Ho compiuto ottant'anni, sono nato a Imperia. Nel 1980 sono stato eletto segretario generale di Federchimici che nel 1981, con l'unificazione con l’energia, è diventata Flerica e quindi sono stato il primo segretario della nuova categoria e lo sono stato fino al 1986. Incarico che ho lasciato per entrare in segreteria della Cisl. Vengo dal settore metalmeccanico, lavoravo alla Piaggio ed ero stato eletto rappresentante degli impiegati, ma in seguito alle vicende interne alla Cisl e agli schieramenti che si erano formati i chimici mi hanno proposto di andare a Roma, ma io ho risposto di no perché non volevo lasciare né il mio posto di lavoro né il mio mare. Per convincermi sono andati anche da mia moglie e alla fine mi sono trasferito con la moglie e la figlia che aveva due anni. A Roma inizialmente mi sono occupato un po’ di tutte le emergenze della chimica degli anni Settanta.
Quando
sono diventato segretario generale dentro il sindacato era sentita l'esigenza
di cambiare. Siamo riusciti a stabilire rapporti umani, meno formali, con i
rappresentanti delle imprese. Organizzavamo degli incontri durante il gran
premio di Monza e stavamo tre giorni insieme e così costruivamo le basi di
fiducia per fare i contratti. Per questo si pagava un prezzo, che era quello di
stare tranquilli e accontentarsi di un po' di soldi, anche se è vero che i
nostri contratti arrivavano a guadagnare il 35% in più. Per andar bene bisogna
dire di sì, ma dirlo al servizio dei lavoratori, che è un principio
meraviglioso. Nella sostanza pace sociale in cambio di aumenti retributivi.
Allora
c'erano le diverse imprese chimiche e poi c’era Montedison e il potere era
nelle sue mani. Montedison aveva esigenze diverse, per cui prima abbiamo
cercato gli accordi con tutto il resto del settore e poi siamo intervenuti nei
confronti di Montedison, un’azione che era complicata dal fatto che il
segretario generale che mi ha preceduto, Danilo Beretta, era stato presidente della
Commissione interna centrale della Montedison stessa. Questo ha comportato
alcuni condizionamenti. E scalfirli è stato molto difficile. Noi siamo
riusciti, con il sostegno delle altre imprese del settore, a vincere anche in
Montedison e a impostare relazioni industriali nuove. Con Montedison facevamo
trattative lunghissime, mi è capitato di chiedere all'azienda di darci da
dormire.
L'Eni
influiva sulle relazioni sindacali del settore, però lì non c'era niente da
conquistare perché c'erano già tutti gli spazi di cui avevamo bisogno.
Certamente
quelli della chimica e dell’energia erano settori che disponevano di maggiori
risorse, ma noi siamo andati avanti perché li abbiamo costretti con le nostre
azioni, fermando gli impianti, facendo lotte che costavano molto agli
imprenditori e così abbiamo raggiunto obiettivi importanti. Le battaglie si
facevano con i forti e poi i risultati si trasferivano nelle aree più deboli, a
volte invece si partiva proprio dai settori meno significativi. Non sempre,
però, anche i chimici, successivamente, hanno saputo mantenere questa linea.
L'alleanza
con Cofferati è stata facile, perché ha capito che continuare a fare battaglie
di tipo conflittuale da soli non era utile ed era meglio stare insieme e così
durante il periodo della sua guida alla Filcea Cgil abbiamo fatto tutto
unitariamente.
Insieme,
Cgil Cisl Uil del settore e rappresentanti delle imprese, siamo stati più volte
all'estero, sono stati incontri che ci hanno aiutato a conoscere le altre
realtà e a conoscere meglio noi stessi.
Le nuove relazioni
industriali
L'assenza di un nostro reale potere nella società
(i problemi della casa, dell'equità fiscale, dell'occupazione, della produttività
della pubblica amministrazione, ecc., sono infatti insoluti) fa nascere ancora
— soprattutto ha fatto nascere — la tentazione e il pericolo di trasferire
all'interno della fabbrica i problemi di potere e le situazioni di “dualismo di
potere” che si pongono nella società.
Ma come è possibile lavorare per una società
più giusta ed equa e allo stesso tempo danneggiare la struttura delle imprese?
Da questa contraddizione se ne esce abbandonando
l'illusione di “residui politico-rivoluzionari” nell'azione sindacale diretta e
passando alla ricerca di nuovi “contenuti politici” nella programmazione rivendicativa
contrattuale del sindacato, riflettendo anche sul ruolo dell'impresa in cui
lavoriamo. Siamo infatti noi lavoratori e gli imprenditori che creano l'impresa,
che costituisce a sua volta il lievito dell'attività economica.
Questo approccio critico ci ha portato, sulla
base dell’esperienza, a ipotizzare un nuovo assetto di relazioni industriali
alternativo a quello esistente nel passato, soprattutto per quanto riguarda i
suoi motivi ispiratori.
Non abbiamo avuto certezze su tutto questo, né
certezze ce le siamo permesse in presenza dei primi pur significativi
risultati, ma ci è stato chiaro che non si trattava di un modello astratto
costruito a tavolino, pur con molte intuizioni, nella vana ricerca della
soluzione ottimale, ma era la sistemazione, logica e a posteriori, di un
bagaglio di valutazioni e di fatti che sono accaduti.
Abbiamo rivendicato di gestire con lo scambio
(senza l’idillio e senza rappresentanza nei consigli di amministrazione, ma con
la coesistenza competitiva)!
Agli imprenditori abbiamo ribadito che esistono
indubbi interessi contrapposti (compiti dell'impresa sono: sviluppare l'azienda, il profitto, il
proprio mercato; compiti del sindacato sono: sviluppare l'occupazione, la massa
salariale, il proprio ruolo negoziale e di rappresentanza) ma l’importante è
che si riconoscano reciprocamente come legittimi questi compiti e quindi da
perseguire, nello scambio contrattuale.
Banalizzando, in termini provocatori vorremmo
dire: imprenditori, pretendiamo di contare (di gestire) nella definizione delle
strategie, siamo consci della nostra esigenza di gestire l'azienda senza una
somma di rigidità.
Per gestire i fenomeni al meglio dobbiamo codeterminare
in anticipo gli aspetti, la natura, le applicazioni e le conseguenze dell’innovazione
tecnica.
Per altri è solo la fabbrica il centro dello scontro del proletariato contro il capitalismo, è nella fabbrica che il
sindacato esprime il suo peso politico: la società si
modifica di conseguenza.
E negli anni Ottanta questa è la posizione dalla quale
sono nati i
comportamenti del Pci (magari non tutto) e, con tutta evidenza, della componente
comunista della Cgil. I documenti del Pci invitavano la Cgil ad assumere un ruolo sindacale dirigente “nel vivo della classe, dentro
la fabbrica stessa”.
E’,
questa delle relazioni industriali,
un’ulteriore dimostrazione decisiva della più vasta questione sindacale nel
nostro Paese.