giovedì 30 luglio 2020

SAVINO PEZZOTTA 1 - Filta, Bg - Cisl Bg, Lombardia, nazionale

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016


Mio padre non è più tornato a casa. Lui è uno dei 600.000 soldati che si sono rifiutati di fare la guerra e di aderire alla Rsi. È morto in Polonia. Lì ho ritrovato il suo corpo solo pochi anni fa. La mia è naturalmente una famiglia antifascista, mio nonno era partigiano… Mai accettata nessuna dittatura; la mia vera ideologia è antifascista. Per il resto apolide per tutta la mia vita.

Io sono nato a Bergamo il giorno di Natale del ‘43. Mia madre poco tempo dopo si è risposata, con l’uomo che per tutta la vita ho chiamato papà.

I mei abitano a Rosciate. Figlio unico di una famiglia normale di allora. Mia mamma operaia tessile alla Honegger. Mio papà, lavoratore edile, clandestino in Svizzera per lavorare.

Faccio le elementari, e poi vado subito a lavorare: a 11 anni sono in una piccola officina a Rosciate, a 15 operaio tessile alla Reggiani di Bergamo.

La mia formazione nasce dalla passione per leggere, sono fondamentalmente un autodidatta. Leggo molto: già da ragazzo risparmiavo i soldi per compare giornali, libri. Sia romanzi che saggi, politica, filosofia. Più vecchio (a 28 anni), darò gli esami di terza media: un divertimento costante dei ragazzi e dei professori, non avevo chiesto l’esonero per ginnastica, perché me ne ero dimenticato…poi, alla fine, per fortuna, mi hanno evitato di produrmi in evoluzioni…

L’ingresso alla Reggiani, per me è stato come diventare adulto. Una sorta di iniziazione. Portavo a casa uno stipendio interessante. Non bisogna pensare al lavoro minorile, come si potrebbe fare oggi.

Ai tempi era normale, anche voluto…Ho cominciato a fare l’operaio a 5 lire all’ora. L’orario di lavoro era di 8 ore al giorno per 6 giorni la settimana. La grande fabbrica fu quasi un sogno: un posto sicuro con cui contribuire a mantenere i genitori e progettare la propria vita. Ero felice. Per i miei fu una festa.

Pur essendo rimasto affezionato alla fabbrica, non posso dimenticare quali erano le condizioni di lavoro: l’ambiente dal punto di vista salubre era senz’altro negativo, c’erano poche protezioni.

Nel reparto di stamperia a mano il mio turno di lavoro iniziava alle sei del mattino e finiva alle sei di sera, con mezz’ora di pausa per il pranzo. Quando cambiavo il turno, lavoravo dalle sei di sera alle sei di mattina, con pausa a mezzanotte. Bisognava arrivare 10 minuti prima per il timbro, sennò si perdeva mezz’ora di salario…

Anche dal punto di vista delle subordinazioni…non avevi il diritto di parlare, solo obbedire.

Non potevi dire non ho voglia, non era possibile. Questa era la condizione della fabbrica, un’esperienza dura…allora ci lavoravano un migliaio di persone, per metà donne. Anche questa promiscuità per me era una novità. Anche in chiesa stavamo divisi. Fu una bella esperienza di umanità. Io ho della fabbrica un ricordo articolato: da un lato questa oppressione, che mi ricordava uno dei libri fondamentali, “La condizione operaia” di Simone Weil…, dall’altra il senso di una comunità nuova, non più quella chiusa del mio paese, ma aperta, viva, dinamica. La fabbrica aveva questi due aspetti importanti, che mi hanno aiutato a crescere.

Il padrone della fabbrica passava ogni giorno nei reparti. Si fermava a parlare con le ragazze o con i capi, controllava ogni cosa e si arrabbiava se non era in ordine. Ho ancora in mente le lacrime delle ragazze per le prepotenze dei vari capetti. Ne ho viste tante piangere, e mi piace ricordare come una buona parte della crescita economica di quegli anni sia stata pagata con il loro dolore e le loro lacrime.

La Reggiani era un misto di autoritarismo e paternalismo. Il proprietario era in confidenza con gli operai, si informava delle loro famiglie.

C’erano la mutua interna, le colonie marine per i figli, l’assegno per l’onomastico, un sussidio mensile per chi partiva militare…

Noi giovani eravamo stanchi di questa situazione, vivevamo con passione il papato di Giovanni XXIII, ci confrontavamo con i giovani del Pci, maturavamo una voglia mai provata di giustizia e libertà.

La scoperta del sindacato avviene come reazione a un atto di comando da parte del datore.

Vivevo anch’io la tensione di quel tempo, e nel ‘58 mi ero impegnato in campagna elettorale con la Dc. Si respirava aria di futuro e lo scontro ideologico con i comunisti era su quale domani ci attendeva. Erano gli anni del miracolo economico. Il tenore di vita si alzò, ci vestivamo meglio, mangiavamo carne la domenica.

Nel 1959 prende il via la mobilitazione per il Ccnl dei metalmeccanici. Vedo i lavoratori della vicina fonderia scendere in sciopero, il mattino presto assisto ai picchetti. Non era la prima volta. Da ragazzo avevo accompagnato mia madre a occupare l’azienda tessile dove lavorava e che doveva chiudere. Avevo visto i celerini sgomberare i cancelli. Ora tutto mi sembrava diverso, non era più una lotta di difesa. Il vento stava cambiando, anche se non era facile capirlo. C’era poca fiducia nel sindacato aziendale che aveva una presenza debole…il riscatto però sarebbe arrivato.

Nel 1963 si apre una stagione contrattuale difficilissima, a Bergamo ha provocato anche numerosi scontri. Furono ancora e soprattutto i metalmeccanici (gli operai della Magrini assalirono la sede del giornale di Bergamo). I tessili organizzano lo sciopero nazionale per il Ccnl: l’azienda chiese di spostare lo sciopero sabato. Noi ci rifiutammo e Reggiani chiude la fabbrica. Lì decisi per la mia dignità che dovevo entrare nel sindacato.

Alla serrata si rispose con un durissimo sciopero, con picchetti mattutini: il delegato era Maria Belotti. Questa donna che arrivava alle 5 del mattino sui cancelli mi spinse a iscrivermi al sindacato, per reazione al sopruso e alla prepotenza del datore. Era ovvio che mi iscrivessi alla Cisl. Vengo dal mondo cattolico, dalla Dc, a cui ero iscritto da quando avevo 14 anni. Mi piaceva l’idea della Cisl meno ideologica, mi permetteva di essere eretico… prima di allora ho avuto solo contatti sporadici: ti iscrivevi al sindacato e dovevi versare ogni mese la quota. Il sindacato viveva di quote che si raccoglievano tra i lavoratori, la presenza del sindacato esterno c’era, ma era più provinciale, non c’erano le assemblee, si facevano riunioni il sabato e la domenica…in borgo santa Caterina, all’osteria Carbone, un trani di quegli anni…e noi facevamo le riunioni li…

Reggiani tolse tutti i benefici che aveva concesso. Per cui ci fu una reazione dei lavoratori, contraria al sindacato. Per ricostruire la Cisl in azienda ci vollero parecchi anni, ma la spuntammo e sul finire degli anni 60 venni eletto in commissione interna. Non sapevo come dirlo a mia madre che già brontolava per il mio impegno politico.

Quello di allora, era un sindacato rigoroso: quando mi recai dal capo della Cisl nella fabbrica e gli chiesi la tessera, quello non fece salti di gioia. “Vabbè ti do la tessera – disse -, ma tu non arrivi in ritardo (ogni tanto il mattino a vent’anni si dorme volentieri)”, “…a te che importa?”, risposi. “Uno che si iscrive al sindacato e non fa il suo dovere, non è in grado di sostenere le sue posizioni”. In poche parole, mi insegnò un rigore morale incredibile. Un modo di essere…I militanti di quel periodo erano persone con un’alta moralità. Erano i più professionalizzati e avevano gran stima del lavoro e di chi lo svolgeva. Erano dei moderati e questo a volte irritava noi giovani, ma erano seguiti e avevano una grande capacità di mediazione, che col tempo ho imparato a apprezzare.

Condizioni di lavoro: si lavorava per 12 ore al giorno, sotto il rigido comando di capi e capetti, pochi diritti e tanto lavoro.

A quei tempi, la Cisl era contraria a uno Statuto dei lavoratori: riteneva che l’attività dovesse essere tutta nella contrattazione, non ammetteva “intromissioni” della politica. Alla fine si convinse che una tutela diversa anche dell’attività sindacale dentro le fabbriche era necessaria. E lo Statuto veniva salutato come l’ingresso della Costituzione in fabbrica. Oggi i giuslavoristi parlano delle sorti progressive di Renzi: ma se lo Statuto era l’ingresso della Costituzione, la sua abolizione ne è l’uscita? Probabilmente uno dei limiti degli innovatori sul Mdl è la mancanza di senso storico.

Io dico che bisogna cambiare, ma un conto è la modifica di una norma, altro lo stravolgimento dei principi. I diritti acquisiti fossilizzano la condizione, ma i principi che lo hanno generato vanno rispettati.

 

Gli anni 70: le nostre battaglie erano molto semplici, perché avvenivano nel contesto in cui vivevamo, e cioè la fabbrica. Lottavamo per fornire spazi di libertà per la gente e su alcune questioni salariali e di classificazione, “embrioni” del lavoro che porterà a quella grande conquista che è stato l’inquadramento unico.

Vivevamo in un tempo diverso. Oggi non ci si rende conto di una cosa: questo paese in vent’anni, dal ‘50 al ‘70, ha cambiato la fisionomia. Da maggioranza agricola si ritrovò nelle condizioni di “potenza economica”...dieci anni dopo ci fu un’accelerazione enorme che influì anche sulla visione del sindacato, che era progressiva e aggiuntiva. Quando è arrivato il momento di fare i conti con i limiti, però, non è stato in grado di modificare sé stesso: oggi non è più possibile, devi cambiare una mentalità che è andata avanti per 50 anni; oggi la crisi costringe il sindacato a fare i conti con sé, ci sono elementi che il sindacato deve recuperare, cioè tornare un po’ alle origini. Se oggi abbiamo un mondo che ha dei limiti (ambientali, economici…) bisogna tornare alla solidarietà, che non è una cosa spontanea, né predicabile: la devi fare con i fatti concreti.

Inoltre, il sindacato non deve più rivendicare spazi politici, li deve creare. Come abbiamo fatto noi: abbiamo lavorato senza Statuto, senza tutele, li abbiamo creati…oggi bisogna creare una condizione per cui accanto al diritto ci sia un’obbligazione, e la mia obbligazione deve essere verso un altro uomo: non mi metto in campo per il mio diritto, ma abbiamo doveri verso altri uomini con i quali viviamo.

Poi è subentrato nella società il primato dell’economia sull’uomo: dagli anni 80 con la logica liberista tutto deve essere adeguato al mercato, non alla dimensione umana. Il sindacato non è stato pronto…C’è stata una frattura culturale: non si è più pensato che l’unità fosse un “di più”, o per lo meno un meta cui tendere.

 

Un nostro grande successo sono state le 150 ore: con questa operazione il sindacato ha dato a milioni di lavoratori la possibilità di studiare, leggere, scrivere, compiere un salto qualitativo. Cose di questa natura il sindacato dovrebbe riprenderle: a partire dall’alfabetizzazione digitale. Le “nuove 150 ore” su questo segmento riprodurrebbero una rivoluzione.

 

È dopo il 1970 che comincio a conoscere Storti da vicino. Pur lavorando i fabbrica, entro in segreteria provinciale della Filta. Era uso, allora e credo sarebbe ancora cosa buona, che nelle segreteria provinciali fossero presenti militanti che restavano, come si diceva, in produzione.

La presenza in segreteria provinciale mi consentiva di ascoltare e a volte interloquire con Storti. Era molto disponibile con la base; ci ascoltava sia di persona che quanto intervenivamo nelle riunioni con toni aspri e coloriti.

Ho ancora vivo nella mente e negli occhi un suo intervento a una assemblea provinciale dei delegati.

Sul tema dell’unità riuscì a trascinare tutti.

Uscimmo dal palazzetto dello sport di Bergamo entusiasti. Era bravo, sapeva cogliere i nostri sentimenti, con una fantasia e ironia magistrali.

I suo i discorsi, i suoi comizi erano abili e magari retorici, ma su tutto predominava un forte tratto umano, che i lavoratori avvertivano e apprezzavano.

Storti è stato un uomo appassionato e un dirigente vero.

Molti della Cisl temevano una deriva pericolosa, tale da cancellare la sua cultura sindacale, la sua ispirazione cristiana. Noi stavamo con Storti, contro Scalia, che si fece interprete dell’ala tradizionalista.

Mi ricordo che Scalia a Bergamo disse “Partirò con la mia valigetta e andrò in giro a convincere tutti sull’unità”…poi divenne il suo rivale più accanito.

Noi giovani parteggiavamo per Storti, i segretari della Filta erano molto più prudenti. Facevano fatica a pensare di dover ricostruire l’unità con quelli da cui si erano separati non più di 15 anni prima. Noi li incalzavamo avendo con noi larga parte della base operaia.

La Cisl si spaccò. Con Storti si schierarono le strutture del Nord, che seguivano Macario e Carniti, e le categorie dell’industria. Con Scalia si schierò il pubblico impiego di Marini che mantenne una posizione dialogante, i braccianti di Sartori, gli elettrici di Sironi e le federazioni del mezzogiorno.

A Spoleto, con nostra grande delusione, finì in pareggio, dopo qualche settimana Storti ce la fece per poco. Ma fu quanto bastava, e

 

Quel dibattito fu aspro, con toni molto duri, ci aiutò, aiutò tutti a capire anche le ragioni dell’altro, e a far sì che alcune delle ragioni di ognuno si allargassero.

D’altronde, la fine della dialettica interna, la cooptazione dei dirigenti hanno rovinato il sindacato. Io sono diventato sindacalista dopo dieci anni di purga, perché non mi volevano: ma non c’era l’interesse di arrivare a un posto, ma quello che arrivassero le mie idee.

Io sono uscito dalla Reggiani nel ‘74, dopo 10 anni di attività nella fabbrica, mentre lavoravo facendo i turni…facevo anche parte della segreteria provinciale, come persona in produzione, non era male, perché avevi la percezione più diretta di cosa si pensava dove si lavora.

Quando passo fuori dalla Reggiani mi viene una stretta al cuore…tutta la mia giovinezza

Quando esco dalla fabbrica, vado a Grumello come operatore dei tessili. Allora la Filta aveva 15.000 iscritti. Lì ho vissuto alcune delle esperienze tra le più belle. Era sia battaglia che contrattazione. In zona non facevi solo tessile, facevi tutto: si condivideva il lavoro, era scambio non divisione.

Allora il sindacato era molto capito dai lavoratori, ci viveva insieme, viveva lo stesso pathos sociale.

Erano gli anni dello Statuto, ma anche del terrorismo…c’era una grande tensione, era chiaro che qualcosa di nuovo stesse per accadere, che potevi diventavi protagonista della Storia…c’era un clima bello, chi lo criminalizza non lo ha vissuto. Ha aiutato il nostro paese a diventare più responsabile.

C’era anche una statura morale diversa: si veniva da una scuola rigorosa.

I dirigenti locali erano tutti di un livello alto. Mi ricordo Zonca, Pagani, Bombardieri, Belotti…c’era un gruppo dirigente che era forte, anche dal punto di vista culturale. La discussione all’esecutivo era sempre coinvolgente e interessante, si litigava spesso. Se partecipavi al direttivo della Fim sentivi gli operai della Dalmine che facevano dotte citazioni in latino, ma anche quelli che parlavano in dialetto dicevano cose intelligenti e franche.

Quando c’è il dibattito, sei obbligato a ascoltare…senza dibattito è finita.

Degli anni 70 è rimasta una struttura normativa, legislativa, una tradizione…lo stesso Ccnl viene riformulato in quegli anni, come la contrattazione aziendale…oggi la struttura contrattuale è ancora condizionata da quegli anni.

Romani e Pastore hanno riflettuto bene, potevano agganciarsi alla tradizione del sindacato bianco, ma non era più adeguata: la Cisl è stato il sindacato nuovo, che acquisiva dai paesi più industrializzati il modello di sindacato che serviva al paese. Non a caso è la Cisl che si fa carico della volontà di industrializzazione del Paese, la contrattazione aziendale non nasce per portare a casa più soldi, ma per mettere in discussione il sistema del Ccnl (ereditato dal sistema corporativo del fascismo), perché stimolasse l’industrializzazione.

Il convegno di Ladispoli esprime questi elementi: sviluppare una contrattazione a livello aziendale e territoriale per sbloccare il vecchiume dell’industria italiana. Spingere sulla strada dell’innovazione. Una tela che la Cgil riprenderà solo più tardi. Oggi il sindacato deve fare la stessa operazione: guardare dove c’è più progresso per essere adeguato al cambiamento del mercato del lavoro, per essere adeguato alla sfida che troviamo.

Negli anni 70 fu questo: allora mi annoiavo quando mi facevano studiare l’organizzazione del lavoro…l’inquadramento unico…ma bisogna tornare lì: con l’occhio sul futuro.