giovedì 6 agosto 2020

LUIGI ROVEDA - Direttore del personale Bayer - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017

Ho iniziato a lavorare alla Pomini Farrel che aveva 1.500 dipendenti e adesso ne ha circa 250. Dopo il primo anno e mezzo in cui ho fatto l'analista d’organizzazione, però partecipando attivamente all'autunno caldo dei metalmeccanici, ero anche nel consiglio di fabbrica come rappresentante degli impiegati, di fatto mi sono sempre occupato di personale. All'inizio, nel periodo 1971-1974, come assistente del direttore personale in un'azienda metalmeccanica di Milano un pochino complicata, in cui c'erano anche le Brigate rosse, occupandomi di temi prevalentemente organizzativi e di sviluppo. Poi ho cambiato e nel 1974 sono andato in un'azienda americana che si occupava di diagnostici come direttore personale, anche se in una dimensione piccola. 
Ho avuto la fortuna di avere un direttore generale che mi ha dato tanto spazio. Nel frattempo frequentavo la scuola di direzione aziendale della Bocconi dove mi sono diplomato con due anni di corso serale. Quest'azienda è stata acquistata dalla Bayer e io ho proseguito nel mio lavoro occupandomi anche di altre due realtà del gruppo: quelle della farmaceutica e dei prodotti di largo consumo, finché nel 1987 sono diventato direttore del personale del gruppo Bayer e lo sono stato fino al momento della pensione nel 2000.

Relazioni sindacali innovative nella chimica e farmaceutica sono state possibili perché nel settore è diffusa una cultura di base diversa rispetto ad altri. I processi di trasformazione, di cambiamento sono stati così radicali che hanno insegnato ad affrontare in maniera differente le problematiche delle relazioni industriali, gestendo un processo che è durato da tutti gli anni Ottanta fino agli anni Novanta e che ha trasformato radicalmente il settore.

E’ stato un percorso partito da una base comune, che consentiva di capire i processi che stavano avvenendo e insieme trovare le soluzioni. A mio avviso hanno inciso anche gli uomini, che erano portatori di una cultura che non era pregiudizialmente antagonista, pur difendendo gli interessi delle aziende, che non era aliena dal cercare di capire che cosa proponeva l'altra parte. La minore ideologizzazione da tutte e due le parti è sicuramente l’elemento che ha favorito la cosiddetta diversità del settore chimico. Una diversità dimostrata dalla capacità di trovare soluzioni innovative a problemi che erano comuni a tutti. D'altra parte gli altri contratti hanno copiato dai chimici tutta una serie di soluzioni: dalla banca ore al sistema delle classificazioni. Un sistema che, nella sua complessità dal punto di vista organizzativo, di risposta al modello di funzionamento delle aziende, è molto più avanzato rispetto agli altri. I chimici sono stati anche i primi, io però non c'ero più, a introdurre la possibilità di modifiche “in peius” del contratto. Che non è un grande successo, non è che se noi consentiamo di peggiorare la situazione stiamo facendo delle grandi cose, stiamo semplicemente guardando in maniera non ideologica i processi che avvengono all'interno delle aziende e quindi individuiamo la necessità di dare delle risposte anche alle situazioni di crisi nell'interesse reciproco dei lavoratori e delle imprese.

A volte qualcuno pensa che per non confondere i ruoli bisogna sempre litigare, anche quando non c'è ragione per farlo. Ognuno stava dalla sua parte del tavolo e faceva gli interessi della parte per cui stava seduto lì e non lo faceva in modo acritico. Era una cosa reciproca, perché si trovavano da entrambe le parti persone che avevano lo stesso atteggiamento. Devo dire che mediamente c'era un buon livello di preparazione da parte dei sindacalisti esterni. Le professionalità in azienda erano medio alte e i lavoratori seguivano le vicende sindacali.

Grazie anche al mio impegno sociale e politico io ho vissuto tutte le vicende sindacali in azienda con un atteggiamento mai ideologico. Le relazioni industriali nelle aziende piccole dipendono molto dall'imprenditore, in quelle medio grandi sono fondamentali. Quando hai tre, quattro, cinquemila persone da gestire o si riesce a creare un rapporto corretto con chi fa sintesi rispetto alle esigenze che si generano altrimenti sei finito, perdi il controllo dell'organizzazione, che non puoi lasciare in mano ai capi, perché i capi perseguono dei loro obiettivi. La prima funzione di una direzione personale è una funzione di servizio, chi interpreta questo ruolo come un ruolo di potere è destinato prima o poi a fallire. I direttori del personale si devono legittimare in termini di competenza, devono essere autorevoli, la gente sa di potersi rivolgere a loro perché gli risolveranno i problemi, perché questo è il loro mestiere. Questo modo di agire vale anche nei rapporti con la controparte sindacale.

Durante il periodo in cui ho avuto il ruolo di responsabile delle risorse umane, alla Bayer italiana c'erano circa 3.500 addetti distribuiti in diversi stabilimenti, i due maggiori erano Garbagnate e Filago e poi c'erano altri impianti che derivavano dall'acquisizione della Sigurtà avvenuta negli anni Ottanta. I rapporti erano buoni anche se c'era qualche manifestazione folcloristica, con relazioni efficaci e capacità di trovare le mediazioni. Il sindacato è sempre stato poco ideologizzato, anche la Cgil. I parametri di riflessione erano gli stessi. Il sindacato aveva la capacità di essere propositivo e di entrare nel merito delle questioni. Accordi ne abbiamo fatti e anche innovativi. I premi di risultato li abbiamo fatti molto prima che ci fosse la legge, già verso la fine degli anni Ottanta. Per impostare quest'azione abbiamo fatto un corso di formazione cui hanno partecipato i miei collaboratori, le Rsu e i sindacalisti esterni, gestito da un dirigente della Bayer, in cui abbiamo spiegato la struttura del bilancio della Bayer, gli elementi caratterizzanti, gli aspetti critici, con l’obiettivo di avere un linguaggio comune, perché il linguaggio comune consente di stare sulle cose concrete e non di dover discutere delle filosofie.

Garbagnate era sostanzialmente farmaceutico, poi c'era un impianto chimico e un impianto per la produzione di integratori alimentari per gli animali. Anche quando c'è stato un momento critico negli anni Duemila, per cui abbiamo dovuto chiudere tre stabilimenti, il processo è avvenuto senza traumi. Abbiamo fatto interventi in occasione di dismissioni o acquisizioni di rami d'azienda trovando sempre soluzioni che non hanno creato problemi. Abbiamo dovuto gestire la chiusura di qualche impianto, ma tutto questo non ha creato reazioni particolari anche perché l'azienda ha difeso con le unghie e con i denti lo stabilimento farmaceutico e la Bayer non era ancora in una fase di dismissioni, un processo iniziato subito dopo la mia uscita.

Contrattazione

La contrattazione di secondo livello si è svolta sempre correttamente. Sul salario di risultato abbiamo fatto delle belle cose. Grazie anche alla mia collaboratrice Carla Bernabè, che poi ha preso il mio posto, abbiamo fatto delle operazioni interessanti in un'epoca in cui non si parlava ancora di polivalenza, polifunzionalità in maniera strutturata, soprattutto a Filago. Abbiamo fatto degli accordi che prevedevano percorsi di sviluppo con momenti di formazione, di verifica e di valutazione. Il sindacato aveva una certa tendenza a voler rendere automatico ciò che automatico non poteva essere, ma questo non ha impedito di definire buoni accordi.

Ero nella commissione sindacale di Federchimica e ho partecipato un po' a tutte le vicende che riguardano i contratti nazionali che si sono fatti in quegli anni. A Roma eravamo dei sorvegliati speciali da parte di Confindustria che cercava in tutti i modi di tenerci a bada e noi abbiamo sempre dato credo una mano notevole a Messina sulle questioni sindacali, riaffermando la nostra specificità e non facendoci intruppare. Io, per scelta, condivisa ovviamente dalla direzione dell'azienda, non ho mai voluto fare accordi in Assolombarda se non quando era proprio necessario. La maggior parte degli accordi più significativi li abbiamo fatti in azienda, perché non volevo avere condizionamenti che fossero di natura politica. Nel 1993 eravamo già molto avanti nella definizione di un premio di risultato mentre si stava per definire l'accordo interconfederale e Confindustria emanò una sorta di diktat in cui chiedeva di sospendere tutte le trattative. Io invece, d'accordo con il mio amministratore delegato, sono andato avanti e ho chiuso l'accordo aziendale. Siamo così finiti come reprobi citati sul Sole 24 Ore da parte dell'allora responsabile sindacale di Confindustria, che era l'ex direttore del personale della Fiat. Non è stato molto bello. Il mio amministratore delegato ha scritto una lettera al presidente di Confindustria che ha avuto il suo effetto. Da questo punto di vista il vantaggio era avere una direzione che mi supportava, anche se non sempre era d'accordo.

Quando in Germania sentivano che c'era il rischio di uno sciopero erano preoccupatissimi, continuavano a telefonarci e noi gli spiegavamo che erano cose fisiologiche, se c'è il rinnovo del contratto e fanno tre ore di sciopero è normale. Però questo per noi era un grande strumento di pressione nei confronti della casa madre quando volevamo ottenere qualcosa.

Bayer ha anticipato la direttiva europea sulla creazione dei Comitati aziendali europei. Nel 1990 ha dato vita al primo coordinamento sindacale internazionale ed è stata un'esperienza interessante che ha portato anche a qualche dialettica tra me e miei colleghi tedeschi nel momento in cui io suggerivo di far partecipare anche i rappresentanti dei sindacati esterni mentre loro non condividevano, così abbiamo trovato una mediazione per cui ha partecipato un lavoratore delle Rsu ma indicato come rappresentante della Cisl.

Welfare aziendale

Bayer aveva un fondo pensioni già dal 1966 a cui partecipavano tutti: operai, impiegati e dirigenti, finanziato interamente dall'azienda. Quando nel 1993 è uscita la legge sui fondi pensione si è posto il problema della trasformazione, con l'ipotesi di chiuderlo ed entrare in Fonchim. Però era una cosa complicata e Nicola Messina mi ha dato una mano. Inizialmente il fondo è stato trasformato e abbiamo venduto il vasto patrimonio immobiliare. Abbiamo impiegato quasi dieci mesi per fare l'accordo, ma senza conflitti, perché c'era la necessità di fare degli approfondimenti. E’ stato un bellissimo processo di condivisione delle decisioni, molto partecipato dai lavoratori. Da pensionato sono stato nominato presidente del fondo pensioni dai dipendenti, fino a quando si è fuso in Fonchim.

La Bayer aveva un cral che esiste ancora oggi. Bayer era sempre molto attenta ai bisogni delle persone, certo molto a livello individuale e con un comportamento un poco paternalistico.

Secondo me il welfare integrativo, se viene messo a sistema e se il governo continua a riconoscere delle facilitazioni in termini di fiscalità, come sta facendo, è importante perché intervenire ad esempio a supporto delle rette per gli asili nido o per le scuole materne, è una buona cosa perché dal punto di vista del reddito per il lavoratore è un sostegno importante.