Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Sono
nata a Milano il 6 febbraio 1953, ho frequentato l'istituto magistrale e mi
sono diplomata, abilitata e successivamente ho vinto il concorso magistrale.
Sono nata in una tipica famiglia milanese con un capofamiglia che lavorava come
insegnante, mia mamma era casalinga con tre figli. Con la presenza del nonno,
papà di mio padre, che essendo rimasto solo viveva con noi. Economicamente si
viveva con tutte le difficoltà di una famiglia di cinque, sei persone e con un
unico reddito da lavoro statale, in quegli anni piuttosto basso. Una famiglia
cattolica, socialmente attiva soprattutto nei confronti delle persone in difficoltà,
con insegnamenti da questo punto di vista che mi sono portata per tutta la vita.
Ho
sempre voluto insegnare, sempre in conflitto con mio padre che voleva che
anch’io, come mio fratello maggiore, avessi una laurea, perché una laurea in
quei tempi veniva considerata come un'affermazione, soprattutto per una donna.
Io invece ho voluto fortemente frequentare l'istituto magistrale e il mio desiderio
era assolutamente quello di insegnare alle elementari. Peraltro, già prima del
conseguimento del diploma magistrale avevo casualmente cominciato a insegnare a
leggere e a scrivere ad alcune famiglie di immigrati dal sud d’Italia che
abitavano in baracche sorte vicino a casa mia, accanto al parco Lambro. L'ultimo
anno delle magistrali, al pomeriggio, andavo in queste catapecchie a insegnare,
in particolare alle donne. Una iniziativa nata per caso, un giorno ero andata a
fare la spesa al supermercato e vicino a me c’era una giovane signora, io avevo
la nota della spesa e lei mi fa: “Come vorrei anch'io poter fare la nota della spesa”,
“E perché non la fa?” dico io, “Perché non so leggere”. Mi ha spiegato che
abitava nelle baracche e da lì è iniziata questa mia attività. Un’esperienza
che ricordo con molto piacere.
Appena
diplomata sono andata ad insegnare all'Istituto del Sacro cuore vicino a casa e
sono rimasta lì per cinque anni. L’istituto era retto dalle suore. Faceva parte
della nostra parrocchia e il mio parroco, che sapeva che in casa non si poteva rimanere
senza lavorare per troppo tempo, mi ha raccomandata alle suore. Sono andata a
fare il colloquio e mi hanno assunta subito. Sono uscita dall’istituto
magistrale a luglio e a settembre ho cominciato a lavorare come maestra
elementare e ho fatto tutto un ciclo dalla prima alla quinta, con piccoli tutti
figli di famiglie molto ricche e con molti problemi, cosa che ho riscontrato
anche quando sono passata nella scuola statale. Allora non c’erano i concorsi per
entrare nella scuola pubblica e dovevano passare anni prima che si facessero. Al
primo concorso che c'è stato mi sono iscritta e l’ho vinto. Ho cominciato a
fare tutto quello che si poteva, ero assetata di conoscenza e volevo anche
provare me stessa, per cui ho iniziato a insegnare nelle periferie. L’anno più bello
del mio insegnamento è stato alla scuola di Monluè, dove nessuno voleva andare
perché era ad alto rischio e dove la fatica maggiore è stata quella di entrare
in sintonia con le famiglie dei bambini, dopo di che sono stata amata
tantissimo. Perché chi viene emarginato e trova qualcuno che ha voglia di
capirlo e di aiutarlo in quelle situazioni viene apprezzato. Lì ho visto i
problemi di famiglie di altro tipo, ma le difficoltà sono sempre le stesse.
Dopo
ho fatto l’insegante di sostegno. Sono stata tra le prime, quando nella scuola
si è deciso di chiudere le classi speciali, che erano delle specie di ghetti
dove venivano relegati i bambini che avevano qualche difficoltà e che da quel
momento furono inseriti con gli altri ragazzi. Ma la scuola non era pronta e
quindi si incominciò sperimentalmente a utilizzare insegnanti che aiutassero a
formare dei progetti per l’inserimento di quei bambini. A me la cosa era
piaciuta e mi sono applicata. Il primo giorno di assegnazione delle cattedre, in
un cortile della scuola di via della Spiga dove venivano riuniti tutti gli
insegnanti che dovevano prendere la cattedra perché vincitori di concorso, ho
visto un signore anziano, piccoletto che è salito su un paracarro e gridava:
“Ragazzi, ragazze voi non sapete che cosa vi aspetta, voi dovete capire che
avrete bisogno del sindacato perché avrete tanti problemi nell’insegnamento” e
poi distribuiva dei volantini. Quello è stato il mio primo contatto con il
sindacato, era Paolo Teresio Sant'Agostino che era in segreteria del Sinascel
Cisl di Milano, il sindacato a cui poi mi sono iscritta. Sono tornata a casa e
ne ho parlato con mio papà il quale, sentendo il nome Cisl, vicino al mondo
cattolico, mi ha detto che andava bene iscriversi e così ho fatto.
Appena
arrivata nella scuola elementare Leonardo da Vinci, siccome mi piaceva parlare
nei collegi docenti, sono stata subito individuata. Ho cominciato dalla
gavetta, il mio primo incarico è stato di delegata di scuola. In quell’istituto
c’era una delegata molto brava, ma molto anziana, e lei era passata in tutte le
classi dove c’erano gli insegnanti nuovi per chiedere se volevano iscriversi
alla Cisl. Quando è arrivata a me io le ho detto che ero già iscritta. Pazza di
gioia, ha pensato subito “ma allora questa è una che è convinta” e da quel
momento ha mandato me alle riunioni che si facevano in zona. C’era
un'organizzazione molto ramificata, molto presente nel territorio, in ogni zona
c’era qualcuno che andava alle riunioni centrali, quelle che si facevano in via
Tadino e dopo un po’ di tempo ho iniziato ad andarci io. Tutto questo è
successo in pochissimo tempo, in un anno. Come delegata di base avevo soprattutto
il compito di raccogliere le deleghe. Poi la delegata anziana ha trasferito a
me i compiti di rappresentanza e sono diventata il punto di riferimento della
Cisl nella mia scuola. Il lavoro era soprattutto quello di ascolto dei problemi
dei colleghi e di trasferimento alle istanze superiori, ma anche di confronto
con il capo d'istituto quando c'erano problemi di organizzazione del lavoro. Un
impegno molto legato alle problematiche dei colleghi. Dopo di che c’era il
lavoro di supporto all'organizzazione nel luogo di lavoro: far arrivare le
informazioni dal centro alla periferia, la cura dell'informazione e dell’albo sindacale,
uno spazio in cui si esponevano i volantini sindacali, che doveva essere sempre
curato e aggiornato, anche perché c'era molta competizione con le altre sigle.
Noi eravamo il sindacato più forte. Dovevamo portare un'informazione sempre
aggiornata, perché il primo che arrivava era quello che riusciva ad essere più
accreditato presso i colleghi.
Poi
mi sono spostata in altre scuole, ma erano sempre nella stessa zona, per cui i
delegati mi conoscevano e man mano si era creato un rapporto di fiducia nei
miei confronti e per quattro o cinque anni ho fatto questo lavoro di
collegamento. Tra l’altro, quando facevo l’insegnante di sostegno, avendo degli
orari molto più flessibili che non con la cattedra fissa, riuscivo a uscire dalla
scuola per portare i volantini nelle altre scuole. Facevo anche un lavoro di
movimento, soprattutto di contatto. Per me l’arma vincente è sempre stato il
contatto. Andare di persona dall’insegnante anche se in quel momento era in
classe, stando sull'uscio. Riuscire, anche solo per tre secondi, a dire “ti ho
portato il materiale”, ti vedevano, capivano che eri presente. Questa attività
è andata avanti per un po’ di anni e nel frattempo, stiamo parlando del ’77, ’78,
ho conosciuto Giovanni Pogliani, che in quel momento era il segretario generale
nella mia categoria. Era un grande reclutatore di giovani e avendo visto che ero
volenterosa mi ha chiesto di collaborare in sede. Al pomeriggio, quando finivo
le ore di insegnamento, andavo direttamente in sede a fare il lavoro “sporco”. Era
il risultato dell’uso del ciclostile, tornavo a casa con le mani piene d’inchiostro.
Ciclostilare, preparare le spedizioni, imbustare, affrancare, eccetera - me ne
ricorderò per sempre – per 4.900 scuole e poi rispondere al telefono, una cosa
che penso sia importantissima perché quando rispondi al telefono hai la
panoramica di tutti i problemi del giorno, e questo è molto utile perché così sei
sempre sul pezzo, e fare le consulenze. Per noi era fondamentale, alle persone
che arrivavano fornivamo le informazioni che chiedevano, il che voleva dire conoscere
molto i problemi della categoria. Poi, nel primo congresso che c’è stato, nel
1981, sono entrata negli organismi e ho avuto il distacco. Pogliani mi ha
subito chiesto se volevo lasciare l'insegnamento, io non volevo e la cosa mi è
costata molto sacrificio, perché quello è il mio lavoro, però lui è stato molto
accattivante dicendomi che era “solo per un anno, e poi vediamo” e quella è
stata “la mia rovina”. Sono rimasta in categoria fino alla fine del 1980 e sono
diventata segretario generale quando Pogliani è andato a Roma. Dalla segreteria
generale del Sinascel sono entrata nella segreteria dell’Unione.
Nel
1992, quando c'è stata la consultazione, ero già in segreteria e ricordo
benissimo le assemblee. Nel 1995 sono diventata segretario generale e lo sono
stata fino al 2005, fino a quando un gruppo di amici, improvvisamente, mi ha
chiesto un incontro. Tra questi c'era Sandro Pastore, che mi ha proposto di
candidarmi in Consiglio regionale perché era giusto che ad un certo punto i
sindacalisti entrassero in politica a portare una testimonianza del mondo del
lavoro. Sono stati molto convincenti tant'è che mi sono candidata. Sono stata
eletta nella lista Uniti per l'ulivo, era una formazione bellissima, che poi è
stata certificata da Romano Prodi, che salvaguardava le identità di provenienza,
ma per un progetto comune. Ho conosciuto delle persone stupende in quella
campagna elettorale, poi sono arrivata in Consiglio regionale e mi hanno
spiegato che avevano già deciso prima che noi si doveva rimanere separati e
così avevamo il gruppo della Margherita, il gruppo dei Ds, il gruppo dei
repubblicani.
Nella
prima scuola dove ho insegnato, dal punto di vista del lavoro devo dire che non
c'era neanche un gran bisogno di presenza del sindacato perché si trattava di
una realtà dove l'identificazione tra i lavoratori e il datore di lavoro era
molto forte. Non c’erano norme sulle quali poter discutere, perché, pur essendo
la scuola parificata, nei fatti le regole erano le stesse stabilite dalle leggi
per la scuola pubblica. Tra l'altro eravamo pochissime, perché l'insegnamento era
fatto da laiche e da suore. Eravamo solo cinque laiche e parlavamo tra di noi
quando ci trovavamo a pranzo nella mezz'ora di pausa che avevamo, perché allora
si lavorava fino alle 4 e 30 del pomeriggio. Noi gestivamo la ricreazione dei
bambini e le suore gestivano la mensa e quello era il momento in cui avevamo la
possibilità di chiacchierare, ma il clima era assolutamente positivo e non è
mai emersa la necessità o il bisogno di discutere di particolari problemi di
tipo sindacale. Forte però si sentivano in quel periodo i problemi esterni. Ho
frequentato la scuola statale dal ‘68 al ‘72 e mi ricordo un anno nel quale
abbiamo fatto solo 46 giorni di lezione, il resto erano occupazioni,
collettivi, gruppi di lavoro, autogestione. Venivo da un mondo che mi aveva
educato alla partecipazione forte alle cose che succedevano e sono arrivata in
un ambiente dove vivevi tutto in maniera molto ovattata. Si discuteva tra di
noi di quello che accadeva fuori ma non per stimolare una partecipazione a
quegli avvenimenti, eravamo lì e pensavamo a lavorare. Sono stati cinque anni
di lavoro impegnativo, ma solo di lavoro.
Da
sindacalista le questioni più importanti di cui mi sono occupata sono state
quelle del precariato e dell'insegnamento della religione. Con la revisione del
Concordato e con la fine dell'insegnamento obbligatorio della religione
cattolica si è sviluppata una vertenza molto dura. L'insegnamento obbligatorio
della religione c'era solo a Milano e in una parte del Veneto. Oltre settecento
insegnanti sono rimasti per due mesi senza stipendio, hanno occupato il Provveditorato,
suore e preti compresi, molti dei quali si vergognavano di questo comportamento
perché non erano abituati a queste cose. La vertenza è stata risolta da Bettino
Craxi e dal cardinal Martini con una telefonata tra di loro. Altro tema
importante è stato quello degli insegnanti di sostegno. La discussione verteva
sulla loro stabilizzazione. Erano gli anni Settanta e avevamo occupato per l'ennesima
volta l'ufficio del provveditore e il ministro della Pubblica istruzione aveva
deciso di venire a Milano a vedere com'era la situazione. Il provveditore a
quel punto ha proposto di riceverlo insieme con i rappresentanti di Cgil, Cisl
e Uil. Il ministro, senza dire quasi una parola, si è seduto e noi abbiamo
iniziato a raccontare qual era la situazione. Come si usava allora abbiamo
detto che avevamo bisogno di 4.500 posti per insegnanti di sostegno con
l'obiettivo di ottenerne un numero inferiore. Ad un certo punto il ministro,
mentre stavo parlando, mi ha interrotto guardandomi dritto negli occhi e mi ha detto:
"Mi dica quanti posti di sostegno ha bisogno". Ho riflettuto
immediatamente su quale risposta dare e poi ho deciso di dire la verità, i posti
che servivano erano 1.400. La riunione è finita così. La sera mi ha telefonato
il provveditore raccontandomi che aveva chiamato il ministro: "Domani
abbiamo i 1.400 posti di sostegno".
La
grande ventata di partecipazione e le leggi che la favorivano sono degli anni Settanta.
Abbiamo avuto la scuola dei decreti delegati con gli organi collegiali e
l'ingresso delle famiglie nella gestione della scuola. Novità che ha
determinato un’assunzione di responsabilità condivisa tra i diversi soggetti
che partecipano alla vita della scuola, ma questo ha creato grande disagio nel
corpo insegnante, in particolare nel rapporto con i genitori.
Nella
scuola gli insegnanti hanno uno strumento che abitua alla partecipazione che
sono i collegi dei docenti cui sono obbligati a partecipare e dove si assumono
insieme le decisioni sulla didattica. La possibilità di tenere le assemblee
sindacali era dunque vista come un fatto positivo e gli insegnanti
partecipavano, se non altro per informarsi e anche per sfogarsi. Le assemblee le
ho sempre vissute come un'occasione nella quale arrivavo, dicevo le cose che
dovevo dire e poi passavo una mezz'ora a sentirmi insultare pesantemente. Non
ho mai visto un'assemblea in cui alla fine del mio intervento i presenti mi
dicessero “che bello!”. Il modo di partecipare era quello di discutere, ma
soprattutto di lamentarsi, di protestare. Però la partecipazione finiva nell'assemblea
e poi tutto il resto veniva delegato a qualcun’altro. Quando c'è stato il
problema dei precari e ogni mercoledì si doveva fare una delegazione che andava
a Roma, perché il mercoledì si riuniva la commissione lavoro parlamentare e noi
ogni settimana andavamo lì a rompere le scatole per sostenere l'approvazione
della legge per l'assunzione dei precari, dovevamo fare assemblee per
convincere le persone a sganciare i soldi necessari per sostenere i costi della
delegazione e per trovare le persone disponibili a partecipare alla
manifestazione. Anche la partecipazione agli scioperi e alle manifestazioni non
è mai stata molto facile.
C'era
partecipazione nel chiedere riforme strutturali, per sé però. Quando si discusse
dell’idea della partecipazione nell'ambito della scuola, per la prima volta si
videro gli insegnanti partecipare alle manifestazioni e alle iniziative insieme
agli operai. In qualche modo si era rotta la separazione tra il lavoro
intellettuale o da colletti bianchi degli insegnanti e quello non meno
importante degli operai della fabbrica. C'erano momenti in cui gli operai
presenziavano alle nostre manifestazione, i nostri scioperi sulle leggi che
riguardavano la partecipazione, così come noi cercavamo di essere presenti alle
loro iniziative, i loro scioperi. In quegli anni ero a Lambrate e si sentiva
forte la presenza della Innocenti. Questo è stato un elemento importante anche
dal punto di vista sindacale per far sì che non ci si considerasse una
categoria separata, ma si facesse parte di una confederalità. Questo, infatti,
era un problema per noi anche all'interno della Cisl, dove in qualche modo
eravamo considerati una categoria ai margini dell'organizzazione.
Uno
dei temi di carattere generale di cui mi sono occupata è stata la richiesta
della legge quadro del pubblico impiego con la possibilità di sviluppare la
contrattazione che allora non avevamo. Infatti, avveniva che il contratto
nazionale lo facevano quando avevano voglia, di solito quando arrivava un
governo nuovo cui serviva il supporto degli insegnanti e quindi firmava il
contratto e dava un po' di soldi.
Quando
gli scioperi generali erano per la riforma della casa, della riforma sanitaria,
però la partecipazione degli insegnanti era decisamente scarsa, di fatto
partecipavano solo i delegati.
Nella
mia esperienza di lavoro non ho avuto modo di vedere la presenza di gruppi
extraparlamentari o di altre organizzazioni nella scuola. Oltre a Cgil, Cisl e Uil
c’era lo Snals, che era il sindacato autonomo più forte. Più avanti, a fine
anni Settanta, nella scuola sono nati i Cobas e questo è avvenuto quando il
sindacato confederale ha cercato di introdurre la retribuzione per merito. Ci
fu un grande dibattito nel tentativo di definire come fare a individuare il
merito da compensare, questione che vedo essere presente ancora oggi e
irrisolta.
Tra
noi e Cgil e Uil c'era una sana competizione, in particolare per gli iscritti,
però con un buon spirito di collaborazione, fino a quando non c'è stato lo
scontro sul referendum per la scala mobile. Nella scuola però la Federazione
unitaria non è mai nata e le tre sigle sono sempre rimaste separate. Eravamo
distinti ma con obiettivi comuni. Allora i rapporti erano molto improntati
sulle relazioni personali e questo sistema ha sempre funzionato. Nella scuola
elementare era molto forte il Sinascel, poi veniva la Cgil, ma era molto
presente anche la Uil. Era un ambiente moderato.
Il
sindacato Cisl della scuola media a Milano è nato sul problema del precariato
nei primi anni Settanta perché prima non esisteva. Eravamo tutti sotto lo
stesso tetto della Cisl, ma ben distinti e separati e non c'erano punti di
contatto. I primi rapporti sono nati con la creazione della Federscuola a fine
anni Settanta che riuniva anche il sindacato dell'Università e il sindacato
della scuola privata che erano nati nel frattempo.
Noi
eravamo considerati, e forse ci consideravamo anche noi, un sindacato diverso da
quello dell'industria e i rapporti erano sostanzialmente inesistenti, ognuno
faceva la sua strada e gli unici momenti in cui ci si incrociava erano le
riunioni degli organismi. Noi non sentivamo l'esigenza di parlare con gli altri,
ma neppure gli altri sentivano l'esigenza di confrontarsi con noi. Si è
iniziato a ragionare insieme quando si sono creati gli organi collegiali e le
organizzazioni confederali avevano titolo a designare dei loro rappresentanti,
oppure quando sono nati i Cuz. I primi passi per iniziare a confrontarci con le
altre categorie sono avvenuti nell'ambito della formazione promossa dalla Ust
di Milano. Era un programma molto impegnativo e ricordo che dopo essere stata al
primo incontro che si teneva a Fontanelle, vicino a Sotto il Monte, sono
tornata in categoria e al segretario generale ho detto: "Ma dove mi hai
mandato? Quelli lì sono tutti matti", invece poi ho continuato ad andare ed
è stata un'esperienza interessante.
Quando
sono arrivata in Cisl tutte le vicende e le divisioni interne sul tema
dell'unità sindacale si erano ormai concluse.
Non
ho mai sentito il peso della politica sulla nostra azione sindacale nell'ambito
della scuola, era una situazione decisamente diversa rispetto al resto del
pubblico impiego. La scuola ha sempre scioperato anche contro i governi
democristiani pur avendo al suo interno una maggioranza di persone che votavano
per la Dc. Qualcuno dice che quando la scuola decideva di scioperare i governi
cadevano.
Mi
è mancato tanto l'insegnamento perché era la cosa che effettivamente volevo
fare, ma oggi, guardando gli anni del sindacalismo e avendo avuto anche
l'esperienza politico istituzionale, devo dire che la miglior parte della mia
vita è stata quella da sindacalista. Se lo fai seriamente, tu sei veramente
rappresentante della gente e puoi modificare le cose, puoi dare speranza e
aggreghi, cosa che non ho trovato nella politica. Da sindacalista hai le
persone fuori dalla porta, se tu sei capace di aprire quella porta ti si
spalanca un mondo di impegno e di lavoro positivo. Certo che se fai il
sindacalista chiuso in ufficio o davanti al computer hai sbagliato mestiere.
Penso che sia uno dei lavori più belli per chi vuole fare un'esperienza di
carattere sociale.
Nella
Cisl milanese, quando sono arrivata c'era un dibattito politico fortissimo, con
confronti anche aspri, ma le decisioni che si prendevano dopo quei dibattiti
erano decisioni vere, che puntavano a trovare scelte le più condivise
possibili. Avevamo una Fim molto forte e il sindacato dell'industria era
nettamente prevalente sia come numeri che culturalmente.
Il
sindacato in quegli anni riusciva a incidere sulle decisioni che riguardavano
la vita collettiva. Si è arrivati a fare scioperi di zona dentro la città di
Milano su questioni che riguardavano un determinato quartiere. C'erano
dinamiche talmente forti che portavano l'organizzazione ad occupare spazi che
forse potevano apparire come impropri, ma se in quel momento non ci fosse stata
la capacità del sindacato di occuparsi anche di tematiche orizzontali forse la
storia di Milano sarebbe stata diversa. Certo c'era anche un modo diverso di
porsi delle amministrazioni locali nei confronti delle organizzazioni
sindacali. Pensiamo ad esempio all'apertura della Scala ai lavoratori,
un'iniziativa che continua ancora oggi ed è stata costruita in quegli anni
attraverso la collaborazione di sindacato e amministrazione locale. Qualunque
cosa succedesse si decideva di andare a fare un presidio in Piazza scala e poi
di andare a parlare con il sindaco, perché noi identificavamo l'amministrazione
locale come interlocutore serio al quale affidare il problema che era emerso. Come
quando nella contrattazione abbiamo inserito le richieste per la costruzione
delle mense interaziendali e gli asili con risorse che poi erano di fatto
affidate all'amministrazione. Questo era possibile perché c'era il
riconoscimento d'una fiducia reciproca.
La
mia più grossa preoccupazione oggi è che la Cisl si trasformi in una sorta di
burocrazia, di una serie di uffici che rimangono chiusi. Oggi è difficile fare il
sindacalista, non ci sono più le fabbriche. Però la Cisl di Milano ha saputo
lanciare messaggi forti e innovativi. Noi abbiamo avuto le Brigate rosse che ci
hanno fatto un attentato perché in quel momento eravamo il sindacato più
progressista di tutti. Non importa se ti contestano, ma dì qualcosa di nuovo,
fai capire che interpreti i problemi della gente. Oggi i maggiori sostenitori
della concertazione sono quelli che non la volevano, che ci tiravano i bulloni.
Le cose in cui si crede, quelle che si pensa che sono giuste, vanno portate
avanti. Spero quindi che nella Cisl di Milano, così come avvenuto negli anni
passati, ci sia e rimanga innovazione, capacità e coraggio di dire parole nuove.