sabato 20 giugno 2020

MARIA GRAZIA FABRIZIO - Sinascel, Cisl - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

Sono nata a Milano il 6 febbraio 1953, ho frequentato l'istituto magistrale e mi sono diplomata, abilitata e successivamente ho vinto il concorso magistrale. Sono nata in una tipica famiglia milanese con un capofamiglia che lavorava come insegnante, mia mamma era casalinga con tre figli. Con la presenza del nonno, papà di mio padre, che essendo rimasto solo viveva con noi. Economicamente si viveva con tutte le difficoltà di una famiglia di cinque, sei persone e con un unico reddito da lavoro statale, in quegli anni piuttosto basso. Una famiglia cattolica, socialmente attiva soprattutto nei confronti delle persone in difficoltà, con insegnamenti da questo punto di vista che mi sono portata per tutta la vita.
Ho sempre voluto insegnare, sempre in conflitto con mio padre che voleva che anch’io, come mio fratello maggiore, avessi una laurea, perché una laurea in quei tempi veniva considerata come un'affermazione, soprattutto per una donna. Io invece ho voluto fortemente frequentare l'istituto magistrale e il mio desiderio era assolutamente quello di insegnare alle elementari. Peraltro, già prima del conseguimento del diploma magistrale avevo casualmente cominciato a insegnare a leggere e a scrivere ad alcune famiglie di immigrati dal sud d’Italia che abitavano in baracche sorte vicino a casa mia, accanto al parco Lambro. L'ultimo anno delle magistrali, al pomeriggio, andavo in queste catapecchie a insegnare, in particolare alle donne. Una iniziativa nata per caso, un giorno ero andata a fare la spesa al supermercato e vicino a me c’era una giovane signora, io avevo la nota della spesa e lei mi fa: “Come vorrei anch'io poter fare la nota della spesa”, “E perché non la fa?” dico io, “Perché non so leggere”. Mi ha spiegato che abitava nelle baracche e da lì è iniziata questa mia attività. Un’esperienza che ricordo con molto piacere.
Appena diplomata sono andata ad insegnare all'Istituto del Sacro cuore vicino a casa e sono rimasta lì per cinque anni. L’istituto era retto dalle suore. Faceva parte della nostra parrocchia e il mio parroco, che sapeva che in casa non si poteva rimanere senza lavorare per troppo tempo, mi ha raccomandata alle suore. Sono andata a fare il colloquio e mi hanno assunta subito. Sono uscita dall’istituto magistrale a luglio e a settembre ho cominciato a lavorare come maestra elementare e ho fatto tutto un ciclo dalla prima alla quinta, con piccoli tutti figli di famiglie molto ricche e con molti problemi, cosa che ho riscontrato anche quando sono passata nella scuola statale. Allora non c’erano i concorsi per entrare nella scuola pubblica e dovevano passare anni prima che si facessero. Al primo concorso che c'è stato mi sono iscritta e l’ho vinto. Ho cominciato a fare tutto quello che si poteva, ero assetata di conoscenza e volevo anche provare me stessa, per cui ho iniziato a insegnare nelle periferie. L’anno più bello del mio insegnamento è stato alla scuola di Monluè, dove nessuno voleva andare perché era ad alto rischio e dove la fatica maggiore è stata quella di entrare in sintonia con le famiglie dei bambini, dopo di che sono stata amata tantissimo. Perché chi viene emarginato e trova qualcuno che ha voglia di capirlo e di aiutarlo in quelle situazioni viene apprezzato. Lì ho visto i problemi di famiglie di altro tipo, ma le difficoltà sono sempre le stesse.
Dopo ho fatto l’insegante di sostegno. Sono stata tra le prime, quando nella scuola si è deciso di chiudere le classi speciali, che erano delle specie di ghetti dove venivano relegati i bambini che avevano qualche difficoltà e che da quel momento furono inseriti con gli altri ragazzi. Ma la scuola non era pronta e quindi si incominciò sperimentalmente a utilizzare insegnanti che aiutassero a formare dei progetti per l’inserimento di quei bambini. A me la cosa era piaciuta e mi sono applicata. Il primo giorno di assegnazione delle cattedre, in un cortile della scuola di via della Spiga dove venivano riuniti tutti gli insegnanti che dovevano prendere la cattedra perché vincitori di concorso, ho visto un signore anziano, piccoletto che è salito su un paracarro e gridava: “Ragazzi, ragazze voi non sapete che cosa vi aspetta, voi dovete capire che avrete bisogno del sindacato perché avrete tanti problemi nell’insegnamento” e poi distribuiva dei volantini. Quello è stato il mio primo contatto con il sindacato, era Paolo Teresio Sant'Agostino che era in segreteria del Sinascel Cisl di Milano, il sindacato a cui poi mi sono iscritta. Sono tornata a casa e ne ho parlato con mio papà il quale, sentendo il nome Cisl, vicino al mondo cattolico, mi ha detto che andava bene iscriversi e così ho fatto.
Appena arrivata nella scuola elementare Leonardo da Vinci, siccome mi piaceva parlare nei collegi docenti, sono stata subito individuata. Ho cominciato dalla gavetta, il mio primo incarico è stato di delegata di scuola. In quell’istituto c’era una delegata molto brava, ma molto anziana, e lei era passata in tutte le classi dove c’erano gli insegnanti nuovi per chiedere se volevano iscriversi alla Cisl. Quando è arrivata a me io le ho detto che ero già iscritta. Pazza di gioia, ha pensato subito “ma allora questa è una che è convinta” e da quel momento ha mandato me alle riunioni che si facevano in zona. C’era un'organizzazione molto ramificata, molto presente nel territorio, in ogni zona c’era qualcuno che andava alle riunioni centrali, quelle che si facevano in via Tadino e dopo un po’ di tempo ho iniziato ad andarci io. Tutto questo è successo in pochissimo tempo, in un anno. Come delegata di base avevo soprattutto il compito di raccogliere le deleghe. Poi la delegata anziana ha trasferito a me i compiti di rappresentanza e sono diventata il punto di riferimento della Cisl nella mia scuola. Il lavoro era soprattutto quello di ascolto dei problemi dei colleghi e di trasferimento alle istanze superiori, ma anche di confronto con il capo d'istituto quando c'erano problemi di organizzazione del lavoro. Un impegno molto legato alle problematiche dei colleghi. Dopo di che c’era il lavoro di supporto all'organizzazione nel luogo di lavoro: far arrivare le informazioni dal centro alla periferia, la cura dell'informazione e dell’albo sindacale, uno spazio in cui si esponevano i volantini sindacali, che doveva essere sempre curato e aggiornato, anche perché c'era molta competizione con le altre sigle. Noi eravamo il sindacato più forte. Dovevamo portare un'informazione sempre aggiornata, perché il primo che arrivava era quello che riusciva ad essere più accreditato presso i colleghi.
Poi mi sono spostata in altre scuole, ma erano sempre nella stessa zona, per cui i delegati mi conoscevano e man mano si era creato un rapporto di fiducia nei miei confronti e per quattro o cinque anni ho fatto questo lavoro di collegamento. Tra l’altro, quando facevo l’insegnante di sostegno, avendo degli orari molto più flessibili che non con la cattedra fissa, riuscivo a uscire dalla scuola per portare i volantini nelle altre scuole. Facevo anche un lavoro di movimento, soprattutto di contatto. Per me l’arma vincente è sempre stato il contatto. Andare di persona dall’insegnante anche se in quel momento era in classe, stando sull'uscio. Riuscire, anche solo per tre secondi, a dire “ti ho portato il materiale”, ti vedevano, capivano che eri presente. Questa attività è andata avanti per un po’ di anni e nel frattempo, stiamo parlando del ’77, ’78, ho conosciuto Giovanni Pogliani, che in quel momento era il segretario generale nella mia categoria. Era un grande reclutatore di giovani e avendo visto che ero volenterosa mi ha chiesto di collaborare in sede. Al pomeriggio, quando finivo le ore di insegnamento, andavo direttamente in sede a fare il lavoro “sporco”. Era il risultato dell’uso del ciclostile, tornavo a casa con le mani piene d’inchiostro. Ciclostilare, preparare le spedizioni, imbustare, affrancare, eccetera - me ne ricorderò per sempre – per 4.900 scuole e poi rispondere al telefono, una cosa che penso sia importantissima perché quando rispondi al telefono hai la panoramica di tutti i problemi del giorno, e questo è molto utile perché così sei sempre sul pezzo, e fare le consulenze. Per noi era fondamentale, alle persone che arrivavano fornivamo le informazioni che chiedevano, il che voleva dire conoscere molto i problemi della categoria. Poi, nel primo congresso che c’è stato, nel 1981, sono entrata negli organismi e ho avuto il distacco. Pogliani mi ha subito chiesto se volevo lasciare l'insegnamento, io non volevo e la cosa mi è costata molto sacrificio, perché quello è il mio lavoro, però lui è stato molto accattivante dicendomi che era “solo per un anno, e poi vediamo” e quella è stata “la mia rovina”. Sono rimasta in categoria fino alla fine del 1980 e sono diventata segretario generale quando Pogliani è andato a Roma. Dalla segreteria generale del Sinascel sono entrata nella segreteria dell’Unione.
Nel 1992, quando c'è stata la consultazione, ero già in segreteria e ricordo benissimo le assemblee. Nel 1995 sono diventata segretario generale e lo sono stata fino al 2005, fino a quando un gruppo di amici, improvvisamente, mi ha chiesto un incontro. Tra questi c'era Sandro Pastore, che mi ha proposto di candidarmi in Consiglio regionale perché era giusto che ad un certo punto i sindacalisti entrassero in politica a portare una testimonianza del mondo del lavoro. Sono stati molto convincenti tant'è che mi sono candidata. Sono stata eletta nella lista Uniti per l'ulivo, era una formazione bellissima, che poi è stata certificata da Romano Prodi, che salvaguardava le identità di provenienza, ma per un progetto comune. Ho conosciuto delle persone stupende in quella campagna elettorale, poi sono arrivata in Consiglio regionale e mi hanno spiegato che avevano già deciso prima che noi si doveva rimanere separati e così avevamo il gruppo della Margherita, il gruppo dei Ds, il gruppo dei repubblicani.

Nella prima scuola dove ho insegnato, dal punto di vista del lavoro devo dire che non c'era neanche un gran bisogno di presenza del sindacato perché si trattava di una realtà dove l'identificazione tra i lavoratori e il datore di lavoro era molto forte. Non c’erano norme sulle quali poter discutere, perché, pur essendo la scuola parificata, nei fatti le regole erano le stesse stabilite dalle leggi per la scuola pubblica. Tra l'altro eravamo pochissime, perché l'insegnamento era fatto da laiche e da suore. Eravamo solo cinque laiche e parlavamo tra di noi quando ci trovavamo a pranzo nella mezz'ora di pausa che avevamo, perché allora si lavorava fino alle 4 e 30 del pomeriggio. Noi gestivamo la ricreazione dei bambini e le suore gestivano la mensa e quello era il momento in cui avevamo la possibilità di chiacchierare, ma il clima era assolutamente positivo e non è mai emersa la necessità o il bisogno di discutere di particolari problemi di tipo sindacale. Forte però si sentivano in quel periodo i problemi esterni. Ho frequentato la scuola statale dal ‘68 al ‘72 e mi ricordo un anno nel quale abbiamo fatto solo 46 giorni di lezione, il resto erano occupazioni, collettivi, gruppi di lavoro, autogestione. Venivo da un mondo che mi aveva educato alla partecipazione forte alle cose che succedevano e sono arrivata in un ambiente dove vivevi tutto in maniera molto ovattata. Si discuteva tra di noi di quello che accadeva fuori ma non per stimolare una partecipazione a quegli avvenimenti, eravamo lì e pensavamo a lavorare. Sono stati cinque anni di lavoro impegnativo, ma solo di lavoro.
Da sindacalista le questioni più importanti di cui mi sono occupata sono state quelle del precariato e dell'insegnamento della religione. Con la revisione del Concordato e con la fine dell'insegnamento obbligatorio della religione cattolica si è sviluppata una vertenza molto dura. L'insegnamento obbligatorio della religione c'era solo a Milano e in una parte del Veneto. Oltre settecento insegnanti sono rimasti per due mesi senza stipendio, hanno occupato il Provveditorato, suore e preti compresi, molti dei quali si vergognavano di questo comportamento perché non erano abituati a queste cose. La vertenza è stata risolta da Bettino Craxi e dal cardinal Martini con una telefonata tra di loro. Altro tema importante è stato quello degli insegnanti di sostegno. La discussione verteva sulla loro stabilizzazione. Erano gli anni Settanta e avevamo occupato per l'ennesima volta l'ufficio del provveditore e il ministro della Pubblica istruzione aveva deciso di venire a Milano a vedere com'era la situazione. Il provveditore a quel punto ha proposto di riceverlo insieme con i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil. Il ministro, senza dire quasi una parola, si è seduto e noi abbiamo iniziato a raccontare qual era la situazione. Come si usava allora abbiamo detto che avevamo bisogno di 4.500 posti per insegnanti di sostegno con l'obiettivo di ottenerne un numero inferiore. Ad un certo punto il ministro, mentre stavo parlando, mi ha interrotto guardandomi dritto negli occhi e mi ha detto: "Mi dica quanti posti di sostegno ha bisogno". Ho riflettuto immediatamente su quale risposta dare e poi ho deciso di dire la verità, i posti che servivano erano 1.400. La riunione è finita così. La sera mi ha telefonato il provveditore raccontandomi che aveva chiamato il ministro: "Domani abbiamo i 1.400 posti di sostegno".

La grande ventata di partecipazione e le leggi che la favorivano sono degli anni Settanta. Abbiamo avuto la scuola dei decreti delegati con gli organi collegiali e l'ingresso delle famiglie nella gestione della scuola. Novità che ha determinato un’assunzione di responsabilità condivisa tra i diversi soggetti che partecipano alla vita della scuola, ma questo ha creato grande disagio nel corpo insegnante, in particolare nel rapporto con i genitori.
Nella scuola gli insegnanti hanno uno strumento che abitua alla partecipazione che sono i collegi dei docenti cui sono obbligati a partecipare e dove si assumono insieme le decisioni sulla didattica. La possibilità di tenere le assemblee sindacali era dunque vista come un fatto positivo e gli insegnanti partecipavano, se non altro per informarsi e anche per sfogarsi. Le assemblee le ho sempre vissute come un'occasione nella quale arrivavo, dicevo le cose che dovevo dire e poi passavo una mezz'ora a sentirmi insultare pesantemente. Non ho mai visto un'assemblea in cui alla fine del mio intervento i presenti mi dicessero “che bello!”. Il modo di partecipare era quello di discutere, ma soprattutto di lamentarsi, di protestare. Però la partecipazione finiva nell'assemblea e poi tutto il resto veniva delegato a qualcun’altro. Quando c'è stato il problema dei precari e ogni mercoledì si doveva fare una delegazione che andava a Roma, perché il mercoledì si riuniva la commissione lavoro parlamentare e noi ogni settimana andavamo lì a rompere le scatole per sostenere l'approvazione della legge per l'assunzione dei precari, dovevamo fare assemblee per convincere le persone a sganciare i soldi necessari per sostenere i costi della delegazione e per trovare le persone disponibili a partecipare alla manifestazione. Anche la partecipazione agli scioperi e alle manifestazioni non è mai stata molto facile.
C'era partecipazione nel chiedere riforme strutturali, per sé però. Quando si discusse dell’idea della partecipazione nell'ambito della scuola, per la prima volta si videro gli insegnanti partecipare alle manifestazioni e alle iniziative insieme agli operai. In qualche modo si era rotta la separazione tra il lavoro intellettuale o da colletti bianchi degli insegnanti e quello non meno importante degli operai della fabbrica. C'erano momenti in cui gli operai presenziavano alle nostre manifestazione, i nostri scioperi sulle leggi che riguardavano la partecipazione, così come noi cercavamo di essere presenti alle loro iniziative, i loro scioperi. In quegli anni ero a Lambrate e si sentiva forte la presenza della Innocenti. Questo è stato un elemento importante anche dal punto di vista sindacale per far sì che non ci si considerasse una categoria separata, ma si facesse parte di una confederalità. Questo, infatti, era un problema per noi anche all'interno della Cisl, dove in qualche modo eravamo considerati una categoria ai margini dell'organizzazione.
Uno dei temi di carattere generale di cui mi sono occupata è stata la richiesta della legge quadro del pubblico impiego con la possibilità di sviluppare la contrattazione che allora non avevamo. Infatti, avveniva che il contratto nazionale lo facevano quando avevano voglia, di solito quando arrivava un governo nuovo cui serviva il supporto degli insegnanti e quindi firmava il contratto e dava un po' di soldi.
Quando gli scioperi generali erano per la riforma della casa, della riforma sanitaria, però la partecipazione degli insegnanti era decisamente scarsa, di fatto partecipavano solo i delegati.

Nella mia esperienza di lavoro non ho avuto modo di vedere la presenza di gruppi extraparlamentari o di altre organizzazioni nella scuola. Oltre a Cgil, Cisl e Uil c’era lo Snals, che era il sindacato autonomo più forte. Più avanti, a fine anni Settanta, nella scuola sono nati i Cobas e questo è avvenuto quando il sindacato confederale ha cercato di introdurre la retribuzione per merito. Ci fu un grande dibattito nel tentativo di definire come fare a individuare il merito da compensare, questione che vedo essere presente ancora oggi e irrisolta.
Tra noi e Cgil e Uil c'era una sana competizione, in particolare per gli iscritti, però con un buon spirito di collaborazione, fino a quando non c'è stato lo scontro sul referendum per la scala mobile. Nella scuola però la Federazione unitaria non è mai nata e le tre sigle sono sempre rimaste separate. Eravamo distinti ma con obiettivi comuni. Allora i rapporti erano molto improntati sulle relazioni personali e questo sistema ha sempre funzionato. Nella scuola elementare era molto forte il Sinascel, poi veniva la Cgil, ma era molto presente anche la Uil. Era un ambiente moderato.

Il sindacato Cisl della scuola media a Milano è nato sul problema del precariato nei primi anni Settanta perché prima non esisteva. Eravamo tutti sotto lo stesso tetto della Cisl, ma ben distinti e separati e non c'erano punti di contatto. I primi rapporti sono nati con la creazione della Federscuola a fine anni Settanta che riuniva anche il sindacato dell'Università e il sindacato della scuola privata che erano nati nel frattempo.
Noi eravamo considerati, e forse ci consideravamo anche noi, un sindacato diverso da quello dell'industria e i rapporti erano sostanzialmente inesistenti, ognuno faceva la sua strada e gli unici momenti in cui ci si incrociava erano le riunioni degli organismi. Noi non sentivamo l'esigenza di parlare con gli altri, ma neppure gli altri sentivano l'esigenza di confrontarsi con noi. Si è iniziato a ragionare insieme quando si sono creati gli organi collegiali e le organizzazioni confederali avevano titolo a designare dei loro rappresentanti, oppure quando sono nati i Cuz. I primi passi per iniziare a confrontarci con le altre categorie sono avvenuti nell'ambito della formazione promossa dalla Ust di Milano. Era un programma molto impegnativo e ricordo che dopo essere stata al primo incontro che si teneva a Fontanelle, vicino a Sotto il Monte, sono tornata in categoria e al segretario generale ho detto: "Ma dove mi hai mandato? Quelli lì sono tutti matti", invece poi ho continuato ad andare ed è stata un'esperienza interessante.

Quando sono arrivata in Cisl tutte le vicende e le divisioni interne sul tema dell'unità sindacale si erano ormai concluse.

Non ho mai sentito il peso della politica sulla nostra azione sindacale nell'ambito della scuola, era una situazione decisamente diversa rispetto al resto del pubblico impiego. La scuola ha sempre scioperato anche contro i governi democristiani pur avendo al suo interno una maggioranza di persone che votavano per la Dc. Qualcuno dice che quando la scuola decideva di scioperare i governi cadevano.

Mi è mancato tanto l'insegnamento perché era la cosa che effettivamente volevo fare, ma oggi, guardando gli anni del sindacalismo e avendo avuto anche l'esperienza politico istituzionale, devo dire che la miglior parte della mia vita è stata quella da sindacalista. Se lo fai seriamente, tu sei veramente rappresentante della gente e puoi modificare le cose, puoi dare speranza e aggreghi, cosa che non ho trovato nella politica. Da sindacalista hai le persone fuori dalla porta, se tu sei capace di aprire quella porta ti si spalanca un mondo di impegno e di lavoro positivo. Certo che se fai il sindacalista chiuso in ufficio o davanti al computer hai sbagliato mestiere. Penso che sia uno dei lavori più belli per chi vuole fare un'esperienza di carattere sociale.
Nella Cisl milanese, quando sono arrivata c'era un dibattito politico fortissimo, con confronti anche aspri, ma le decisioni che si prendevano dopo quei dibattiti erano decisioni vere, che puntavano a trovare scelte le più condivise possibili. Avevamo una Fim molto forte e il sindacato dell'industria era nettamente prevalente sia come numeri che culturalmente.
Il sindacato in quegli anni riusciva a incidere sulle decisioni che riguardavano la vita collettiva. Si è arrivati a fare scioperi di zona dentro la città di Milano su questioni che riguardavano un determinato quartiere. C'erano dinamiche talmente forti che portavano l'organizzazione ad occupare spazi che forse potevano apparire come impropri, ma se in quel momento non ci fosse stata la capacità del sindacato di occuparsi anche di tematiche orizzontali forse la storia di Milano sarebbe stata diversa. Certo c'era anche un modo diverso di porsi delle amministrazioni locali nei confronti delle organizzazioni sindacali. Pensiamo ad esempio all'apertura della Scala ai lavoratori, un'iniziativa che continua ancora oggi ed è stata costruita in quegli anni attraverso la collaborazione di sindacato e amministrazione locale. Qualunque cosa succedesse si decideva di andare a fare un presidio in Piazza scala e poi di andare a parlare con il sindaco, perché noi identificavamo l'amministrazione locale come interlocutore serio al quale affidare il problema che era emerso. Come quando nella contrattazione abbiamo inserito le richieste per la costruzione delle mense interaziendali e gli asili con risorse che poi erano di fatto affidate all'amministrazione. Questo era possibile perché c'era il riconoscimento d'una fiducia reciproca.

La mia più grossa preoccupazione oggi è che la Cisl si trasformi in una sorta di burocrazia, di una serie di uffici che rimangono chiusi. Oggi è difficile fare il sindacalista, non ci sono più le fabbriche. Però la Cisl di Milano ha saputo lanciare messaggi forti e innovativi. Noi abbiamo avuto le Brigate rosse che ci hanno fatto un attentato perché in quel momento eravamo il sindacato più progressista di tutti. Non importa se ti contestano, ma dì qualcosa di nuovo, fai capire che interpreti i problemi della gente. Oggi i maggiori sostenitori della concertazione sono quelli che non la volevano, che ci tiravano i bulloni. Le cose in cui si crede, quelle che si pensa che sono giuste, vanno portate avanti. Spero quindi che nella Cisl di Milano, così come avvenuto negli anni passati, ci sia e rimanga innovazione, capacità e coraggio di dire parole nuove.