato al centro dell'iniziativa dei delegati in fabbrica.

Le persone erano tutte addestrate e conoscevano le sostanze con cui avevano a che fare, si facevano dei corsi, si spiegavano i rischi e c'erano dei dispositivi di protezione individuale come casco, maschere antigas, autoprotettore, tute antiacide, scarpe dielettriche e c'erano procedure molto precise da seguire. L'azienda stessa si è fatta promotrice della necessità di togliere l'indennità di nocività dallo stipendio, sostenendo che avesse messo in campo tutti gli interventi necessari e idonei a evitare che le persone fossero esposte a rischi. Ogni sei mesi tutti gli operai erano sottoposti a visita medica e se c'erano problemi noi venivamo informati.

Un obiettivo della contrattazione aziendale è stato quello di migliorare la flessibilità. Nel 1969, in base al contratto nazionale, si facevano 42 ore settimanali, quando sono uscito nel 1995 se ne facevano 36. In azienda abbiamo costituito la banca delle ore per gestire i momenti di alta e bassa produzione, abbiamo concordato l'orario flessibile per i giornalieri. Inizialmente l'orario era 8-12 e 13-17, con una trattativa aziendale abbiamo ottenuto la flessibilità di mezz’ora in entrata e in uscita eliminando così ogni contenzioso sui ritardi e discussione sulle multe.

Abbiamo ottenuto l'istituzione di un premio di produzione al raggiungimento di certi standard produttivi, differenziati per gruppi di lavoratori, collegati a obiettivi di produttività, considerando i parametri di qualità, presenza e redditività.

Abbiamo rivendicato la possibilità di contrattare dei super minimi, ma l'azienda non ci sentiva dicendo che i super minimi li distribuiva lei come voleva. Alla fine abbiamo fatto breccia, abbiamo impiegato parecchi mesi per definire le modalità di calcolo e abbiamo varato l'elemento variabile della retribuzione.

A un certo punto l'azienda si è messa in testa di voler eliminare i capi turno perché pensava che non fossero più necessari e noi abbiamo contrapposto l'idea di una rotazione tra tutti i componenti della squadra e attraverso la contrattazione abbiamo ottenuto una certa polivalenza delle diverse figure, anche tra i responsabili.

Nel corso degli anni gli impianti sono stati più volte aggiornati e ogni volta che questo avveniva l'azienda prevedeva un minor utilizzo di manodopera. Su questo non abbiamo fatto muro perché sapevamo benissimo anche noi che con l'innovazione tecnologica dove c'era una persona veniva inserito un computer o un robot e noi non volevamo fare i luddisti e allora cercavamo di scambiare la riduzione del numero di addetti con una maggiore qualifica.

L'uscita dei lavoratori, col passaggio da 1.600 a 1.100 addetti, è stata gestita senza nessun licenziamento. Negli anni Ottanta la mobilità ci dava una mano per sostenere le uscite, ma abbiamo fatto accordi anche per il ricollocamento di alcuni lavoratori e la riqualificazione di altri. Anche in questi casi, seppure fossero processi decisi dalla direzione nazionale, abbiamo sempre gestito direttamente noi in azienda le trattative, eventualmente con il supporto del sindacato territoriale. Da parte aziendale arrivavano dei responsabili dalla sede centrale, però credo di poter dire che i dirigenti locali avessero più autonomia quando la proprietà era Montedison che non quando è passata all'Eni. Il rapporto con Eni era più lineare, però le decisioni erano più centralizzate e abbiamo avuto la sensazione che avessero tolto poteri ai dirigenti locali dello stabilimento di Mantova.

Welfare aziendale

Siamo stati tra i primi ad attivare il fondo Fiprem, fondo di previdenza integrativa Montedison, facendo assemblee congiunte tra dirigenti sindacali e dirigenti aziendali e abbiamo avuto un grande successo perché la maggior parte dei lavoratori si è iscritta al fondo. Il Fondo poi è passato a Fondenergia, il fondo di pensione complementare per i lavoratori del settore.

L'azienda aveva delle colonie marine e montane e ho mandato mia figlia per due anni al mare a Riccione, con un controllo da parte di una commissione nazionale composta anche da lavoratori.

C'era il Fida, che era un fondo aziendale locale del Petrolchimico di Mantova di mutuo soccorso per le malattie, alimentato da contributi versati sia dai lavoratori che dall'azienda. Alla sua guida si alternavano un rappresentante dei lavoratori e uno dell'azienda, quando presidente era un lavoratore vicepresidente era un dirigente aziendale e viceversa. Una forma di bilateralità che contribuiva a sostenere le spese sanitarie dei lavoratori.

In azienda era attivo un cral che aveva la sua sede all'interno, con una sala per le conferenze, i campi da tennis. Grazie al circolo ricreativo ho fatto un corso di fotografia e abbiamo creato una camera oscura completamente attrezzata a spese dell'azienda.

Era attiva una scuola aziendale, impegnata soprattutto per organizzare corsi di addestramento sull'uso delle tecnologie presenti in fabbrica. Negli anni Cinquanta sono stati organizzati anche dei corsi di alfabetizzazione per i lavoratori.

Per le visite e gli esami di controllo funzionava un servizio sanitario interno.