Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
Sono diplomato perito chimico all'Istituto industriale di Reggio Calabria. Appena terminata la scuola sono stato chiamato dalla Montecatini e l’1 gennaio del 1953 sono stato assunto all'Istituto ricerche Polimeri Montecatini di Terni. Mi sono trasferito lì e ho fatto un tirocinio di sei mesi, poi l’1 luglio sono stato mandato a Castellanza. Sono arrivato con la mia valigia pensando di trovare un posto per dormire in uno dei tre alberghi della città, ma non c’era posto in nessuno e nell'ultimo che ho visitato mi hanno suggerito di andare a Legnano. Io non avevo capito che si trattava di un altro paese.
Intanto si erano fatte le sette di sera e ho domandato dove fosse l'albergo Legnano, così mi hanno spiegato il mio errore e ho finalmente trovato un posto dove dormire. Ho trovato una stanza dove stavamo in tre, poi pian piano la Montecatini, che in quel momento assumeva diverse persone, nell'ambito del villaggio dove aveva già costruito delle case per le famiglie dei lavoratori, ha trasformato una di queste case, che avevano quattro appartamenti, in abitazione per gli scapoli, dove ognuno aveva la sua stanza, e ha fatto anche una mensa scapoli. Era una buona sistemazione, anche se voleva dire essere sempre a disposizione dell'azienda nel momento in cui aveva bisogno. Si lavorava anche mezza giornata di sabato.Al
mio arrivo a Castellanza sono stato inserito nel laboratorio di analisi
chimiche nell'ambito dell'Istituto ricerche, col tempo sono diventato prima assistente
affiancato ad un responsabile laureato e poi sono diventato il responsabile del
laboratorio. Eravamo circa venticinque, trenta tra uomini e donne. Nell'Istituto
di ricerche dell’azienda complessivamente, tra diplomati e laureati, lavoravano
circa duecento persone. In laboratorio realizzavamo degli impianti sperimentali
che poi venivano costruiti per l'utilizzo industriale. Uno dei problemi
principali a un certo punto divenne la questione ambientale e noi facevamo le analisi
dei fumi, dei liquidi, delle acque del fiume Olona. Per quattro mesi sono stato
impegnato presso l'Istituto di analisi chimica del professor Natta, quando
ancora non aveva vinto il premio Nobel, con il compito di fare delle prove per
conto dell'azienda. Sono stato qualche volta all'estero, mi sono occupato del
controllo qualità e ho partecipato a incontri per la definizione di norme Uni
con tecnici di diversi paesi.
Il
1° luglio del 1992 sono andato in pensione.
Organizzazione del lavoro
L’azienda
produceva formaldeide, metanolo, resine ureiche, silocolla.
Il
grosso degli operai erano degli specializzati e quando è arrivata l'automazione
c'è stato un momento di crisi, con un problema di addestramento degli operai
che dovevano lavorare sulle nuove macchine e c'erano persone che venivano in
consiglio di fabbrica a dirci che loro non erano in grado di svolgere la nuova
attività e quindi chiedevano di essere spostati. Molti avevano alle spalle
trent'anni di lavoro manuale e non riuscivano ad adattarsi alle novità.
La
fabbrica è arrivata ad un'occupazione massima di 1.499 addetti, che con l'indotto
arrivava a circa duemila.
Poi
iniziarono a vendere alcuni reparti dello stabilimento ad aziende straniere
austriache e svedesi, assicurando il mantenimento degli occupati. Gli austriaci
hanno acquistato l'impianto della melammina dove lavoravano circa quaranta
persone e che, grazie all'alta pressione, produceva un prodotto di alta qualità,
perché in Austria, a Linz, avevano un impianto a bassa pressione e il prodotto
non era puro come il nostro. Quando venne l'amministratore delegato austriaco a
incontrare anche il consiglio di fabbrica io gli dissi che oltre al contratto
nazionale noi avevamo un contratto aziendale e chiedevamo che venisse
rispettato e lui confermò anche questo impegno. La conclusione di questa
vicenda fu che il nostro impianto venne chiuso e loro portarono i brevetti in
Austria.
Anche
l'impianto di metanolo che produceva quanto era necessario per l'attività
dell'azienda venne chiuso e l’alcol arrivava con le autobotti. Abbiamo fatto
una battaglia per difendere quell'impianto, dicendo anche che il trasporto del
metanolo con le autobotti era pericoloso, ma abbiamo perso.
Poi
arrivò una fabbrica svedese che acquistò un'area dove si producevano delle
resine ureiche e ci lavoravano circa 150 persone. Un altro reparto è stato
venduto a un’azienda italiana.
La
fabbrica di Castellanza è stata venduta pezzo a pezzo. Di fronte allo
smantellamento noi facevamo sciopero, facevamo fare interpellanze in
Parlamento. La Prealpina, il quotidiano locale, appoggiava la nostra battaglia,
ma noi potevamo solo contrapporci perché non c'è mai stata possibilità di
confronto su questo punto. In quel periodo facemmo un’assemblea aperta in mensa
con Pietro Ingrao, che allora era presidente della Camera, e c'erano circa duemila
persone e lui è stato molto attento e disponibile, ma la situazione non è
cambiata.
Relazioni industriali
L'azienda
ha sempre rispettato i diritti sindacali e non ha mai intralciato la nostra
attività. Avevamo i nostri permessi sindacali, facevamo le assemblee. Facevamo quelle
generali e anche assemblee specifiche per i turnisti.
La
fase dello smantellamento dello stabilimento di Castellanza ha rappresentato un
forte trauma per tutti. Un sabato sono arrivate a casa di circa quattrocento
persone le lettere per la messa in cassa integrazione senza preavviso. Fino a
pochi giorni prima si lavorava con continuità e ora si fermava tutto, ma era il
risultato di scelte generali che riguardavano il gruppo Montedison. Avendo
scelto di non aver alcun confronto con noi, abbiamo soltanto potuto reagire con
una mezza occupazione della fabbrica ma niente di più.
In
qualche modo, a partire da metà degli anni Settanta, si sono ripresi il
controllo della fabbrica che negli anni caldi gli era un po' sfuggita di mano.
Dove
l’azienda capiva che le posizioni erano conflittuali assumeva un atteggiamento
di chiusura. Non è escluso che la direzione generale in qualche modo facesse degli
esperimenti su di noi di Castellanza per vedere dove saremmo arrivati.
Complessivamente
le relazioni con i dirigenti dello stabilimento di Castellanza erano buone
anche perché le scelte importanti non le facevano loro, ma a loro volta
applicavano decisioni prese da altri. Qualche periodo di sofferenza c'è
certamente stato, ma se le valuto oggi, vedendo che non c'è più niente di
simile in giro, io posso dire che è stata un'esperienza positiva.
Sindacato
In
azienda c'erano i collettori che raccoglievano l'iscrizione al sindacato e sono
stato avvicinato per propormi l'iscrizione alla Cisl e invitato ad alcuni
incontri fuori dalla fabbrica. Io venivo dalle Acli e in azienda allora
contavano. A un certo punto c'erano le elezioni per la commissione interna e mi
hanno proposto di fare la lista per gli impiegati che in azienda non c'era mai
stata. Io avevo dei dubbi, ma mi hanno detto che mi avrebbe appoggiato anche la
Cgil perché l'obiettivo era quello di rompere la consuetudine per cui nessun
impiegato era impegnato nel sindacato. A quel punto ho accettato e sono stato
eletto con una valanga di voti. La commissione interna era composta di sette persone:
cinque rappresentanti degli operai, uno dei tecnici e uno degli impiegati.
Più
avanti ho avuto nuovi incarichi nella Federchimici, nel consiglio generale
territoriale e poi nel consiglio nazionale e nella commissione quadri nazionale.
Il
consiglio di fabbrica era composto di circa trenta delegati e noi come Cisl
avevamo tra il 60 e il 65%. Siamo arrivati ad avere 420 iscritti, la Cgil era
intorno ai duecento, la Uil era poca cosa.
Ad
un certo punto la Cgil si è spaccata ed è nato il gruppo guidato da Luigi Marra
che in certi reparti era molto presente e organizzato e ci sapeva fare. Sono
rimasti nel consiglio di fabbrica fondando però un sindacato autonomo con la
benedizione di Luciana Castellina, che è venuta in azienda. Tornando da Roma,
dove eravamo per la trattativa per il rinnovo di un contratto nazionale di
lavoro, abbiamo fatto un'assemblea in mensa per informare i lavoratori. Al
momento della conclusione è intervenuto uno di loro e ha detto: la nostra
assemblea non è terminata e sono andati avanti. Sapevano imporsi. Loro facevano
così perché facevano comodo all'azienda e a Marra l'ho detto più volte in
assemblea, perché ogni nostra conquista a loro non andava mai bene e forse essere
divisi alla direzione faceva comodo. L'azienda gli dava corda e sappiamo che
ogni tanto lo stesso Marra telefonava all'amministratore delegato.
Marra
lavorava nel laboratorio nella stanza accanto alla mia. Con me invece lavorava
la moglie. Un giorno stava facendo delle prove e nel versare dei liquidi in una
provetta questa è esplosa rovinandogli entrambe le mani.
Come
consigli di fabbrica periodicamente ci trovavamo con Mantova, Marghera e tutti
gli altri stabilimenti Montecatini, ma i nostri collegamenti avvenivano sempre
attraverso la commissione interna o il consiglio di fabbrica centrale e ci si
trovava essenzialmente quando c'erano i contratti nazionali di lavoro o qualche
contrattazione di gruppo.
Nelle
aree periferiche della fabbrica c'è stato un momento in cui sono comparse delle
stelle a cinque punte delle Brigate rosse, ma non è mai stato individuato
nessuno. Personalmente ho ricevuto delle minacce e il mio telefono è stato
messo sotto controllo, ma non ero il solo, anche altri leader del consiglio di
fabbrica subivano queste minacce, però non è mai accaduto nulla.
Contrattazione
A
Castellanza siamo stati tutti sconfitti, noi come organizzazioni sindacali e anche
Luigi Marra. Un giorno, in una cena riservata a Roma, ci hanno detto che a
Castellanza avremmo dovuto produrre come negli altri stabilimenti del gruppo oppure
avrebbero chiuso. Noi nel gruppo Montedison eravamo considerati un esempio
negativo.
Abbiamo
contrattato molto in azienda e i risultati si ottenevano a seconda della forza
che avevamo. I risultati sono stati purtroppo la monetizzazione dell'ambiente e
della salute e i premi di produzione. Poi c'era il contratto nazionale di
lavoro. Le lotte per il contratto erano l'apice dell'azione sindacale, io ho
partecipato più volte alle trattative.
Sulla
questione dell'inquadramento abbiamo fatto un lavoro enorme, reparto per
reparto, studiando con precisione quali erano le mansioni di ogni addetto sugli
impianti e quindi avanzando delle proposte di inquadramento molto puntuali.
Le
condizioni di lavoro erano brutte. C'era il reparto fenoli, per il quale siamo
andati anche in tribunale, dove il turno terminava mezz'ora prima per dare il
tempo agli operai di bere il latte e farsi la doccia. Uscivano dal reparto neri
e possiamo immaginare cosa inalassero. Su questo abbiamo fatto delle battaglie
molto dure. Negli anni ’69, ’70, nell'ambito del consiglio di fabbrica abbiamo
istituito il gruppo dei laureati e questi hanno dichiarato uno sciopero per
solidarietà ai lavoratori di quell'impianto. Quel giorno sono rimasti fuori
tutti perché era evidente che non si poteva andare avanti a lavorare in quel
modo. Il risultato della nostra battaglia è stata la chiusura dell'impianto.
Per la nostra salute eravamo controllati dal centro medico di Villa Marelli a
Milano.
Un
aspetto sempre al centro dell'attenzione era quello del rischio di infortuni.
Sull'impianto del metanolo fermo per manutenzione abbiamo avuto un incidente
con la morte di un ragazzo. Sul tema dell'ambiente e della salute abbiamo fatto
molti accordi aziendali. Con la contrattazione in parte siamo riusciti a
intervenire e a modificare il livello di pericolosità e la qualità
dell'ambiente, però c'è un limite che è insito proprio nelle caratteristiche
dell'industria chimica. A volte o chiudi o sei costretto ad accettare un certo
livello di pericolo.
Sul
problema degli scarichi nell'Olona abbiamo avuto un'ottima collaborazione con
il sindaco di Castellanza, Luigi Roveda, che era il capo del personale alla
Bayer.
Il
premio di produzione era misto, di gruppo e aziendale. Per noi era difficile legare
i premi ai risultati per il tipo di produzione che facevamo e perché non
potevamo far altro che basarci sui dati che ci forniva l'azienda e quindi non
c'è mai stata una vera trattativa su questo.
Sul
tema dell'organizzazione del lavoro l'azienda ha sempre rivendicato a sé le
scelte e non ha mai accettato di aprire un confronto con i sindacati, date le
caratteristiche della nostra produzione. In azienda, grazie anche
all'esperienza di Marghera, siamo intervenuti sui turni di lavoro rompendo lo
schema dei tre turni per sei giorni e organizzando i turni in modo più conveniente
per la vita delle persone.
Welfare aziendale
Avevamo
una commissione interna centrale del gruppo Montedison che rappresentava tutti
gli stabilimenti dove avevamo la cassa mutua e l’assistenza sanitaria che
viveva di contributi sia da parte dei lavoratori che da parte dell'azienda. In
quel momento Sergio Cofferati era segretario generale lombardo della Filcea
Cgil ed era contrario a queste cose, ma noi come Cisl le sostenevamo e su
questi temi c'era contrattazione. L'amministratore delegato della mutua interna
della Montecatini Milano era Giovanni Marchiani, espresso dai lavoratori.
C'era
il dopolavoro che organizzava delle grandi gite grazie al contributo
dell'azienda. Così come quando è stata istituita la mensa degli scapoli, la
direzione sosteneva tutte queste cose perché era il momento in cui c'era
concorrenza sulla manodopera, infatti ogni tanto c'era qualcuno che lasciava
l'azienda perché trovava condizioni migliori in altre fabbriche del territorio.
C'era
anche una grande biblioteca proprio sotto la mensa e ha avuto un ruolo positivo
per i ragazzi che arrivavano dal Sud perché li ha aiutati a imparare a leggere.
Montecatini
aveva una serie di colonie, dalla Sicilia al Lago Maggiore, a Marina di Massa,
e c'era un centro della Montecatini a Milano che seguiva tutte le colonie e i
figli dei lavoratori che ci andavano e noi avevamo dei permessi per andare a
fare i controlli.