sabato 20 giugno 2020

VALERIANO FORMIS - Flerica, Cisl - Milano, Lombardia

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017

Sono nato in una cascina del cremonese, ho fatto le tre medie e poi l'istituto tecnico serale per meccanico e ho il diploma di tornitore. Mio padre era un bracciante, nelle cascine si faceva un po' di tutto e io ho cominciato subito ad aiutare. A quattordici anni andavo sul trattore. A quindici, nel 1959, il prete del paese mi ha raccomandato per andare a lavorare nell'officina meccanica Olm di Cremona dove sono rimasto fino ai venticinque anni, quando l’ho lasciata per fare il sindacalista.
In azienda ho conosciuto un operaio con cui siamo diventati amici e mi ha iscritto alla Cisl. Il sindacato mi ha proposto di partecipare a un corso di formazione a Bardolino del Garda e ad altre iniziative formative. Tornato dal servizio militare, per tre anni, il sabato mattina, ho frequentato degli incontri formativi a Milano. 

Nell'autunno del 1968 mi hanno fatto la proposta di lasciare l'azienda e sono andato a fare l'operatore orizzontale nel soresinese. Sono rimasto lì un annetto e poi sono stato spostato nella bassa cremonese. Dopo di che, nell'autunno 1969, mi hanno mandato a seguire il corso lungo al Centro studi di Firenze. Al rientro sono andato alla Fim di Crema, una zona a forte presenza metalmeccanica. Nel frattempo mi sono sposato e mi sono trasferito a Crema. Ero lì da poco quando ho avuto una discussione con il segretario generale aggiunto della Cisl, al quale sostanzialmente ho detto che gli avrei spiegato io come si doveva fare la Cisl e questi mi ha rispedito immediatamente a Cremona. Gli ho risposto che a Cremona non sarei tornato e ho tentato di rientrare in azienda, dove però mi ero dimesso e non mi hanno ripreso. Ho cercato anche in qualche altra fabbrica di Crema, ma nessuno aveva voglia di assumere un sindacalista. Fortunatamente avevo un legame con i milanesi con cui avevo fatto il corso di Firenze che, saputa la mia situazione, mi hanno proposto di andare a Milano a fare l'operatore alla Pirelli Bicocca. Moglie e figli sono rimasti a Crema e per dieci anni ho fatto il pendolare. E’ capitato più volte che per seguire le assemblee dei turnisti dovessi dormire in sede con la testa appoggiata sulla scrivania.
Era il 1970, anno caldo delle lotte sindacali, e ne ho viste di tutti i colori. In quegli anni si è consumato il confronto all'interno della Federchimici tra gli innovatori e i conservatori, tra coloro che volevano il mantenimento delle commissioni interne e chi invece puntava sui consigli di fabbrica. Scontro che si è chiuso al congresso del 1973 con la vittoria degli innovatori e chi ha perso è andato alla Uil. Nel frattempo, dopo tre anni alla Pirelli, quando iniziavo a capire dov'ero capitato, nel 1973 sono stato trasferito nella zona di Lambrate dove c'erano le sedi direzionali: Montedison, Snia e altre. Sono rimasto a Lambrate fino al 1977, quando sono stato eletto per la prima volta nella segreteria provinciale dei chimici. Allora la Federchimici di Milano aveva 25mila iscritti con una ventina di operatori. Era una grossa realtà. Nel 1981 sono diventato segretario generale, sostituendo Gigi Perego. Quell’anno abbiamo fatto l'accorpamento con l'energia e siamo diventati Flerica. Nel 1985 sono passato al regionale come segretario generale della Lombardia e ho mantenuto questo incarico fino al 1996. Nell’ottobre di quell’anno sono diventato segretario regionale della Cisl con Savino Pezzotta segretario generale e sono rimasto fino al congresso del 2005. Poi sono finito nel collegio dei probiviri a Roma fino al 2010 e quindi sono tornato in Lombardia come segretario generale dei pensionati.

Operatore alla Pirelli
Quando sono arrivato in Pirelli, a pochi mesi dall'approvazione dello Statuto dei lavoratori, in azienda, come in altre fabbriche, era già stato deciso il superamento delle commissioni interne anticipando il cambiamento. Inizialmente alla Bicocca si era partiti con la costituzione dei comitati di reparto, che avevano la caratteristica di essere diretta espressione dei lavoratori, entrando così in una nuova era nella modalità di fare sindacato. Era un periodo di grande sofferenza dei lavoratori verso il sindacato esterno, che sicuramente era in ritardo rispetto a quanto stava avvenendo. Capitava che quando il sindacato decideva uno sciopero di quattro ore i delegati proclamassero scioperi articolati, a scacchiera, per essere più incisivi. Quando sono arrivato alla sede della Cisl in via Nota, in Pirelli lavoravano circa 13mila persone: 10mila operai e tremila impiegati. Era appena stato costituito il consiglio di fabbrica composto da più di trecento persone che rappresentavano i tre comparti dell’azienda: cavi, gomma e articoli tecnici. Il consiglio di fabbrica aveva ereditato i distacchi della commissione interna che era composta da quindici persone e quindi il consiglio di fabbrica ha eletto quindici delegati che costituivano l'esecutivo, che erano distaccati e con un loro ufficio. Molti di costoro coincidevano con i vecchi commissari, ma ora avevano compiti molto diversi. Era la fase delle lotte continue e delle grandi ristrutturazioni. Quasi ogni giorno si usciva dalla fabbrica per andare in corteo al Pirellone dove c'era la direzione dell'azienda e il sindacato il più delle volte si metteva davanti al corteo, ma in realtà era costretto a seguire le scelte dei rappresentanti di fabbrica. Sotto il Pirellone però i sindacalisti dovevano creare un cordone perché c'era sempre qualcuno che voleva salire a “trovare” i dirigenti. Qualche volta sfondavano, sono anche saliti, magari hanno strappato qualche giacca.
La Pirelli era una tipica azienda manifatturiera e ha tentato più volte di gestire queste situazioni, con il “decretone Pirelli”, con il part-time, con una diversa distribuzione dell'orario di lavoro. L’azienda ha costruito un proprio manifesto, avendo colto la necessità di cambiare, consapevole del fatto che doveva confrontarsi con una situazione esplosiva e ha fatto delle proposte che però in quel clima sono state respinte. Erano proposte che richiedevano una modalità di fare sindacato che ha preso piede nel tempo, ma sono state calate in una realtà che non era ricettiva rispetto a modalità di un sindacato più partecipativo, più responsabilizzato e non conflittuale. Ci sono stati poi tentativi di introdurre i circoli di qualità che avevano sempre la caratteristica di responsabilizzare i lavoratori, di farli lavorare per gruppi. Sono state fatte delle sperimentazioni, ma poi la Pirelli ha subito delle grandi ristrutturazioni e all'inizio degli anni Ottanta è iniziato il declino dell'azienda e quindi è cambiato anche l'approccio del consiglio di fabbrica e del sindacato.
Spesso erano gli impiegati che avevano le posizioni più radicali e rappresentavano anche gli operai,  erano persone più acculturate, che frequentavano mondi esterni, che avevano contatto con i movimenti ed erano più politicizzati dei lavoratori della produzione.
A un certo punto il consiglio di fabbrica, che era unico, è stato spezzato in tre, uno per ognuno dei tre comparti produttivi. Noi abbiamo fatto dure battaglie perché volevamo tenere insieme tutto. La Pirelli ha fatto le sue forzature e ha ottenuto la creazione di tre distinti consigli, ma il sindacato ha capito che doveva cambiare e c'è stata un'evoluzione verso relazioni più responsabili e partecipative, con relazioni industriali incrementali e non a somma zero. La lezione degli anni Settanta è servita per gestire il declino. La Pirelli Bicocca è stata una vicenda particolare all'interno della categoria, per le dimensioni e per la sua esperienza sindacale, una realtà che è andata via via assumendo posizioni partecipative e abbastanza peculiari rispetto a quelle dell'industria manifatturiera, in primis metalmeccanica, dello stesso periodo.

Relazioni industriali
In tutta la categoria, pur con le specificità dei diversi settori: manifatturieri (vetro, ceramica, gomma e plastica), industria di processo (la chimica), agglomerati di settore impiegatizio come Eni e Montedison, le relazioni sindacali partecipative, non meramente conflittuali, sono diventate un connotato diffuso. Salvo i primi anni Settanta, dove ci sono stati confronti molto duri su posizioni che erano espressione di differenti culture, derivanti da realtà produttive diverse. Perché un conto era rappresentare lavoratori che venivano dalla concia, dalle vetrerie o dalle vernici e un conto erano i dipendenti di Montedison e di Eni. Una cultura che è stata frutto anche della presenza di persone con alcune caratteristiche, sia di parte padronale che del sindacato. Così come nel sindacato, anche nelle imprese si è infatti coltivata una cultura innovativa, non c'è stata una rottura ma un'evoluzione. Bisogna sottolineare che non è stata solo la Cisl a far evolvere la cultura della partecipazione, ma anche la Uil e soprattutto la Cgil, che si è mossa in questa direzione con Cofferati, Sclavi, Cazzola, Vigevani, Militello, Guarino, portatori di una visione riformista, che hanno sempre lasciato ai margini le frange più conflittuali. Una cultura che non si è trasferita nella loro Confederazione.
Occorre considerare però che certe relazioni più costruttive erano possibili perché il settore aveva margini economici maggiori rispetto al manifatturiero puro come meccanici, tessili, eccetera. Con maggiori disponibilità economiche si potevano trovare soluzioni ai problemi con relativa facilità. In una fase peraltro di svolta epocale per il sindacato. Salvo quei primi anni, la sintesi tra le varie esperienze si è sempre trovata, prima nei chimici e poi, con l'accorpamento, con l'energia e con le aziende municipalizzate del gas. Si diceva che fosse una categoria moderata, in realtà il gruppo dirigente faceva i conti con i lavoratori di cui era espressione.
Nel settore ci sono state presenze diverse, ad esempio i Cub, che hanno avuto un ruolo forte nella sensibilizzazione del sindacato, portata avanti spesso con modalità che non erano condivise e che trovavano forti reazioni, soprattutto da parte della Cgil. Noi eravamo molto più sensibili alle sollecitazioni dei vari gruppi, tant'è vero che la nostra categoria a un certo punto è diventata molto permeabile all'entrata di queste figure. Addirittura, in una certa fase siamo stati condizionati da queste presenze forti di persone che non provenivano dal tradizionale bacino di formazione della Cisl o di molti che, pur provenendo dal mondo cattolico, avevano assunto posizioni che non erano riconducibili al modello Cisl. Quando questi distribuivano i volantini davanti alla Pirelli i rappresentanti della Cgil li “scrollavano”, noi no. Non erano i più democratici e ci accusavano anche di essere reggitori di queste posizioni più radicali e di non capire la necessità di sviluppare una politica di alleanze con i ceti medi più moderati. Questa situazione è andata avanti fin verso la seconda metà degli anni Settanta. Poi c'è stata una svolta nella Cisl che ha proposto i temi dello 0,5%, del fondo di solidarietà, arrivando fino al referendum sulla scala mobile del 1985. In quegli anni la Cisl ha riorganizzato la sua presenza nelle fabbriche e ha avviato un percorso inverso con l'uscita di queste figure che si sono spostate verso la Cgil.
Contemporaneamente abbiamo iniziato a parlare di diritti di informazione all'interno dell'azienda e si è passati dalla presenza antagonista a un'idea più partecipativa, espressa con la richiesta di informazioni sulle scelte aziendali, sugli investimenti e questo ha rappresentato un significativo cambio culturale. Anche nelle piattaforme contrattuali si è passati dalla richieste prescrittive - chiedo una cosa che mi deve essere data subito - a richieste più programmatiche che danno un risultato nel tempo. I diritti all'informazione, gli interventi sull'ambiente, sull'organizzazione del lavoro, non solo come aspetto rivendicativo ma come approccio partecipativo, incrementale. In questo modo si è consolidata un'evoluzione delle relazioni sindacali.
C'è sempre stato da parte delle imprese un po' di scarto tra ciò che veniva scritto nei contratti che sancivano il modello partecipativo e quello che si realizzava in fabbrica, ma c'è stata anche da parte degli imprenditori un'evoluzione verso rapporti il più possibile costruttivi, che hanno consentito che i chimici anticipassero sempre le soluzioni che poi venivano assunte da altri, anche dalle confederazioni. Il problema della scala mobile, prima che venisse trovata una risposta con Tarantelli, noi l'avevamo già affrontato.
Nel settore chimico forse non è mai stata costruita una forte federazione unitaria, la Fulc, ma non è mai stata nemmeno smantellata perché i rapporti sono sempre stati ricondotti a un modus vivendi che ha consentito di gestire questo modello di relazioni industriali. Un comportamento evoluto di pari passo con una controparte che voleva un'interlocuzione di un certo tipo.

Contrattazione
La questione della contrattazione sui temi dell'ambiente e della sicurezza è stata molto impegnativa. Avevamo situazioni molto complicate come la Sisas di Pioltello, l'Acna di Cesano Maderno e altre realtà difficili come il settore delle vernici. Su questi temi la categoria è sempre stata attenta. Anche da parte dell'associazione delle imprese, salvo alcuni casi, c'era una certa sensibilità e una disponibilità a verificare le situazioni e a intervenire. Però il problema era sempre rappresentato dai costi degli interventi. Per noi l'obiettivo era quello di rendere compatibile l'occupazione con la salute e la sicurezza dei lavoratori. Di fronte alle nostre richieste di interventi sui temi dell'ambiente e la sicurezza alcune aziende hanno lasciato l'Italia per andare a produrre dove le norme erano meno stringenti, altre in qualche modo ci ricattavano mettendo sulla bilancia la sicurezza e l'occupazione. Uno dei casi più eclatanti è stata la chiusura della Montedison di Linate. In molte realtà però si è riusciti a contemperare interventi sulla salute e la difesa dell’occupazione, in molte non si è riusciti, con risposte aziendali che sono andate dalla delocalizzazione alla chiusura. Mediare tra i diversi interessi è sempre stata un'operazione difficilissima e alcune volte si è stati costretti a traccheggiare per anni.
La questione della flessibilità degli orari non è mai stata un problema rilevante, la rigidità dell'organizzazione del lavoro dei primi anni Settanta si è andata affievolendo con l'evoluzione della cultura sindacale, c'è stata una riduzione contrattuale dell'orario di lavoro, ma nel contempo la gente si è resa conto che doveva cambiare le proprie modalità di lavorare.
Inizialmente i premi di produzione erano fissi e si contrattavano aziendalmente. Per le piccole realtà dove non c'era contrattazione il contratto prevedeva un piccolo aumento sostitutivo. Pian piano, all'inizio degli anni Ottanta, si è iniziato a pensare a premi di produzione legati alla produttività contestualmente all'introduzione nei contratti di un approccio partecipativo. Abbiamo fatto tanti corsi di formazione per spiegare come misurare la produttività, quali parametri utilizzare e come pagarla, cosa difficilissima. Perché un conto è farlo in un'azienda manifatturiera e un conto è farlo in realtà impiegatizie o in aziende di processo dove l'apporto di una persona è meno misurabile. I vari sistemi che sono stati individuati non hanno mai avuto grande successo perché era oggettivamente difficile identificare dei parametri adeguati.
Nei primi anni Settanta abbiamo introdotto l'inquadramento unico che poi è stato modificato sul finire dello stesso decennio. L'inquadramento diviso tra operai e impiegati era diventato antistorico rispetto ai cambiamenti dei processi produttivi. Era una suddivisione che incideva in modo significativo su diversi aspetti normativi, dalle ferie ai permessi. In Pirelli c'era la mensa degli operai e quella degli impiegati. Fattori culturali e fattori oggettivi di cambiamento delle strutture produttive hanno imposto di rivedere l'inquadramento. L'inquadramento unico è stato una grande conquista, il superamento di alcune barriere. Molte volte nelle aziende si è usato il passaggio di categoria per rispondere a bisogni di carattere economico delle persone, ma i passaggi di categoria di massa erano tipici della fase pre-partecipativa, eravamo ancora nella fase spiccatamente tayloristica secondo la quale siccome facciamo tutti lo stesso lavoro e tutti dobbiamo mangiare vogliamo tutti la stessa categoria, che è esattamente il contrario della job evaluation che invece dava la categoria sulla base di un punteggio, di una griglia predeterminata, con una paga di posto. Erano due forme rigide che ti incasellavano in una posizione senza alcuna possibilità di evoluzione. Noi invece dicevamo che bisognava valorizzare le potenzialità delle persone intervenendo sull'organizzazione del lavoro, migliorandola, rendendo il lavoro interessante.
I temi dell'egualitarismo, la battaglia per la riduzione dell'orario a 35 ore avevano ascolti diversi, dipendenti dalla complessa configurazione della categoria. Questi temi trovavano maggior attenzione nel manifatturiero, dove si tendeva a dire che in fondo tutti facevano lo stesso lavoro e le differenze non avevano senso, mentre nelle industrie di processo e nelle sedi impiegatizie quella dell'egualitarismo non era assolutamente la parola d'ordine. L’obiettivo era il riconoscimento delle professionalità e si voleva contrattare perché le persone venissero messe in condizione di esplicitare le conoscenze che avevano, contro un'organizzazione del lavoro rigido che ingabbiava le persone senza consentirgli di esprimersi compiutamente né migliorare la propria posizione, né quindi avere aumenti di stipendio o passaggi di categoria.
Superata la fase più rivendicativa e antagonista, il processo che ha portato anche al cambiamento della normativa contrattuale è stata la richiesta di partecipare, erano le richieste sull'ambiente, l'organizzazione del lavoro, gli investimenti. Eravamo ben consapevoli che se non si facevano gli investimenti le aziende non si sarebbero sviluppate e la richiesta di investimenti è un po' l'espressione di quel salto che è avvenuto. La prima parte del contratto nazionale chiedeva informazioni e investimenti, i diritti di consultazione. E nelle aziende, tra i rappresentanti dei lavoratori, c'era la capacità di indicare dove indirizzare gli investimenti, non erano semplici richieste generiche. Il sindacato si è evoluto perché bisognava conoscere i processi produttivi ma anche il mercato.
Le ristrutturazioni, le riduzioni di personale sono state generalmente affrontate in modo da evitare interventi drastici. Questo è stato frutto della cultura diffusa nel settore, della volontà di non esasperare le situazioni, della disponibilità delle aziende a gestire i processi avendo dei margini di manovra dal punto di vista economico. Si sono usati gli ammortizzatori sociali, con qualche utilizzo perverso perché scaricava i costi sullo Stato e quindi sulla collettività. Il mercato del lavoro era ancora in una situazione che consentiva di trovare un nuovo posto. Non ci sono state situazioni particolarmente drammatiche grazie a tutto un insieme di fattori, ma credo che l'elemento determinante sia stato quello culturale. Più volte si sono fatte richieste di assunzioni a livello aziendale dove si riteneva che fossero necessarie e di fronte a processi di ristrutturazione si è proposto di affrontarli in termini di territorio, col tentativo di mettere insieme più aziende per costruire una mobilità da posto a posto, ma sono cose che non hanno prodotto molto, perché spesso l'azienda era restia a farsi governare dall’associazione d’impresa territoriale, che avrebbe in qualche modo dovuto guidare i processi.
Non sono mancate le situazioni difficili, le chiusure, problemi ambientali gravi e quindi non occorre mitizzare la situazione, però bisogna dire che tutto questo ha fatto da sfondo a una impostazione di relazioni collaborative, la consapevolezza che si superano i problemi attraverso accordi incrementali, ci si deve guadagnare entrambi. Un comportamento che ha creato problemi tra le organizzazioni sindacali, in particolare in casa Cgil, con la categoria che è stata ripetutamente richiamata dalla Confederazione, ma problemi ci sono stati anche tra le associazioni imprenditoriali, in particolare Federchimica è stata richiamata in modo deciso da Confindustria. C'era chi non vedeva di buon occhio questa modalità di tenere le relazioni tra imprese e sindacati, che però alla fine si sono dimostrate vincenti rispetto ad altri settori.

Welfare aziendale
Le diffuse esperienze di welfare aziendale nel settore sono dovute sicuramente alla dimensione delle aziende, a una cultura e a una disponibilità. È interessante sottolineare come questa esperienza si sia voluta distruggere con l'avvento della riforma sanitaria. Un pezzo del sindacato ha detto che si era tutti uguali, che quelle realtà di welfare erano dei privilegi e quindi andavano chiuse. Noi come Cisl non eravamo di questa opinione, le volevamo mantenere e non volevamo che l'uguaglianza si facesse al ribasso, se c'era qualcuno che aveva qualcosa in più bisognava fare in modo che la tenesse e infatti dove abbiamo potuto abbiamo resistito. Non siamo riusciti alla Pirelli Bicocca, non siamo riusciti alla Montedison dove sono state chiuse le mutue aziendali, mentre ad esempio la cassa mutua è stata mantenuta all'Eni. La nostra posizione era che le vecchie casse mutue andassero trasformate, adeguate rispetto all'arrivo della riforma sanitaria, non chiuse. Su questi temi ci sono stati scontri duri tra noi e la Cgil.
Il welfare aziendale è stato quasi sempre gestito insieme tra imprese e lavoratori ed è stato vissuto come un'esperienza importante, tant'è vero che quando è stato smantellato abbiamo litigato e nel caso della Pirelli abbiamo discusso anche con la nostra categoria nazionale che invece ha aderito al Piano aziendale.
Anche intorno alla chiusura degli impianti sportivi, dei dopolavoro si sono svolte battaglie e confronti sul tema del paternalismo e sono pagine un po' oscure della vicenda sindacale, in alcuni casi ci sono stati dei ripensamenti e alcune strutture sono state mantenute.