Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
Sono
nato in una cascina del cremonese, ho fatto le tre medie e poi l'istituto
tecnico serale per meccanico e ho il diploma di tornitore. Mio padre era un
bracciante, nelle cascine si faceva un po' di tutto e io ho cominciato subito
ad aiutare. A quattordici anni andavo sul trattore. A quindici, nel 1959, il
prete del paese mi ha raccomandato per andare a lavorare nell'officina
meccanica Olm di Cremona dove sono rimasto fino ai venticinque anni, quando
l’ho lasciata per fare il sindacalista.
In
azienda ho conosciuto un operaio con cui siamo diventati amici e mi ha iscritto
alla Cisl. Il sindacato mi ha proposto di partecipare a un corso di formazione
a Bardolino del Garda e ad altre iniziative formative. Tornato dal servizio
militare, per tre anni, il sabato mattina, ho frequentato degli incontri
formativi a Milano.
Nell'autunno del 1968 mi hanno fatto la proposta di
lasciare l'azienda e sono andato a fare l'operatore orizzontale nel soresinese.
Sono rimasto lì un annetto e poi sono stato spostato nella bassa cremonese.
Dopo di che, nell'autunno 1969, mi hanno mandato a seguire il corso lungo al
Centro studi di Firenze. Al rientro sono andato alla Fim di Crema, una zona a
forte presenza metalmeccanica. Nel frattempo mi sono sposato e mi sono
trasferito a Crema. Ero lì da poco quando ho avuto una discussione con il
segretario generale aggiunto della Cisl, al quale sostanzialmente ho detto che
gli avrei spiegato io come si doveva fare la Cisl e questi mi ha rispedito
immediatamente a Cremona. Gli ho risposto che a Cremona non sarei tornato e ho
tentato di rientrare in azienda, dove però mi ero dimesso e non mi hanno
ripreso. Ho cercato anche in qualche altra fabbrica di Crema, ma nessuno aveva
voglia di assumere un sindacalista. Fortunatamente avevo un legame con i
milanesi con cui avevo fatto il corso di Firenze che, saputa la mia situazione,
mi hanno proposto di andare a Milano a fare l'operatore alla Pirelli Bicocca.
Moglie e figli sono rimasti a Crema e per dieci anni ho fatto il pendolare. E’
capitato più volte che per seguire le assemblee dei turnisti dovessi dormire in
sede con la testa appoggiata sulla scrivania.
Era
il 1970, anno caldo delle lotte sindacali, e ne ho viste di tutti i colori. In
quegli anni si è consumato il confronto all'interno della Federchimici tra gli
innovatori e i conservatori, tra coloro che volevano il mantenimento delle
commissioni interne e chi invece puntava sui consigli di fabbrica. Scontro che
si è chiuso al congresso del 1973 con la vittoria degli innovatori e chi ha
perso è andato alla Uil. Nel frattempo, dopo tre anni alla Pirelli, quando
iniziavo a capire dov'ero capitato, nel 1973 sono stato trasferito nella zona
di Lambrate dove c'erano le sedi direzionali: Montedison, Snia e altre. Sono
rimasto a Lambrate fino al 1977, quando sono stato eletto per la prima volta
nella segreteria provinciale dei chimici. Allora la Federchimici di Milano
aveva 25mila iscritti con una ventina di operatori. Era una grossa realtà. Nel
1981 sono diventato segretario generale, sostituendo Gigi Perego. Quell’anno
abbiamo fatto l'accorpamento con l'energia e siamo diventati Flerica. Nel 1985
sono passato al regionale come segretario generale della Lombardia e ho
mantenuto questo incarico fino al 1996. Nell’ottobre di quell’anno sono
diventato segretario regionale della Cisl con Savino Pezzotta segretario
generale e sono rimasto fino al congresso del 2005. Poi sono finito nel collegio
dei probiviri a Roma fino al 2010 e quindi sono tornato in Lombardia come
segretario generale dei pensionati.
Operatore alla Pirelli
Quando
sono arrivato in Pirelli, a pochi mesi dall'approvazione dello Statuto dei
lavoratori, in azienda, come in altre fabbriche, era già stato deciso il
superamento delle commissioni interne anticipando il cambiamento. Inizialmente
alla Bicocca si era partiti con la costituzione dei comitati di reparto, che
avevano la caratteristica di essere diretta espressione dei lavoratori,
entrando così in una nuova era nella modalità di fare sindacato. Era un periodo
di grande sofferenza dei lavoratori verso il sindacato esterno, che sicuramente
era in ritardo rispetto a quanto stava avvenendo. Capitava che quando il
sindacato decideva uno sciopero di quattro ore i delegati proclamassero
scioperi articolati, a scacchiera, per essere più incisivi. Quando sono
arrivato alla sede della Cisl in via Nota, in Pirelli lavoravano circa 13mila persone:
10mila operai e tremila impiegati. Era appena stato costituito il consiglio di
fabbrica composto da più di trecento persone che rappresentavano i tre comparti
dell’azienda: cavi, gomma e articoli tecnici. Il consiglio di fabbrica aveva
ereditato i distacchi della commissione interna che era composta da quindici
persone e quindi il consiglio di fabbrica ha eletto quindici delegati che
costituivano l'esecutivo, che erano distaccati e con un loro ufficio. Molti di
costoro coincidevano con i vecchi commissari, ma ora avevano compiti molto
diversi. Era la fase delle lotte continue e delle grandi ristrutturazioni.
Quasi ogni giorno si usciva dalla fabbrica per andare in corteo al Pirellone
dove c'era la direzione dell'azienda e il sindacato il più delle volte si
metteva davanti al corteo, ma in realtà era costretto a seguire le scelte dei
rappresentanti di fabbrica. Sotto il Pirellone però i sindacalisti dovevano
creare un cordone perché c'era sempre qualcuno che voleva salire a “trovare” i
dirigenti. Qualche volta sfondavano, sono anche saliti, magari hanno strappato
qualche giacca.
La
Pirelli era una tipica azienda manifatturiera e ha tentato più volte di gestire
queste situazioni, con il “decretone Pirelli”, con il part-time, con una
diversa distribuzione dell'orario di lavoro. L’azienda ha costruito un proprio
manifesto, avendo colto la necessità di cambiare, consapevole del fatto che
doveva confrontarsi con una situazione esplosiva e ha fatto delle proposte che
però in quel clima sono state respinte. Erano proposte che richiedevano una
modalità di fare sindacato che ha preso piede nel tempo, ma sono state calate
in una realtà che non era ricettiva rispetto a modalità di un sindacato più
partecipativo, più responsabilizzato e non conflittuale. Ci sono stati poi
tentativi di introdurre i circoli di qualità che avevano sempre la
caratteristica di responsabilizzare i lavoratori, di farli lavorare per gruppi.
Sono state fatte delle sperimentazioni, ma poi la Pirelli ha subito delle
grandi ristrutturazioni e all'inizio degli anni Ottanta è iniziato il declino
dell'azienda e quindi è cambiato anche l'approccio del consiglio di fabbrica e
del sindacato.
Spesso
erano gli impiegati che avevano le posizioni più radicali e rappresentavano
anche gli operai, erano persone più
acculturate, che frequentavano mondi esterni, che avevano contatto con i movimenti
ed erano più politicizzati dei lavoratori della produzione.
A
un certo punto il consiglio di fabbrica, che era unico, è stato spezzato in tre,
uno per ognuno dei tre comparti produttivi. Noi abbiamo fatto dure battaglie
perché volevamo tenere insieme tutto. La Pirelli ha fatto le sue forzature e ha
ottenuto la creazione di tre distinti consigli, ma il sindacato ha capito che
doveva cambiare e c'è stata un'evoluzione verso relazioni più responsabili e
partecipative, con relazioni industriali incrementali e non a somma zero. La
lezione degli anni Settanta è servita per gestire il declino. La Pirelli
Bicocca è stata una vicenda particolare all'interno della categoria, per le
dimensioni e per la sua esperienza sindacale, una realtà che è andata via via
assumendo posizioni partecipative e abbastanza peculiari rispetto a quelle
dell'industria manifatturiera, in primis metalmeccanica, dello stesso periodo.
Relazioni industriali
In
tutta la categoria, pur con le specificità dei diversi settori: manifatturieri
(vetro, ceramica, gomma e plastica), industria di processo (la chimica),
agglomerati di settore impiegatizio come Eni e Montedison, le relazioni
sindacali partecipative, non meramente conflittuali, sono diventate un connotato
diffuso. Salvo i primi anni Settanta, dove ci sono stati confronti molto duri
su posizioni che erano espressione di differenti culture, derivanti da realtà
produttive diverse. Perché un conto era rappresentare lavoratori che venivano
dalla concia, dalle vetrerie o dalle vernici e un conto erano i dipendenti di
Montedison e di Eni. Una cultura che è stata frutto anche della presenza di
persone con alcune caratteristiche, sia di parte padronale che del sindacato.
Così come nel sindacato, anche nelle imprese si è infatti coltivata una cultura
innovativa, non c'è stata una rottura ma un'evoluzione. Bisogna sottolineare
che non è stata solo la Cisl a far evolvere la cultura della partecipazione, ma
anche la Uil e soprattutto la Cgil, che si è mossa in questa direzione con
Cofferati, Sclavi, Cazzola, Vigevani, Militello, Guarino, portatori di una visione
riformista, che hanno sempre lasciato ai margini le frange più conflittuali.
Una cultura che non si è trasferita nella loro Confederazione.
Occorre
considerare però che certe relazioni più costruttive erano possibili perché il
settore aveva margini economici maggiori rispetto al manifatturiero puro come
meccanici, tessili, eccetera. Con maggiori disponibilità economiche si potevano
trovare soluzioni ai problemi con relativa facilità. In una fase peraltro di
svolta epocale per il sindacato. Salvo quei primi anni, la sintesi tra le varie
esperienze si è sempre trovata, prima nei chimici e poi, con l'accorpamento,
con l'energia e con le aziende municipalizzate del gas. Si diceva che fosse una
categoria moderata, in realtà il gruppo dirigente faceva i conti con i lavoratori
di cui era espressione.
Nel
settore ci sono state presenze diverse, ad esempio i Cub, che hanno avuto un
ruolo forte nella sensibilizzazione del sindacato, portata avanti spesso con
modalità che non erano condivise e che trovavano forti reazioni, soprattutto da
parte della Cgil. Noi eravamo molto più sensibili alle sollecitazioni dei vari
gruppi, tant'è vero che la nostra categoria a un certo punto è diventata molto
permeabile all'entrata di queste figure. Addirittura, in una certa fase siamo
stati condizionati da queste presenze forti di persone che non provenivano dal
tradizionale bacino di formazione della Cisl o di molti che, pur provenendo dal
mondo cattolico, avevano assunto posizioni che non erano riconducibili al
modello Cisl. Quando questi distribuivano i volantini davanti alla Pirelli i
rappresentanti della Cgil li “scrollavano”, noi no. Non erano i più democratici
e ci accusavano anche di essere reggitori di queste posizioni più radicali e di
non capire la necessità di sviluppare una politica di alleanze con i ceti medi
più moderati. Questa situazione è andata avanti fin verso la seconda metà degli
anni Settanta. Poi c'è stata una svolta nella Cisl che ha proposto i temi dello
0,5%, del fondo di solidarietà, arrivando fino al referendum sulla scala mobile
del 1985. In quegli anni la Cisl ha riorganizzato la sua presenza nelle
fabbriche e ha avviato un percorso inverso con l'uscita di queste figure che si
sono spostate verso la Cgil.
Contemporaneamente
abbiamo iniziato a parlare di diritti di informazione all'interno dell'azienda
e si è passati dalla presenza antagonista a un'idea più partecipativa, espressa
con la richiesta di informazioni sulle scelte aziendali, sugli investimenti e
questo ha rappresentato un significativo cambio culturale. Anche nelle
piattaforme contrattuali si è passati dalla richieste prescrittive - chiedo una
cosa che mi deve essere data subito - a richieste più programmatiche che danno
un risultato nel tempo. I diritti all'informazione, gli interventi
sull'ambiente, sull'organizzazione del lavoro, non solo come aspetto
rivendicativo ma come approccio partecipativo, incrementale. In questo modo si
è consolidata un'evoluzione delle relazioni sindacali.
C'è
sempre stato da parte delle imprese un po' di scarto tra ciò che veniva scritto
nei contratti che sancivano il modello partecipativo e quello che si realizzava
in fabbrica, ma c'è stata anche da parte degli imprenditori un'evoluzione verso
rapporti il più possibile costruttivi, che hanno consentito che i chimici
anticipassero sempre le soluzioni che poi venivano assunte da altri, anche
dalle confederazioni. Il problema della scala mobile, prima che venisse trovata
una risposta con Tarantelli, noi l'avevamo già affrontato.
Nel
settore chimico forse non è mai stata costruita una forte federazione unitaria,
la Fulc, ma non è mai stata nemmeno smantellata perché i rapporti sono sempre
stati ricondotti a un modus vivendi che ha consentito di gestire questo modello
di relazioni industriali. Un comportamento evoluto di pari passo con una
controparte che voleva un'interlocuzione di un certo tipo.
Contrattazione
La
questione della contrattazione sui temi dell'ambiente e della sicurezza è stata
molto impegnativa. Avevamo situazioni molto complicate come la Sisas di
Pioltello, l'Acna di Cesano Maderno e altre realtà difficili come il settore
delle vernici. Su questi temi la categoria è sempre stata attenta. Anche da
parte dell'associazione delle imprese, salvo alcuni casi, c'era una certa
sensibilità e una disponibilità a verificare le situazioni e a intervenire.
Però il problema era sempre rappresentato dai costi degli interventi. Per noi
l'obiettivo era quello di rendere compatibile l'occupazione con la salute e la
sicurezza dei lavoratori. Di fronte alle nostre richieste di interventi sui
temi dell'ambiente e la sicurezza alcune aziende hanno lasciato l'Italia per
andare a produrre dove le norme erano meno stringenti, altre in qualche modo ci
ricattavano mettendo sulla bilancia la sicurezza e l'occupazione. Uno dei casi
più eclatanti è stata la chiusura della Montedison di Linate. In molte realtà
però si è riusciti a contemperare interventi sulla salute e la difesa dell’occupazione,
in molte non si è riusciti, con risposte aziendali che sono andate dalla
delocalizzazione alla chiusura. Mediare tra i diversi interessi è sempre stata
un'operazione difficilissima e alcune volte si è stati costretti a
traccheggiare per anni.
La
questione della flessibilità degli orari non è mai stata un problema rilevante,
la rigidità dell'organizzazione del lavoro dei primi anni Settanta si è andata
affievolendo con l'evoluzione della cultura sindacale, c'è stata una riduzione
contrattuale dell'orario di lavoro, ma nel contempo la gente si è resa conto
che doveva cambiare le proprie modalità di lavorare.
Inizialmente
i premi di produzione erano fissi e si contrattavano aziendalmente. Per le
piccole realtà dove non c'era contrattazione il contratto prevedeva un piccolo
aumento sostitutivo. Pian piano, all'inizio degli anni Ottanta, si è iniziato a
pensare a premi di produzione legati alla produttività contestualmente
all'introduzione nei contratti di un approccio partecipativo. Abbiamo fatto
tanti corsi di formazione per spiegare come misurare la produttività, quali
parametri utilizzare e come pagarla, cosa difficilissima. Perché un conto è
farlo in un'azienda manifatturiera e un conto è farlo in realtà impiegatizie o
in aziende di processo dove l'apporto di una persona è meno misurabile. I vari
sistemi che sono stati individuati non hanno mai avuto grande successo perché
era oggettivamente difficile identificare dei parametri adeguati.
Nei
primi anni Settanta abbiamo introdotto l'inquadramento unico che poi è stato
modificato sul finire dello stesso decennio. L'inquadramento diviso tra operai
e impiegati era diventato antistorico rispetto ai cambiamenti dei processi
produttivi. Era una suddivisione che incideva in modo significativo su diversi
aspetti normativi, dalle ferie ai permessi. In Pirelli c'era la mensa degli
operai e quella degli impiegati. Fattori culturali e fattori oggettivi di
cambiamento delle strutture produttive hanno imposto di rivedere
l'inquadramento. L'inquadramento unico è stato una grande conquista, il
superamento di alcune barriere. Molte volte nelle aziende si è usato il
passaggio di categoria per rispondere a bisogni di carattere economico delle
persone, ma i passaggi di categoria di massa erano tipici della fase pre-partecipativa,
eravamo ancora nella fase spiccatamente tayloristica secondo la quale siccome
facciamo tutti lo stesso lavoro e tutti dobbiamo mangiare vogliamo tutti la
stessa categoria, che è esattamente il contrario della job evaluation che
invece dava la categoria sulla base di un punteggio, di una griglia
predeterminata, con una paga di posto. Erano due forme rigide che ti
incasellavano in una posizione senza alcuna possibilità di evoluzione. Noi
invece dicevamo che bisognava valorizzare le potenzialità delle persone
intervenendo sull'organizzazione del lavoro, migliorandola, rendendo il lavoro
interessante.
I
temi dell'egualitarismo, la battaglia per la riduzione dell'orario a 35 ore
avevano ascolti diversi, dipendenti dalla complessa configurazione della
categoria. Questi temi trovavano maggior attenzione nel manifatturiero, dove si
tendeva a dire che in fondo tutti facevano lo stesso lavoro e le differenze non
avevano senso, mentre nelle industrie di processo e nelle sedi impiegatizie
quella dell'egualitarismo non era assolutamente la parola d'ordine. L’obiettivo
era il riconoscimento delle professionalità e si voleva contrattare perché le
persone venissero messe in condizione di esplicitare le conoscenze che avevano,
contro un'organizzazione del lavoro rigido che ingabbiava le persone senza
consentirgli di esprimersi compiutamente né migliorare la propria posizione, né
quindi avere aumenti di stipendio o passaggi di categoria.
Superata
la fase più rivendicativa e antagonista, il processo che ha portato anche al
cambiamento della normativa contrattuale è stata la richiesta di partecipare,
erano le richieste sull'ambiente, l'organizzazione del lavoro, gli
investimenti. Eravamo ben consapevoli che se non si facevano gli investimenti
le aziende non si sarebbero sviluppate e la richiesta di investimenti è un po'
l'espressione di quel salto che è avvenuto. La prima parte del contratto
nazionale chiedeva informazioni e investimenti, i diritti di consultazione. E
nelle aziende, tra i rappresentanti dei lavoratori, c'era la capacità di
indicare dove indirizzare gli investimenti, non erano semplici richieste
generiche. Il sindacato si è evoluto perché bisognava conoscere i processi
produttivi ma anche il mercato.
Le
ristrutturazioni, le riduzioni di personale sono state generalmente affrontate
in modo da evitare interventi drastici. Questo è stato frutto della cultura
diffusa nel settore, della volontà di non esasperare le situazioni, della
disponibilità delle aziende a gestire i processi avendo dei margini di manovra
dal punto di vista economico. Si sono usati gli ammortizzatori sociali, con
qualche utilizzo perverso perché scaricava i costi sullo Stato e quindi sulla
collettività. Il mercato del lavoro era ancora in una situazione che consentiva
di trovare un nuovo posto. Non ci sono state situazioni particolarmente
drammatiche grazie a tutto un insieme di fattori, ma credo che l'elemento
determinante sia stato quello culturale. Più volte si sono fatte richieste di
assunzioni a livello aziendale dove si riteneva che fossero necessarie e di
fronte a processi di ristrutturazione si è proposto di affrontarli in termini
di territorio, col tentativo di mettere insieme più aziende per costruire una
mobilità da posto a posto, ma sono cose che non hanno prodotto molto, perché spesso
l'azienda era restia a farsi governare dall’associazione d’impresa
territoriale, che avrebbe in qualche modo dovuto guidare i processi.
Non
sono mancate le situazioni difficili, le chiusure, problemi ambientali gravi e
quindi non occorre mitizzare la situazione, però bisogna dire che tutto questo
ha fatto da sfondo a una impostazione di relazioni collaborative, la
consapevolezza che si superano i problemi attraverso accordi incrementali, ci
si deve guadagnare entrambi. Un comportamento che ha creato problemi tra le
organizzazioni sindacali, in particolare in casa Cgil, con la categoria che è
stata ripetutamente richiamata dalla Confederazione, ma problemi ci sono stati
anche tra le associazioni imprenditoriali, in particolare Federchimica è stata
richiamata in modo deciso da Confindustria. C'era chi non vedeva di buon occhio
questa modalità di tenere le relazioni tra imprese e sindacati, che però alla
fine si sono dimostrate vincenti rispetto ad altri settori.
Welfare aziendale
Le
diffuse esperienze di welfare aziendale nel settore sono dovute sicuramente alla
dimensione delle aziende, a una cultura e a una disponibilità. È interessante
sottolineare come questa esperienza si sia voluta distruggere con l'avvento
della riforma sanitaria. Un pezzo del sindacato ha detto che si era tutti
uguali, che quelle realtà di welfare erano dei privilegi e quindi andavano
chiuse. Noi come Cisl non eravamo di questa opinione, le volevamo mantenere e
non volevamo che l'uguaglianza si facesse al ribasso, se c'era qualcuno che
aveva qualcosa in più bisognava fare in modo che la tenesse e infatti dove
abbiamo potuto abbiamo resistito. Non siamo riusciti alla Pirelli Bicocca, non
siamo riusciti alla Montedison dove sono state chiuse le mutue aziendali,
mentre ad esempio la cassa mutua è stata mantenuta all'Eni. La nostra posizione
era che le vecchie casse mutue andassero trasformate, adeguate rispetto
all'arrivo della riforma sanitaria, non chiuse. Su questi temi ci sono stati
scontri duri tra noi e la Cgil.
Il
welfare aziendale è stato quasi sempre gestito insieme tra imprese e lavoratori
ed è stato vissuto come un'esperienza importante, tant'è vero che quando è
stato smantellato abbiamo litigato e nel caso della Pirelli abbiamo discusso
anche con la nostra categoria nazionale che invece ha aderito al Piano
aziendale.
Anche
intorno alla chiusura degli impianti sportivi, dei dopolavoro si sono svolte
battaglie e confronti sul tema del paternalismo e sono pagine un po' oscure
della vicenda sindacale, in alcuni casi ci sono stati dei ripensamenti e alcune
strutture sono state mantenute.