Intervista realizzata in occasione della pubblicazione del libro “Non serve stare sui tetti. Il sindacato della contrattazione e della responsabilità”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2014
L’arte della
contrattazione
Gianluigi Petteni, detto Gigi, sindacalista di lungo
corso, è segretario generale della Cisl Lombardia dal 2008. Sposato, con tre
figli, vive a Vigano San Martino, nella provincia bergamasca, dove è nato il 2
settembre 1954. Dopo aver frequentato le scuole medie e tre anni di superiori,
nel 1970 ha abbandonato lo studio ed è stato assunto come apprendista in
un'azienda del settore del legno. I primi lavori, però, li ha fatti senza
essere registrato in nessun libro paga. Figlio di emigranti, da ragazzino
andava in Svizzera a raccogliere le palline a bordo dei campi di tennis e il
resto dell'anno, prima di andare a scuola e dopo le ore trascorse in aula, aveva
alcune capre da accudire.
Eletto rappresentante sindacale nel 1973 - iscritto prima alla Cgil e poi alla Cisl - da delegato ha lasciato la fabbrica per fare esperienza e dare una mano durante il rinnovo del contratto nazionale di categoria.
Nel 1976 il distacco è diventato definitivo e ha assunto l’incarico di operatore a tempo pieno nella Filca, il sindacato del settore del legno e delle costruzioni della Cisl, dove nel 1981 sarà eletto nella segreteria provinciale. Il percorso sindacale di Petteni è ricco e differenziato: segretario generale della Fisba, il sindacato del settore dell’agricoltura; segretario territoriale nella zona di Grumello; segretario del sindacato tessili Filta. Esperienze che si riveleranno utili quando nel 1995 entrerà nella segreteria provinciale della Cisl di Bergamo dove ha seguito il mercato del lavoro, ha fatto il responsabile organizzativo e nel 2004 è diventato segretario generale.
Eletto rappresentante sindacale nel 1973 - iscritto prima alla Cgil e poi alla Cisl - da delegato ha lasciato la fabbrica per fare esperienza e dare una mano durante il rinnovo del contratto nazionale di categoria.
Nel 1976 il distacco è diventato definitivo e ha assunto l’incarico di operatore a tempo pieno nella Filca, il sindacato del settore del legno e delle costruzioni della Cisl, dove nel 1981 sarà eletto nella segreteria provinciale. Il percorso sindacale di Petteni è ricco e differenziato: segretario generale della Fisba, il sindacato del settore dell’agricoltura; segretario territoriale nella zona di Grumello; segretario del sindacato tessili Filta. Esperienze che si riveleranno utili quando nel 1995 entrerà nella segreteria provinciale della Cisl di Bergamo dove ha seguito il mercato del lavoro, ha fatto il responsabile organizzativo e nel 2004 è diventato segretario generale.
Il 16 settembre 2008 è stato eletto segretario
generale della Cisl Lombardia, incarico riconfermato in occasione dell’XI
congresso regionale nell’aprile del 2013.
Caso ha voluto che in questo suo ruolo abbia più
volte avuto modo di confrontarsi con il titolare dell’azienda di cui è ancora
dipendente in aspettativa, diventato nel frattempo presidente di Confindustria
Lombardia.
Numerosi i temi approfonditi nella lunga intervista
che segue, ma il cuore delle sue riflessioni è rappresentato dalla centralità
della contrattazione nell’azione sindacale e dal ruolo determinante dei
delegati della Cisl. Donne e uomini che ogni giorno, nella difficoltà della crisi,
affrontano con impegno la fatica del difendere il posto di lavoro, la dignità
delle persone, il futuro delle aziende. Prima e concreta espressione dei valori
di un sindacato che è partecipazione, contrattazione, responsabilità.
D. Qual è la conseguenza più significativa della
crisi che ha colpito i territori lombardi?
R. La crisi si è abbattuta su un territorio dove il
tema del lavoro non ha mai rappresentato un’emergenza. Coloro che non
lavoravano, si diceva, era per responsabilità loro, perché non ce la mettevano
tutta. La crisi invece ha posto per tantissime persone la questione della
mancanza del lavoro. Il lavoro per tutti non c'è più, certo ci sono dei posti
che rimangono scoperti, ma questi non sono la soluzione, la realtà è che i
posti mancano. Una condizione che ha colpito non solo i lavoratori dipendenti,
ma anche altre figure come artigiani, commercianti, liberi professionisti.
Siamo passati dall'idea che qui il lavoro non sarebbe mai mancato all’assenza
di opportunità di occupazione, in una realtà come la nostra che è il motore del
paese. Prima della crisi in Lombardia il problema del lavoro era cercare delle
condizioni migliori, un’occupazione che piaceva di più o veniva pagata meglio,
ora la situazione è profondamente cambiata e questo ha creato disorientamento,
suscitato nelle persone reazioni molto più profonde di quanto non appaia.
D. La crisi ha duramente incrinato la struttura
produttiva lombarda, cancellando posti di lavoro e imprese. Come è possibile
creare nuove opportunità per coloro che il lavoro l'hanno perso o per i giovani
che devono inserirsi per la prima volta nel mondo del lavoro?
R. Nella prima fase di disorientamento generale
abbiamo cercato delle risposte all'emergenza utilizzando gli ammortizzatori
sociali con l'obiettivo di mantenere il più possibile i lavoratori nel posto di
lavoro. Ora ci troviamo in una situazione nella quale i posti di lavoro sono
stati definitivamente persi e insieme ai posti abbiamo perso anche delle
aziende. In alcuni casi ci sono state delle riorganizzazioni, ma in altri ci
sono state delle chiusure e quelle fabbriche non ci sono più. Oltretutto la
crisi del manifatturiero, che ha colpito durissimo in Lombardia, piano piano ha
trascinato con sé anche altri settori come commercio e servizi. Dobbiamo quindi
creare nuovi posti di lavoro e per farlo servono investimenti, ci devono essere
persone e gruppi disponibili a mettere delle risorse per sviluppare nuove
attività e attraverso queste creare occupazione. Perciò bisogna rendere
attrattivi i nostri territori affinché si investa per creare lavoro. Questa
credo sia la sfida ancora tutta da giocare e vincere, per tutti, in particolare
per il sindacato.
D. Ma è pensabile ripartire come se nulla fosse
accaduto in questi anni, non si deve puntare a cambiare modello di sviluppo?
R. Non possiamo pensare di uscire dalla crisi in modo
automatico e ritornare alle condizioni di prima. Dobbiamo dimostrare di aver
imparato qualcosa da questa crisi, che è pesante e che le persone stanno
pagando duramente. Si dice che di fronte alle difficoltà le aziende più
innovative, sono capaci di trasformare un problema in una opportunità. Ora è
tempo di dimostrarlo. Bisogna tornare all'economia reale, perché illudersi di
fare soldi con le speculazioni finanziarie, puntando sull'immobiliare, alla
lunga ci presenta un conto che non è un vantaggio né per chi ha praticato
questo mondo speculativo né per le nostre comunità. Dobbiamo pensare a un nuovo
modello di sviluppo. Nella nostra realtà dobbiamo ripensare a un manifatturiero
che punti sull'innovazione, che collabori con i centri di ricerca, con le
università, che sappia valorizzare la cultura e il turismo, che sono fattori
importanti di attrattività del territorio, anche con una rivisitazione
complessiva del sistema dei servizi e del welfare.
In questi anni abbiamo continuato a considerare il
welfare come un costo. Non può più essere così, perché occorre sviluppo
economico ma anche sviluppo sociale, anche il welfare può diventare
un'opportunità di lavoro. Abbiamo delle anomalie nel nostro sistema di welfare
che sono frutto del modello di sviluppo distorto che abbiamo perseguito.
Occorre ridare senso e contenuto a parole come sobrietà, che non significa
fustigazione o rinuncia, ma pensare maggiormente alle scelte che dobbiamo fare per
l’oggi e per il domani. In questa crisi ci siamo accorti che alcuni elementi -
materiali, di servizio, di convivenza - rischiano di finire, di venir meno se
si fanno delle scelte sbagliate. Dobbiamo sapere porci dei limiti, ma come
occasione per individuare scelte economiche e sociali di qualità.
D. Le organizzazioni sindacali hanno promosso
numerose manifestazioni e iniziative pubbliche. Alcune di queste sono state
particolarmente innovative come la marcia per il lavoro, l'albero di Natale dei
cassintegrati, il muro del lavoro come argine contro
la crisi e la rassegnazione. Che cosa ha rappresentato l’organizzazione
di queste forme di protesta?
R. Il primo obiettivo era quello di richiamare
l'attenzione sui temi del lavoro, perché non ci siamo mai riusciti fino in
fondo e non ci stiamo ancora riuscendo. E’ importante dare un volto a questa
crisi, il volto delle persone che si trovano coinvolte nelle difficoltà, ma
anche le risposte che queste persone, mettendosi insieme, hanno saputo
costruire per contrastare la bufera. Sono state iniziative non “contro”, ma
pensate per far emergere con forza i problemi, guardare la questione del lavoro
in modo nuovo e diverso, osservandola in tutte le sue sfaccettature, in tutta
la sua complessità.
Andare ogni tanto in piazza, sobbarcandoci anche dei
sacrifici, come abbiamo fatto con le manifestazioni organizzate di sabato, è
stato importante per far vedere la realtà del lavoro. In questa crisi abbiamo
sentito fiumi di parole, ma servono azioni concrete. Noi l'abbiamo fatto,
accompagnando ognuna delle iniziative con proposte che avevano l’obiettivo di
spingere i responsabili ad assumere le decisioni che servivano per dare delle
risposte ai problemi che manifestavamo.
Mi dispiace che con le iniziative di mobilitazione
non siamo stati capaci di fare ciò che invece abbiamo realizzato in tantissimi
posti di lavoro, non siamo cioè riusciti a far passare l'idea che alcuni di
questi temi avremmo potuto affrontarli insieme, imprese e lavoratori. Come
abbiamo fatto in decine e decine di aziende. Non riusciamo ancora a rompere i
vecchi schemi. La crisi non è riuscita a farci innovare fino in fondo. Per
affrontare la crisi, ma soprattutto ricreare le condizioni di sviluppo,
dobbiamo fare delle scelte condivise. Alcuni livelli di rappresentanza delle
imprese pensano di potercela fare da soli, di potere avere corsie privilegiate
per trovare ascolto. È una pia illusione. Molte delle aziende che stanno
reagendo bene alla crisi hanno capito che la strada è win-win, un gioco in cui
vincono tutte e due le parti. Probabilmente c'è ancora tra di noi e tra le
controparti chi pensa che sia una resa all'avversario pensare di fare delle
iniziative comuni, invece ritengo che sia il segno più serio e più maturo della
rappresentanza di fronte alla crisi. C'è ancora un po' di adolescenza nelle
organizzazioni.
D. Un malcontento diffuso ha portato in piazza altri
soggetti, penso ad esempio a manifestazioni di contestazione estrema, al
movimento dei forconi. Vi sentite minacciati nel vostro ruolo di rappresentanza?
Come avete reagito di fronte a questi fenomeni?
R. La domanda che mi faccio spesso è: con una crisi
così forte e così lunga, come abbiamo fatto a mantenere la coesione sociale?
Non mi so dare ancora una risposta. C'è stata molta responsabilità nelle
persone. Ci sono state tante risposte, magari disordinate, non solo da parte
nostra, ma anche dentro le comunità, nell'associazionismo, nella Chiesa. Ci
sono state iniziative e movimenti che hanno contribuito a mantenere una buona
coesione sociale. Allo stesso tempo bisognava però evitare che ci fosse solo
rassegnazione, con le persone che si lasciano andare, come testimoniano i fatti
drammatici che abbiamo visto. Credo che sviluppare un'azione forte per far
sentire il disagio delle persone sia utile e necessario, non come occasione per
farle sfogare, ma come modo per far presente i problemi e insieme a loro
cercare di far scattare una responsabilità diffusa. Dobbiamo metterci in gioco
tutti per costruire delle risposte. Forse anche gli strumenti che abbiamo messo
in campo non sono così incisivi nel fare emergere la responsabilità di ognuno.
Rispetto ad altre organizzazioni che scendono in
piazza non c'è nessuna contrapposizione né preoccupazione. Se il sindacato
presidia bene i posti di lavoro, se mantiene un contatto forte con i
lavoratori, cercando ogni giorno di trovare una sintesi che tenga conto dei
problemi che emergono e dello sbocco che noi come classe dirigente responsabile
dobbiamo dare, allora non abbiamo nulla da temere. Certo, se il sindacato si
limita agli annunci, si ferma a twittare, ad andare nei palazzi, è chiaro che
altri occuperanno gli spazi e c’è il rischio che manifestino in forme estreme,
di rottura. Dipende dal modo di fare sindacato, dalla responsabilità della
nostra azione, dai nostri limiti se sorgono altre forme di rappresentanza meno
responsabili.
D. Nelle iniziative di contrasto alla crisi ha
contato molto il rapporto con le istituzioni?
R. Sì, abbiamo fatto interagire molto le imprese e i
lavoratori con le istituzioni. Sono convinto che i tavoli che si aprono
nell'ambito delle istituzioni devono essere alimentati dal vissuto che ogni
giorno si sviluppa dentro le nostre realtà produttive. Bisogna tenere
fortemente questa dimensione. Il fatto di far incontrare tutte le situazioni di
crisi, magari non ha prodotto sufficienti risposte alle tante singole vertenze,
ma ha fatto crescere consapevolezza sui problemi e ha aiutato la politica a
fare delle scelte positive. Penso che aver gestito le crisi nelle istituzioni e
aver portato lì di volta in volta le difficoltà occupazionali, le vertenze in
atto, far conoscere i problemi, sia stato importante.
La conoscenza e il contatto con queste realtà ha
portato alla definizione di nuove norme. Ricordo la legge regionale sui
contratti di solidarietà, fatta con il consenso di tutto il Consiglio.
Preparata con un forte confronto con le parti sociali, è figlia di un lavoro
che ha visto costantemente il mondo
politico e gli apparati tecnici incontrare le realtà aziendali, che ha messo di
fronte chi ha una responsabilità istituzionale con la concretezza delle
situazioni. Potremmo evidenziare anche le azioni per l'anticipo della cassa
integrazione, per le politiche attive del mercato del lavoro, altri sforzi che
sono tuttora in corso.
Sono preoccupato quando si parla di nuovi
centralismi, di riportare le politiche al centro, perché sono convinto che le
tante o le poche cose che sono state fatte sono figlie di questa alimentazione
territoriale, di questo contatto costante con la realtà. Ho un unico rammarico,
in queste occasioni avrei voluto trovare imprenditori disponibili a farsi
coinvolgere con le istituzioni e a verificare come era possibile investire, ma
spesso così non è stato.
D. Il cuore dell'azione sindacale però rimane sempre
la contrattazione. Considerate le difficoltà di questi anni, quali sono gli
elementi che hanno caratterizzato l'azione della Cisl nei luoghi di lavoro?
R. Innanzitutto dobbiamo avere l'umiltà di dire che
noi contrattiamo meno delle possibilità che potremmo avere. Oltre vent'anni di
concertazione sono troppi. Abbiamo continuato a pensare che la concertazione
svolgesse un ruolo importante, immaginando che tutto avvenisse nei grandi
tavoli e negli ultimi anni piano piano abbiamo pensato di fare rappresentanza
con le interviste su ciò che usciva dai tavoli generali, sulle richieste che
facevamo a Roma. Credo che tutto questo non sia stato inutile, sia importante,
ma il baricentro è il luogo di lavoro, il territorio, linea che ritengo oggi di
grandissima attualità, perché la crisi cambia anche il nostro modo di fare
sindacato. E’ partendo dalle problematiche dei luoghi di lavoro, del territorio
che devono lavorare gli altri livelli dell'organizzazione, non il contrario,
come abbiamo fatto nei lunghi anni della concertazione.
La crisi impone a tutti discontinuità e la
discontinuità che chiede a noi è tornare a mettere al centro della nostra
azione le imprese e il territorio. In questi anni abbiamo combattuto una
battaglia per riportare lì l’organizzazione. Sostenere che “il mio mestiere è
contrattare”, vuol dire creare una cultura per contrattare. Realizzare la Fiera
della contrattazione vuol dire affermare che quella è l'azione centrale del
sindacato, anche perché la concertazione non ce l'hanno uccisa, l’abbiamo
uccisa noi. È stato un suicidio. Per fare la concertazione bisogna scambiare
qualcosa. Nell’agosto 2011, ad esempio, nel pieno esplodere della crisi,
avremmo potuto proporre di fare una tassa straordinaria sui capitali e noi
mettere qualcosa sulle pensioni, solo che c’era una situazione sindacale
difficile, le tre organizzazioni erano divise e noi abbiamo detto che eravamo
arrivati al massimo della responsabilità possibile. Siccome le condizioni per
uno scambio non c'erano, ci hanno pensato gli altri. Ci hanno massacrati, noi
abbiamo detto tutti insieme che non eravamo d'accordo, ma intanto è passato
tutto.
Per contrattare bisogna costruire una forte cultura
dello scambio e per questo c'è uno spazio enorme. Le imprese hanno bisogno di
innovazione, di far crescere la produttività, di flessibilità. In ogni azienda
si deve discutere di quali sono i bisogni dell'impresa per essere più
competitiva, per reagire a un mercato veloce e allo stesso tempo di quali sono
le esigenze dei lavoratori per rispondere ai problemi di conciliazione con le
proprie condizioni di vita, di studio, di famiglia. È un'arte la
contrattazione, dobbiamo ritornare a questa grande arte. In ogni posto di
lavoro ci sono le condizioni per contrattare. Certo che se non facciamo
riflettere i lavoratori su questo, non parliamo con loro, è evidente che i
lavoratori si iscriveranno al sindacato solo perché facciamo i servizi. Ma la
gente deve stare con noi perché facciamo contrattazione, perché quando c’è un
problema all'interno dell'azienda possiamo provare insieme a risolverlo.
Coniugare le esigenze dell'impresa con quelle del lavoratore è una sfida.
Dobbiamo dire ai lavoratori che noi in quell’azienda vogliamo starci per
renderla più produttiva, perché se sarà più produttiva avremo più beni da
distribuire, eviteremo che possa trasferirsi e daremo sicurezza al posto di
lavoro. Vogliamo migliorare la produttività, ma anche dare una prospettiva a
quei ragazzi che sono assunti con un contratto interinale, magari contrattando quanti di questi giovani
devono essere confermati a tempo indeterminato. In questo modo si disegna un
percorso, si crea un ascensore sociale. Il paese non ha più un ascensore
sociale, creiamolo nei posti più dinamici dell'economia, non a Palazzo Chigi.
Questa è una stagione straordinaria per il sindacato
che fa contrattazione. Abbiamo in mano delle leve straordinarie e se sono un
po' arrugginite dobbiamo prendere olio di gomito e levare la ruggine per farle
ripartire. Se non lo facciamo, non serviremo più né ai lavoratori né al paese.
D. Come è stata declinata l’azione sindacale nella
piccola impresa e nell'azienda artigiana?
R. La crisi ci ha spalancato porte incredibili,
perché sono cadute molte diffidenze, perché queste sono realtà che molte volte
non vedevano all'interno una presenza del sindacato. La crisi, nella gestione
delle cassa integrazione in deroga, ha consentito di incontrare storie
straordinarie di imprenditori e di lavoratori. L'idea fino a ieri era quella
che, non avendo il sindacato una presenza forte in quel mondo, si attivasse un rapporto
solamente quando un lavoratore veniva all'ufficio vertenze. Certamente ci sono
imprese che non rispettano i contratti, che non danno la giusta paga, ma questo
è un mondo di ricchezze straordinarie, di imprenditori per i quali lasciare a
casa un lavoratore pesa molto anche sul piano personale. La crisi ha favorito
per molti dei nostri sindacalisti un incontro positivo con queste persone.
Probabilmente anche per questo abbiamo rinnovato contratti come quelli
regionali dell'artigianato fermi da tantissimi anni pur in presenza di una
crisi durissima. Credo che sia stato frutto anche della crescita di una fiducia
reciproca. Ci siamo conosciuti meglio.
In questo mondo le risposte vanno costruite
attraverso uno strumento come quello della bilateralità, che vuol dire
realizzarle insieme. Dobbiamo farla meno centralizzata, più vicina al
territorio. È una fiducia che va rafforzata. Molte delle norme che sono state
definite sul tema del lavoro, come ad esempio la formazione fuori dall'azienda,
probabilmente sono state basate sulla mancanza di fiducia reciproca, abbiamo
costruito regole che altri dovevano controllare. Vanno costruite intese che si
alimentano della forte responsabilità dei soggetti e mi auguro che alcuni
laboratori che stiamo sperimentando possano andare a buon fine. L’idea del
welfare per l'artigianato in Lombardia è una cosa straordinaria ed è figlia di
questa stagione, nella quale abbiamo capito molte cose sui destini comuni e ora
lavoriamo per questo interesse reciproco. Certo c'è ancora molto da fare, ci
sono ancora tante distanze da colmare, la progettazione è fatta proprio per
costruire ponti, non muri. Si sta lavorando in questa direzione e sarebbe una
bella sfida riuscire ad uscire dalla crisi avendo rafforzato e consolidato un
modo costruttivo di rapportarsi tra le parti.
Sono convinto che un sindacato che ha un'idea forte
del lavoro e seria dell'impresa possa contribuire a migliorare l'impresa e ad
attrarre investimenti. Non è vero che il sindacato è ininfluente rispetto a
questo. Tutt'altro. Può svolgere molto più di ciò che noi pensiamo, solo se ci
rendiamo più responsabili. Molte delle aziende che vanno bene, che si sono
internazionalizzate e stanno reggendo anche dentro la crisi, sono imprese dove
il sindacato ha fatto un salto di qualità. Oppure sono imprese che hanno
coinvolto i lavoratori, ma a prescindere da noi. I lavoratori sono fondamentali
nel processo di cambiamento. Si tratta di vedere se siamo in grado di
accompagnare questo processo facendo noi un passo in avanti. In tantissimi casi
è pratica quotidiana, è storia che si può dimostrare. Magari non viene molto
seguita, perché fanno più notizia altre situazioni, ma ci indica che questo è
il cammino che dobbiamo percorrere.
D. La bilateralità è sempre un valore? Non c'è il
rischio che in qualche situazione possa essere un freno, essendo tutto o quasi
precostituito e garantito?
R. La bilateralità è uno strumento che consente di
fare delle cose altamente positive o altamente negative. La bilateralità è un
patto di responsabilità. Se la facciamo diventare un luogo dove si sta a
chiacchierare di problemi dei lavoratori, dove chi partecipa magari deve pure
avere un gettone, se è questa cosa la bilateralità è certamente negativa. Per
me il modello di bilateralità è la storia stupenda e straordinaria della
categoria dell'edilizia, dei muratori che hanno costruito delle tutele
mettendosi insieme per sostenersi quando i cantieri finivano, l’esperienza
delle casse edili. Questa è la bilateralità che intendo debba essere promossa.
Se invece la bilateralità è l'occasione per stare comodi noi e le controparti
allora va smontata, buttata per aria. La buona bilateralità deve essere più
vicina, più trasparente, ma è una grande occasione per tenere unito un tessuto
sociale nell'interesse dei lavoratori e delle imprese, per costruire insieme
delle risposte.
D. Il welfare aziendale è un aspetto innovativo della
contrattazione emerso negli anni più recenti. È un fattore legato alle
difficoltà del momento o una scelta che sarà sempre più strategica?
R. Noi abbiamo fatto certamente tanti errori e tanti
altri ne faremo, però posso dire che in Lombardia la contrattazione sul welfare
non è una moda, ma è stata una scelta. L'abbiamo fatta quando il dibattito non
era così ampio come adesso, l’abbiamo fatta con una forte condivisione
all'interno del gruppo dirigente, anche con un'attenzione e un supporto di
analisi e riflessione molto ampio da parte dei nostri pensionati, che magari
erano figli di una stagione diversa, ma che hanno visto in questa nostra
intuizione un canale lungo il quale spendersi fortemente. Abbiamo provato la
fatica del parlare di alcuni temi un po’ da soli, però questa è la storia della
Cisl. Non saremmo esistiti se non avessimo questa forza, questa capacità di
andare controtendenza. Adesso sono preoccupato dei troppi convegni, del fatto
che ci incensano un po' troppo, mentre io sostengo che stiamo facendo solo la
prima fase dell'apprendistato.
Certo, voglio valorizzare i tanti contratti che hanno
introdotto questi temi, voglio valorizzare il lavoro che abbiamo fatto come
Osservatorio sulla contrattazione, come modalità di diffusione delle buone
prassi, come modo di far conoscere accordi che possono diventare stimolo e
essere utilizzati ognuno nei propri ambiti e nelle proprie situazioni. Si stanno
anche concretizzando accordi che cominciano a svilupparsi nei territori,
accordi di mutualismo che credo sia la parola che noi dobbiamo mettere accanto
a bilateralità. La nostra bilateralità deve essere figlia della contrattazione
e del mutualismo. Strumenti che sono frutto di valori che non emergono a caso.
Bisogna proseguire incessantemente su questa strada, perché ormai è chiaro che
saremo più forti nel difendere un welfare universalistico, per tutta una serie
di prestazioni che sono fondamentali, se sapremo costruire delle risposte alla
vastità e alla complessità dei bisogni che si sono evidenziati. Per
semplificare in una battuta un tema così complicato, si può dire: sempre più
contrattazione nei luoghi di lavoro sui temi del welfare.
Mi piacerebbe contrattare di più per sostenere le
famiglie che hanno i figli che studiano, che vanno all'università, perché in
questa crisi non ci accorgiamo di tante cose, come ad esempio del figlio di un
cassintegrato che smette di andare a scuola, non perché non ha più voglia di
studiare, ma perché le difficoltà della famiglia portano a condizionare anche
le scelte su temi importanti come quello della scuola. Altro tema importante
per la contrattazione aziendale è quello della conciliazione lavoro e famiglia
sul quale dobbiamo concentrarci di più. Nel medesimo tempo sarebbe fondamentale
che assieme a questa contrattazione nei luoghi di lavoro riuscissimo a far
nascere delle esperienze nei territori, con la creazione di fondi mutualistici
territoriali che potrebbero entrare in relazione innanzitutto con i nostri
interlocutori privilegiati sui temi sociali che sono e dovranno essere sempre
di più i sindaci, le realtà locali, ma anche le fondazioni e le altre risorse
disponibili a lavorare sull'idea di un welfare comunitario. Nel posto di lavoro
costruisco delle risposte ai bisogni dei lavoratori e all'esterno, attraverso
anche la mia azione contrattuale, contribuisco con tanti altri soggetti a
definire una protezione sociale con un welfare di comunità, riempiendolo di contenuti
concreti.
D. Per sostenere questa idea di welfare comunitario
serve rafforzare ulteriormente la contrattazione territoriale?
R. Stanno già venendo avanti accordi che vanno in
questa direzione e alcune elaborazioni che mi auguro a breve possano trovare
uno sbocco.
D. Abbiamo già accennato alla Fiera della
contrattazione. Qual è il suo valore, quali i suoi obiettivi?
R. Vorrei, anche attraverso questa esperienza – che
non è un mercato -, portare alla luce il lavoro straordinario che centinaia e
centinaia di delegati, persone che non vanno sui giornali, che non rilasciano
interviste, ma che ogni giorno nei luoghi di lavoro realizzano gli accordi.
Persone capaci di fare diventare fatti le parole, di gestire bene una cassa
integrazione, di organizzare la rotazione, di comprendere le difficoltà, di
valutare come distribuire un premio quando le aziende funzionano, come gestire
un licenziamento, impostare un contratto di solidarietà. Abbiamo realtà
straordinarie. Ogni volta che entro in contatto con una situazione di crisi,
parlo con i nostri delegati, è un'esperienza che mi da una forte carica e che
mi sprona ad andare avanti, è un patrimonio unico. Se lo disperdiamo è finito
il nostro fare sindacato, sono loro la vera ricchezza. Loro devono contare di
più e noi dobbiamo ascoltarli di più, dobbiamo dare sbocco e più forza alla
loro azione.
Il ruolo dei delegati è fondamentale. Noi abbiamo
fatto alcune scelte per evidenziarlo. Come Cisl Lombardia nel consiglio
generale confederale abbiamo inserito due delegati al posto di due componenti
della segreteria regionale. Non è un fatto casuale, è un'idea che ogni giorno
cerchiamo di praticare, abbiamo messo più delegati negli organismi, il 30% del
consiglio generale lombardo è costituito da delegati. Dobbiamo portare dentro
l'organizzazione questo vissuto, avvicinare di più chi fa l'operatore, il
dirigente sindacale e il delegato. Penso che l’operatore sindacale dei prossimi
anni sarà una persona che spenderà parte del suo tempo in azienda e parte nel
sindacato, che poi è la nostra storia, perché era così quando siamo nati e
prima che fossimo infatuati dalla concertazione. Siamo cresciuti con questo
tipo di organizzazione. Noi siamo quelli dei premi, dei cottimi e la nostra
discontinuità oggi è quello di tornare a ricontestualizzare questo modello.
Bisogna investire fortemente nella formazione dei delegati e dare loro gli
strumenti per sostenere la propria azione, perché con delegati preparati e con
operatori che stanno un po' dentro e un po' fuori le imprese, ritorniamo a
conoscere e a riprenderci l'organizzazione del lavoro.
D. Un problema che i delegati della Cisl devono
affrontare quotidianamente è quello del confronto con le altre organizzazioni
sindacali, in particolare quando si tratta di decidere quale linea intraprendere
nelle vertenze aziendali, quale scelta fare tra conflitto e partecipazione.
R. Essere Cisl è impegnativo, per questo dobbiamo
curare bene la formazione e dobbiamo far conoscere bene i nostri valori, il
nostro modo di fare sindacato, perché si deve avere forza dentro. Fare il
rappresentante sindacale per la Cisl non è facile. Con tutto il rispetto per le
altre esperienze, il percorso sindacale dentro la Cisl è quello che richiede
più responsabilità, più esposizione personale. Tante volte i nostri delegati
sono attaccati, denigrati, però ritengo che se oggi proponiamo ai nostri
rappresentanti aziendali il percorso compiuto da chi lo ha fatto prima di noi,
da chi ci ha consegnato l'organizzazione, troviamo degli stimoli straordinari.
Certamente non tutto ciò che abbiamo fatto è giusto, però una larga parte delle
battaglie che abbiamo condotto, e che all'inizio sono state osteggiate, alla
fine sono diventate patrimonio comune.
C'è bisogno di persone che quando ci sono problemi,
di fronte alla crisi, non cercano il nemico, ma tentano di individuare le
soluzioni. Quando ci sono delle difficoltà in un'azienda si può attaccare il
padrone, dire che è brutto e cattivo. Per 24 ore sei l'eroe nazionale, ma dopo?
Il cislino è quello che quando c’è un problema si impegna per risolverlo, anche
se ognuno ovviamente deve essere richiamato alle proprie responsabilità. Avendo
come unica fedeltà quella ai lavoratori noi non dobbiamo tenere conto di chi è
il sindaco della città, il consigliere, il presidente della Regione. Il cislino
è un uomo o una donna che tiene insieme la libertà e la responsabilità. Il
primo congresso che ho fatto da segretario generale ho avuto nel cuore queste
due parole: libertà e responsabilità, perché in queste due parole c'è l'essere
Cisl. Se hai sempre presente questi valori allora trovi la forza di
attraversare anche i momenti più difficili, trovi la forza per realizzare la
mediazione necessaria e questo non vuol dire attraversare dove l'acqua è più
bassa. Chi attraversa dove l'acqua è più bassa è colui che usa i populismi, che
fa solo l'esaltazione dei problemi. Cercare una mediazione vuol dire
attraversare dove l'acqua è più alta, dove è più difficile, ma quando ce l'hai
fatta hai costruito una strada, aperto una via, hai dato una risposta ai problemi.
In questa fase di crisi abbiamo lavorato insieme alle
altre organizzazioni e spesso di fronte ai problemi la prima risposta alle
difficoltà, la prima sollecitazione era quella di fare una manifestazione e
alcuni di noi, meno esperti, più giovani, si sentivano un po' in difficoltà. Ma
alla fine, quali sono state le risposte? Le risposte sono stati gli accordi.
Altre strade difficilmente avrebbero portato a questi risultati. Ci sono state
delle mobilitazioni significative, quando un sabato mattina abbiamo riempito la
città di Milano abbiamo ottenuto un grande risultato e non era una
mobilitazione di secondo piano perché fatta di sabato. Si è trattato di un
avvenimento straordinario. Quelle donne e quegli uomini hanno messo a
disposizione del loro tempo perché credono a queste idee, a questi valori.
Qualche mese fa ho posto la questione su come
dobbiamo utilizzare lo sciopero. Lo sciopero è sacro, nessuno ha in mente di
cancellare alcun strumento dell’azione sindacale. Però gli strumenti vanno
utilizzati nel giusto contesto. Se devo fare uno sciopero per abbassare le
tasse sul lavoro, per imprese e lavoratori, nell'impresa in crisi o chiusa non
lo faccio, mentre dove le cose vanno bene dovrei fare una lotta contro
un'azienda per un obiettivo che condividiamo? Ci sono dei tabù da superare, ci
sono dei sindacalisti che pensano che saremmo in difficoltà a fare delle azioni
comuni con gli imprenditori su temi che sono di interesse comune, ma io penso
che le discontinuità, se vogliamo dare un senso alla rappresentanza, possono
essere anche queste. Ognuno poi fa la sua parte, possiamo fare delle cose
insieme ma poi facciamo la contrattazione, ci giochiamo la nostra partita, però
avendo come riferimento l'idea che l'impresa non è il nemico da abbattere
perché, sarà banale, ma senza impresa non c'è lavoro e allora con l'impresa
bisogna intessere delle relazioni. Certo, ci sono dei momenti in cui è
necessario reagire, anche nella crisi, di fronte a certi atteggiamenti, certe
irresponsabilità, occorre lottare, difendere la dignità dei lavoratori quando
qualcuno tenta di calpestarla. Si deve avere la capacità di discernere gli
strumenti da utilizzare di volta in volta, però la strada è una nuova capacità
di incontro tra imprese e lavoro.
D. Una delle questioni importanti che vede impegnati
in questo momento i delegati è quella dell'applicazione dell'accordo sulla
rappresentanza nei luoghi di lavoro.
R. È un accordo straordinario e mi auguro che possa
essere esteso. È la rappresentanza che si dà delle regole, ma soprattutto è nel
solco della nostra idea, della nostra azione. Se si vuole estendere la
contrattazione è indispensabile assicurare la sua esigibilità. Le
organizzazioni devono essere rappresentative, quindi nei posti di lavoro è
giusto che la nostra rappresentatività sia misurata in base al numero degli
iscritti e ai voti che si ricevono in occasione delle elezioni delle rsu cui
partecipano tutti i lavoratori. Se si fanno accordi e sono approvati dalla
maggioranza, devono valere per tutti perché se non c'è uno strumento di
esigibilità degli accordi non si può contrattare e per farlo serve una
rappresentanza misurata e certificata. Noi ci siamo assunti la responsabilità
di darci questa modalità per verificarla. L'antidoto alla contrattazione
individuale e alla balcanizzazione dei rapporti di lavoro è quello di avere
delle regole in tema di rappresentanza e ognuno deve essere capace di
conquistare la fiducia dei lavoratori. Anche in questo caso i delegati sono
centrali, fondamentali, devono essere persone capaci di conquistare consenso
nelle elezioni e questo significa lavorare con loro, mettergli a disposizione
degli strumenti che gli consentano di essere rappresentativi, in grado di
rispondere sempre meglio alle domande dei lavoratori e quindi ottenere un
riconoscimento. Se i delegati avranno un consenso e una rappresentanza
significativa nei luoghi di lavoro anche il sindacato conterà di più. Questo è
il sindacato bello che stiamo ridisegnando in una fase così complicata e
difficile.
D. Il sindacato fatica a dare risposte alle nuove
aree del lavoro, alle nuove figure professionali, che tra l'altro sono quelle
che vedono maggiormente impegnati i giovani. E’ tempo probabilmente di passare
dal sindacato del lavoro al sindacato dei lavori. La Cisl è pronta a fare questo
salto?
R. No, e dobbiamo dirlo con forza che siamo
inadeguati, perché in questi anni abbiamo avuto la presunzione di sapere
interpretare i cambiamenti che avvenivano nel mondo del lavoro. Abbiamo anche
costruito una categoria che si occupa di queste nuove fasce di lavoratori, ma
non siamo stati in grado di cogliere ciò che stava realmente accadendo. Nelle
realtà in cui siamo presenti ci siamo occupati prevalentemente di coloro che
tradizionalmente rappresentiamo, e questo era giusto e normale, ma abbiamo avuto
scarsa attenzione alle altre figure con rapporti di lavoro atipici.
Un sindacato che non è attore nel mercato del lavoro
fatica a capire esattamente le dinamiche che avvengono. Sarebbe meglio
restituire allo Stato l'impegno che abbiamo nella compilazione delle
dichiarazioni dei redditi e riprenderci la gestione del mercato del lavoro per
lavorare su come far incontrare domanda e offerta di lavoro e accompagnare le
persone all’ingresso nel mondo del lavoro. Non possiamo continuare a mantenere
sguarnito questo ambito, e se continueremo così, ogni giorno che passa,
rappresenteremo una fetta di lavoratori in meno.
Dobbiamo essere capaci di portare i giovani dentro il
mondo del lavoro, avvicinare scuola e lavoro, ma assumere questo impegno non
come iniziativa da realizzare quando si è più liberi da altro, ma come una
priorità. E non abbiamo molto tempo per farlo. La crisi ci ha forzatamente
portato a interessarci delle emergenze, della cassa integrazione, i
licenziamenti, ma ora dovremmo fermarci e fare un grande respiro, perché forse
abbiamo a disposizione solo pochi secondi per riuscire a gestire questa
partita. È una partita nella quale dobbiamo rompere gli schemi, sia dal punto
di vista organizzativo che della metodologia per riuscire a parlare, incontrare
e rappresentare tutto il nuovo del lavoro. Anche dal punto di vista degli
strumenti.
Forse per alcune di queste forme di lavoro non basta
solo l'elemento della contrattazione, forse bisogna cominciare a parlare di
strumenti nuovi. Un livello salariale minimo sotto il quale non si possa
scendere, anche tutelato dalla legge. Dobbiamo essere coscienti che o siamo in
grado di fare una proposta vera, concreta, forte, che tocchi il cuore di chi si
trova in queste condizioni, altrimenti, se facciamo ogni tanto qualche
volantino e qualche convegno, illudiamo noi stessi e non diventeremo mai il
punto di riferimento per guidare le trasformazioni che avvengono nel mondo dei
nuovi lavori.
Se non si è ancora realizzato uno statuto dei lavori
probabilmente abbiamo delle responsabilità, perché alcune cose le abbiamo dette
più volte, ma forse non gli abbiamo mai dato la necessaria priorità.
D. Per queste fasce di lavoratori serve anche
immaginare forme di rappresentanza diverse da quelle che il sindacato ha messo
in campo fino ad oggi?
R. Certamente. Dato che stiamo realizzando un
profondo cambiamento organizzativo della nostra struttura sarebbe importante
creare degli spazi un po' liberi e autonomi per questi lavoratori, dove
acquisire una capacità di autorappresentarsi all'interno della Cisl. Un
sindacato che non rappresenta coloro che entrano nel mercato con nuovi rapporti
di lavoro, che sono spesso forme deboli, e che non rappresenta le alte
professionalità, è un sindacato che è schiacciato in una morsa. Dobbiamo darci
una mossa e uscire da questa morsa con delle proposte forti e non generiche.
Senza questa capacità non abbiamo un futuro e noi invece vogliamo averlo, non
per noi, ma per dare loro la possibilità di costruirsi delle risposte.
Dobbiamo mettergli a disposizione strumenti che li
aiutano ad autorganizzarsi, anche con la loro autonomia. Probabilmente siamo un
po' arroganti pensando di riuscire sempre a interpretarli, mentre dovremmo
avere la grande umiltà di ripartire dalla loro dimensione, dall'incontro con le
loro storie, per affrontare la loro condizione. Il sindacato deve spostare il
baricentro. Se siamo capaci di farlo, ritorniamo ad acquisire la capacità di
entrare in dimensioni diverse.
D. A proposito di rappresentanza, anche il mondo
delle controparti è fortemente diviso. Come valuta questa situazione?
R. C'è una crisi generale della rappresentanza. Tutti
in questi anni hanno puntato il dito sulla crisi della politica, ma anche la
rappresentanza sociale e d'impresa sta attraversando una fase convulsa. Ci sono
organizzazioni che tentano di mettersi insieme e altre che si dividono. Tutto
questo è un po' figlio delle difficoltà del momento che hanno messo a nudo le
problematicità di ognuno e spinto verso le trasformazioni. Credo che si debba
ricostruire un tessuto di rappresentanza partendo dal basso. Sarà una visione
troppo superficiale, ma ritengo che la rappresentanza si rafforza se riparte
dalla dimensione bassa e mano a mano che i livelli salgono questi devono
diventare voce e strumento per dare risposte ai problemi che la base evidenzia. In fondo le imprese che escono dai
circuiti di rappresentanza lo fanno dicendo che l'associazione non è in grado
di capire le loro esigenze, le loro specificità. Questo perché nella
rappresentanza generale, quella concertativa, ci stava dentro tutto e il
contrario di tutto, adesso siamo sfidati a fare sintesi di tante specificità.
Credo che sia possibile, che ci siano le condizioni per costruire una nuova
stagione della rappresentanza, a una condizione: che non si pensi che questo
che stiamo vivendo è solo un temporale un po' forte e poi con il sereno tutto
possa tornare come prima. Possiamo ridare un ruolo forte alla rappresentanza se
siamo disponibili a rileggerci e a ripensarci.
D. Un'analisi che è alla base anche del percorso di
riorganizzazione in atto nella Cisl?
R. È esattamente questo. Non si può essere soggetti
di cambiamento se non si cambia noi stessi. Il nostro è un paese che non riesce
a fare il salto di qualità perché ognuno vuole il cambiamento dell'altro e
invece occorre un cambiamento collettivo. E per promuovere un cambiamento
collettivo bisogna iniziare a cambiare noi. Mettere in atto dei processi di
cambiamento come stiamo facendo è dura, si tratta di un percorso faticoso, ma
in questo modo si capiscono meglio anche gli altri processi e si diventa più
dinamici, più forti nel chiedere il cambiamento agli altri. Ci siamo detti che
tutto stava cambiando intorno a noi e non potevamo stare fermi, dovevamo
mettere in moto un'energia nuova per riposizionare l'organizzazione. Abbiamo
dato il via alla aggregazione dei territori, alla costruzione di categorie più
grandi, riducendo il numero dei segretari e dando vita all’Osservatorio per la
contrattazione per conoscere i contenuti e per aiutare maggiormente chi lo sta
facendo, per diffondere le buone prassi e far crescere un laboratorio per
contrattare nel territorio, per fare contrattazione sociale. Aumentando le
competenze e le capacità per realizzare queste iniziative. Il cambiamento è
fatto per questo, non per punire qualche segretario che perde il ruolo.
Questa è la fase iniziale, la più complicata, dove
non si vedono ancora i risultati. Tutti coloro che stanno a contatto con la
realtà e abbiano avuto la possibilità di farsi interrogare da questa realtà
cercano di rileggersi, di riposizionarsi perché non è possibile andare avanti
con strumenti che erano adatti a un'altra stagione e che oggi sono inadeguati.
Servono anche valori forti, necessari per attraversare una fase di crisi come
quella attuale. Noi ci riorganizziamo per essere più utili e lavorare meglio e
per farlo dobbiamo essere forti dentro, devono essere forti le ragioni del
nostro agire. Dobbiamo sentire l'inquietudine, l'inadeguatezza di fronte alla
mancanza di lavoro, alla solitudine di tanti anziani, a tante sofferenze.
Basterebbe avere di fronte la fotografia di un giovane che cerca lavoro o di un
anziano che ha lavorato tutta una vita ed è solo, per capire che è lì che
dobbiamo lavorare, quello è il nostro terreno, perché nessuno di costoro resti
solo, perché nessuno resti senza una risposta ai propri bisogni anche se non
saremo in grado di rispondere a tutto. Di fronte a questi problemi dobbiamo
verificare se il nostro modello è adeguato e come cambiarlo. Dobbiamo dare di
più, questo non è un tempo di abbattimento, è un tempo di forza, di entusiasmo,
per aggredire le situazioni, per costruire le risposte.
D. Come hanno reagito le strutture sindacali lombarde
al cambiamento?
R. Pur con tutti i travagli, se non avessero
condiviso l’impegno non saremmo arrivati al punto in cui siamo oggi. Abbiamo
fatto un congresso in cui abbiamo sancito una geografia diversa al nostro
interno, stiamo fortemente lavorando su questa. Poi ogni problema è
comprensibile. Mi sarei sorpreso se passaggi di questo genere fossero vissuti
con superficialità, vengono affrontati invece con serietà e anche con percorsi
complessi che puntano all'obiettivo che ci siamo dati. Secondo me tutti coloro
che pensano “ho sempre fatto così, perché dovrei cambiare?” sono già morti.
Certo ci vuole un po' di allenamento al cambiamento, non è stato fatto per
decreto, lo facciamo per condivisione. È un bel percorso e c'è una risposta
alta.
D. E nella Confederazione, nelle altre strutture in
Italia, è in atto un processo di cambiamento simile? La Cisl è matura per
questo processo?
R. Ho scambiato idee ed esperienze con i miei
colleghi, partecipo ai dibattiti negli organismi e vedo che sono in corso da
parte di tutti dei percorsi dentro il processo di riorganizzazione della Cisl.
Riceviamo molte sollecitazioni, molti stimoli dalla leadership nazionale. Con
alcuni territori abbiamo realizzato anche alcuni lavori comuni. La Cisl ha
scelto a tutti i livelli di avviare questo percorso, mi auguro che sia così
dappertutto, che l'insieme dell'organizzazione sia matura per questo cammino,
comunque le direttive che emergono dagli organismi vanno in questa direzione.
D. In questa fase c'è stato un certo riavvicinamento
con la Cgil. È presente anche in Cgil un'esigenza di cambiamento o sono
soltanto le conseguenze della crisi che spingono a stare più vicini? E’ un
fatto momentaneo o è destinato a proseguire?
R. Il fatto più rilevante tra tutte le vicende che
sono accadute in questi anni di crisi è l’accordo sulla rappresentanza e ciò
che sta accadendo all'interno delle organizzazioni sindacali non è un caso. I prossimi
mesi saranno decisivi.
Per quanto riguarda i rapporti tra Cgil, Cisl e Uil
bisogna sapere da dove li si osserva, se attraverso gli articoli dei giornali
oppure attraverso l'Osservatorio della contrattazione. Se si osservano avendo
tra le mani la rassegna stampa si vedono contrasti, alti e bassi nelle
relazioni, polemiche. Al contrario, la nostra esperienza basata sui dati
dell'Osservatorio sulla contrattazione mostra che in questi anni abbiamo fatto tantissimi
accordi nei luoghi di lavoro, la maggior parte insieme, e in tanti di questi
accordi ci stanno dentro delle tematiche che sui giornali e nei dibattiti sono
occasione di contrasto e di polemiche. Ad esempio la lotta all'assenteismo,
oppure come contrattare dei premi e distribuirli legandoli alla presenza o
meno. Tutte discussioni che se condotte sul piano generale vedono
l'affermazione dei diritti a prescindere, se invece la porti nella pratica la
parola diritti diventa una parola normale. Perché nei dibattiti chiamiamo tutto
diritti, mentre nella scuola della contrattazione ciò che è negoziato è
negoziabile e i diritti sono pochi, universali e non mediabili. Nelle realtà
concrete, nei posti di lavoro, anche in un territorio ampio come la regione Lombardia,
in una situazione così travagliata di anni di crisi, abbiamo fatto decine e
decine di accordi insieme, anche quelli istituzionali. Con un presidente della
Regione e con l'altro. Loro cambiano, ma noi andiamo avanti a fare il nostro
mestiere, perché questi tavoli sono alimentati dalla realtà e nella maggior
parte dei casi si individuano soluzioni condivise. Certo, c'è sempre qualcuno
che alza la propria bandierina a prescindere, che non firmerà mai un accordo,
però a queste persone bisogna che prima o poi gli si spieghi che, come i
giapponesi nella foresta alla fine del secondo conflitto mondiale, la guerra è
finita e il mondo è cambiato.
D. Nell'elaborazione culturale della Cisl
storicamente l'organizzazione ha sempre avuto accanto degli intellettuali, i
professori si diceva una volta. Quanto è importante oggi il contributo di
queste persone per la sua elaborazione culturale e la sua crescita?
R. È fondamentale e dobbiamo rafforzarlo di più. Ho a
cuore uno strumento che è BiblioLavoro e credo sia stato fondamentale in questi
anni intessere rapporti con diverse intelligenze delle nostre università sui
temi economici e sociali. A noi compete la responsabilità di fare delle scelte,
però abbiamo bisogno di essere alimentati da un orizzonte di riflessione alto.
Dovremo sempre più rafforzare questo legame e dobbiamo cercare, anche in tempo
di crisi, di partecipare al dibattito culturale, di fare ricerche, analisi, non
dare niente di scontato, studiare ogni giorno, farci sfidare, inquietare. Le
relazioni sono numerose e differenti. Sviluppiamo rapporti con il mondo
culturale che lavora sul tema dell'identità, sui nostri valori, che hanno
bisogno in continuazione di essere riproposti. Abbiamo collegamenti con figure
più attente agli aspetti economici, che sono indispensabili.
Non possiamo pensare di aggiornarci solo attraverso
la lettura delle notizie sui quotidiani, dobbiamo fare di più, mettendo a
disposizione dei delegati e di tutto il corpo dell'organizzazione sempre
maggiori elementi di conoscenza. Qualche strumento di informazione economica e
sociale lo promuoviamo noi stessi e anche adesso sono in corso delle ricerche.
Con il nostro Osservatorio della contrattazione, ad esempio, collaboriamo con
alcune fondazioni. Qualcosa si fa in casa e qualcosa si realizza insieme agli
altri. È fondamentale procedere in questo modo, poi bisogna assumersi le
proprie responsabilità. Non dobbiamo delegare a questo mondo. Dobbiamo farci
aiutare, sentire le riflessioni, poi sta a noi scegliere.
D. Riuscite a trasferire questa conoscenza, queste
acquisizioni culturali alla prima linea dell'organizzazione, ai delegati?
R. I delegati devono essere sempre di più il nostro
punto di forza con il quale ci confrontiamo e che dobbiamo ascoltare, però,
siccome abbiamo una responsabilità di gruppo dirigente, dobbiamo sapere anche
costruire delle risposte e per farlo ci dobbiamo attrezzare. Credo che farsi
alimentare attraverso il confronto con i delegati e con le intelligenze che ci
sono vicine sia il connubio fondamentale per individuare le soluzioni migliori.
Perché i delegati sono portatori di un sentire, di un fare, ma non basta, per
questo dobbiamo sapere offrire loro ulteriori conoscenze per alzare la qualità
della risposta.
Alcune cose che abbiamo fatto in questi anni sui temi
economici, sui temi sociali, sulla contrattazione, senza i contributi
straordinari come quello del professor Carera, di figure come Baglioni, Bonomi,
Magatti, Sapelli e di tanti altri, non le avremmo potuto realizzare. Se
osserviamo l’elenco degli ospiti che hanno partecipato con noi in occasione
delle Fiere della contrattazione si vede molto bene il contributo che c'è
stato. E’ stato un aiuto reciproco, perché anche loro hanno ricevuto tante
conoscenze che servono per sviluppare le loro riflessioni e le loro ricerche.
Abbiamo utilizzato ogni occasione utile per riflettere, per approfondire, per
studiare.
In occasione del 60º della Cisl non abbiamo coniato
delle medaglie, ma abbiamo organizzato un convegno di studio molto impegnativo,
con degli atti e delle relazioni che sono diventate patrimonio
dell'organizzazione.
D. Rapporto con la politica. La Cisl ha condotto
alcune battaglie sui costi della politica, mantenendo però sempre un rapporto
con i partiti e le forze politiche. Qual è oggi lo stato del confronto?
R. Abbiamo fatto una manifestazione contro i costi
della politica, sarebbe interessante rivedere le immagini di quella giornata,
rileggere le lettere che abbiamo scritto in quei giorni, a chi, che cosa ci
rispondevano. Ma noi non lo facevamo per metterci in mostra, c'erano delle cose
che non ci piacevano e lo volevamo dire. Abbiamo prima cercato di dirlo
personalmente, ma quando non siamo stati ascoltati lo abbiamo detto più forte.
Con sofferenza, perché noi siamo gelosissimi della nostra autonomia, ma abbiamo
grande rispetto della politica. Noi rappresentiamo una parte che, per quanto
importante, è solo un pezzo della società e per andar bene questo paese, questa
regione, queste città, quest'Europa hanno bisogno di chi rappresenta
l'interesse generale e che lo faccia con un'idea di bene comune.
La politica non è solo una questione di malaffare e
di interessi, la politica è importante. Con la buona politica la povera gente
ha contato di più, senza la politica o con la cattiva politica le persone
contano di meno. Noi abbiamo alzato la voce, ma senza voler rivendicare ruoli
particolari e abbiamo visto dei cambiamenti. Ci rapportiamo alla politica per
quello che ci compete, in funzione della nostra rappresentanza, facendo i
contrattualisti e non facendo noi i politici. Questo è il percorso che abbiamo
compiuto e che vogliamo continuare.
Non rifiutiamo mai il confronto. Ho la convinzione
che attraverso le nostre battaglie e le nostre iniziative ci siamo fatti
conoscere meglio per quello che siamo. Ci vuole un po' di tempo per farsi
capire. Non siamo per innamoramenti veloci, però piano piano veniamo conosciuti
per il nostro essere contrattualisti e per il fatto che siamo lì per portare
dei problemi e cercare delle soluzioni. Quando andiamo ai tavoli facciamo accordi
se pensiamo che quello sia il livello di mediazione giusto per gli interessi
che rappresentiamo, non per rafforzare l'assessore o il presidente o cose di
questo genere. Quando ci arrabbiamo lo facciamo sempre su questioni di merito.
Purtroppo i problemi sono una moltitudine, i confronti sono stati tanti e tutti
i giorni c'è un tavolo, una trattativa perché la crisi chiede risposte. E
quando facciamo un buon accordo lo dichiaro, perché mi interessa andare dai
lavoratori a dire che abbiamo ottenuto qualche soldo in più, che possiamo
anticipare la cassa integrazione, fare un contratto di solidarietà, avere una
dote lavoro. Abbiamo costruito una risposta sociale. Il mio obiettivo rimane
questo. Poi se nel dire che è stato un buon accordo si esprime un giudizio
positivo sull'assessore o sul presidente si tratta sempre di una valutazione
sul merito. Questo è ciò che noi facciamo.
D. In queste azioni si è sviluppato un contatto
ravvicinato con i presidenti della Regione, prima Formigoni e poi Maroni. Cosa
ci può dire a questo proposito?
R. A me non interessa come si vestono, che occhiali
portano o come muovono le mani, io guardo al merito. Abbiamo fatto degli
accordi e anche degli scontri quando presidente era Formigoni e continuiamo a
fare accordi e scontri ora che presidente è Maroni. Ognuno ha il suo stile e il
suo modo di rapportarsi, ma a noi interessa solamente il risultato.
D. Al di là del rapporto politico con la Regione, c'è
una quotidianità di lavoro, di collaborazione con le strutture della Regione,
con gli assessorati, i gruppi consiliari. Come funzionano queste relazioni?
R. Sui temi del lavoro e su quelli sociali si sta
lavorando molto e ci siamo dati strutture molto operative. Miglioramenti si
possono fare, ma la durezza di questa crisi ha portato molta concretezza.
Persino nei rapporti più diretti c'è questo fare concreto. Un atteggiamento che
ha portato alla definizione di una serie di provvedimenti sul lavoro che sono
passati con voti trasversali, anche all'unanimità. Il fatto che su diversi temi
come il lavoro o l’Expo ci siano delle convergenze è espressione di serietà.
Anche sui temi sociali si è rafforzato molto il rapporto e anche in questo caso
abbiamo condiviso diverse scelte. Quelli che prima erano dei confronti sulle
linee guida oggi si sono tradotti in accordi sindacali. Possiamo dire che c'è
stata una crescita di responsabilità.
D. Il dialogo del sindacato con la politica e le
istituzioni è sempre stato intenso anche a livello nazionale. Oggi abbiamo un
governo che pare voler procedere senza tenere in grande considerazione il
confronto con le organizzazioni sindacali. Qual è la sua valutazione?
R. È dal governo Monti che mi auguro venga
definitivamente chiusa la stagione della concertazione. La teoria che noi
possiamo fare tutto non mi ha convinto
in questi anni. Noi torneremo ad essere forti sul versante contrattualistico
mano a mano che si chiudono altri rubinetti. Possiamo tornare ad avere un ruolo
significativo sui tavoli nazionali ma ripartendo dal basso. Ci chiameranno
quando ci sentiranno protagonisti nei luoghi di lavoro, nei territori, quando
capiranno che c'è un humus sociale che si muove. Pensano di farci del male
tenendoci lontano dai tavoli generali? Li dobbiamo ringraziare, ci stanno
facendo un grande bene. A questi tavoli non abbiamo più niente da scambiare,
mentre abbiamo tante cose da fare ai livelli più bassi, tante sperimentazioni
da far crescere che possono diventare punto di riferimento.
Tutte le ipotesi di riforma e di cambiamento sui temi
del lavoro a ben vedere stanno andando ad attingere ad esperienze che sono
partite nei luoghi di lavoro e sul territorio. Abbiamo gestito la crisi con gli
ammortizzatori in deroga che è un'esperienza avviata in un territorio lombardo.
Ci dobbiamo convincere che il nostro futuro è questo, partendo da questa
dimensione. Certo, non è una dimensione isolata e chiusa in se stessa, bisogna
avere altri elementi che si aggiungono e c’è bisogno di scelte che devono
essere fatte a Roma e a Bruxelles. Magari puntando di più su Bruxelles.
D. Durante la crisi è emersa però una grande distanza
tra cittadini e l'Europa, si è diffusa l'idea che Bruxelles non fosse una
risposta ai problemi, ma in qualche modo fosse il problema. Quale Europa ci
serve?
R. Ci siamo tutti un po' nascosti dietro questa Europa.
Tutte le volte che è stata fatta una manovra finanziaria abbiamo detto “ce lo
chiede l'Europa”. È stato comodo. Poi gli stessi, quando si confrontano con il
disagio diffuso tra i cittadini, con l'avvicinarsi della tornata elettorale, si
lamentano per la scarsa attenzione e disponibilità dei cittadini verso
l'Europa. Bisogna spiegare che l'enorme debito pubblico che abbiamo non l'ha
fatto l'Europa e se i conti non sono in ordine ci sono responsabilità nostre,
di tutti. Stiamo raccogliendo ciò che abbiamo seminato. Se abbiamo usato
l'Europa ogni volta che ci serviva, ad esempio per giustificare la riforma
delle pensioni o altri tagli, come possiamo pensare che le persone vogliano
bene all'Europa?
Sono convinto dell'importanza dell'Europa, ma sono un
addetto ai lavori, ho maggiori possibilità di conoscenza. L'Europa, ma
un’Europa diversa, può essere la forza che ci aiuta a risolvere i nostri
problemi. In un mondo globalizzato se l'Europa parlasse con una voce sola
avrebbe un ruolo significativo. Per me, che ho sentito i racconti di mio padre
che aveva fatto la campagna di Russia, l'Europa in questi anni è stata
soprattutto un luogo di pace. L'Europa ha valori ed esperienze straordinarie.
Ma cosa abbiamo fatto per valorizzarle? Cosa abbiamo fatto, dopo l'introduzione
dell'euro, per avere un vero governo politico europeo e non un'Europa delle
banche, che giustamente la gente non accetta più, che vuole ribellarsi. Anch'io
vorrei ribellarmi contro i banchieri. Non bisogna aspettare le elezioni per
riflettere e discutere su queste questioni. È una partita delicatissima e la
dobbiamo riempire di una progettualità nuova per far voler bene all'Europa e farla
vedere come un'opportunità.
In Lombardia si svilupperà il semestre europeo a
guida italiana e subito dopo si inaugurerà Expo, avremo la possibilità non solo
di vedere arrivare milioni di persone, ma di metterci in relazione su un tema
particolarmente importante come “nutrire il pianeta” che riguarda il modello di
vita, una cosa straordinaria. È un tempo e un luogo singolare per riflettere su
queste questioni, perché se non alimenti una cultura diffusa, un sentire
comune, in occasione delle elezioni tutto diventa solo uno schierarsi pro o
contro. Basterebbero piccole cose per capire il valore dell'Europa, basterebbe
vedere quanto conta l'Italia da sola nel mondo. Però sono tanti i deficit che
ci hanno portato a questa situazione, pensiamo ad esempio al ruolo del
Mediterraneo in Europa. C'è da molto correggere dell'Europa di questi ultimi
anni. È stata una brutta Europa, ma può essere un'opportunità, bisogna fare di
più, non può essere solo campagna elettorale.
D. Il sociale è ricco di esperienze attive in
numerosi ambiti, particolarmente vivace l’associazionismo cattolico. Quanto è
importante il confronto e la collaborazione con questo mondo?
R. Noi dobbiamo sempre confrontarci con le
organizzazioni sociali, con le rappresentanze della società civile nel suo
insieme, senza nessuna esclusione, partendo dalle organizzazioni che possono
avere dei valori comuni con i nostri. È importante riflettere su che cosa è il
lavoro per una persona, perché dalla concezione del lavoro e della persona
discende il modo di costruire delle risposte. Per un credente, il lavoro è la
continuazione della creazione, in questo caso la risposta da dare non è solo il
salario minimo garantito, ma si deve garantire il lavoro e se il lavoro non c'è
si deve ridistribuirlo. Dietro l'idea della redistribuzione del lavoro, dei
contratti di solidarietà, c'è una precisa visione della persona. Anche nell'obiettivo
di realizzare un welfare sociale, chi si mette al centro?
Noi vogliamo costruire delle risposte ai bisogni che
siano risposte forti anche in termini di senso. Per questo occorre confrontarsi
con altre realtà, partendo da quelle con cui ci sono delle basi comuni di
riferimento e poi lavorare su queste, confrontarsi, contaminarsi. C’è anche un
forte bisogno di relazione della nostra organizzazione con altri, guai a noi se
pensassimo all'autosufficienza perché siamo in tanti. Per me è fondamentale confrontarsi con chi
sta ad uno sportello, magari della Caritas, che vede più di me la durezza della
realtà. E’ importante il rapporto con la cultura, con l'intelligenza, ma è
importante il rapporto con chi mette le mani in pasta, con chi dà da mangiare a
chi ha fame, a chi risponde a una fila di persone che hanno perso un lavoro,
non hanno un reddito. Noi denunciamo, ma loro intanto distribuiscono un piatto
di minestra.
Dobbiamo metterci insieme a queste organizzazioni per
cercare di dare delle risposte migliori, per fare meglio rappresentanza, per
costruire insieme più cultura, più sensibilità rispetto ai temi del lavoro e
del sociale. Nella relazione con questi mondi facciamo troppo poco, bisogna
fare di più e bisogna farlo con spirito generoso.
D. C'è una fascia di marginalità, che è cresciuta in
questi anni, all'interno della quale sono finiti sempre di più lavoratori che
hanno perso il posto, famiglie in difficoltà, piccoli imprenditori che hanno
visto crollare la loro impresa. Il sindacato, la Cisl, che cosa può fare per
queste persone?
R. È un altro dei temi che dobbiamo avere nella
nostra agenda e cercare di costruire delle risposte. Probabilmente gli ultimi
non li abbiamo mai rappresentati. Oggi, però, forse deleghiamo troppo alle
associazioni di volontariato, alla Caritas, le azioni di supporto per queste
persone. Sappiamo che una parte di costoro si rivolge alla Caritas a causa
della cattiva distribuzione del reddito, a causa delle ingiustizie, per la
mancanza di servizi adeguati, per la difficoltà di avere una casa quando una
famiglia si spezza. Penso che tocchi anche noi occuparci di alcuni di questi
problemi. Possiamo farlo diventando protagonisti di una forte contrattazione
sociale dentro le comunità, per fare in modo che ci siano delle strutture che
possano aiutare le persone in difficoltà. Un’azione che deve essere parte della
nostra iniziativa quotidiana.
Dobbiamo essere protagonisti del ridisegno del
welfare per contribuire a risolvere questi problemi e offrire sostegno alle
persone che da sole non riescono a farcela. Un sindacato di questo tipo ha un
grandissimo futuro perché costruisce risposte ai bisogni reali delle persone.
Qualcuno è convinto che i sindacalisti migliori siano quelli che sono più bravi
a intervenire ai talk show. Non è così. Il futuro del sindacato sarà il
sindacato dei fatti, delle risposte concrete. Non possiamo seguire i lavoratori
solo quando sono in fabbrica oppure nel momento in cui perdono il lavoro e poi
abbandonarli al loro destino, dobbiamo essere in grado di essergli vicino nelle
difficoltà che incontrano successivamente, nella solitudine in cui spesso
finiscono. Le persone devono sentire che nelle loro difficoltà noi gli siamo
vicini. La vicinanza di un'associazione che tutti insieme contribuiamo a
costruire e nessuno è lasciato solo nel momento del bisogno. Guardando negli
occhi le persone, partendo dalle loro condizioni, nasce la nostra prospettiva.
D. La Cisl lombarda ha recentemente cambiato sede
lasciando la storica palazzina unitaria di Sesto San Giovanni. Quanto è
importante la sede nuova per la Cisl regionale?
R. Ci ho pensato tanto. Mi sono confrontato con chi
aveva preso quella sede, prima di maturare questa scelta. La vecchia sede era
obsoleta dal punto di vista strutturale, ma forse lo era diventata anche perché
non era più stata alimentata dalle ragioni per cui era nata. La scelta di
cambiare la sede sta dentro il percorso di cambiamento che abbiamo avviato in
questi anni e che stiamo realizzando. Però non ha voluto dire assolutamente
mettersi in proprio, non confrontarsi con gli altri, perché francamente
dobbiamo riconoscere che, pur nella durezza della situazione e dei rapporti, a
volte aspri, che ci sono stati tra le organizzazioni, siamo sempre stati capaci
di tenere un livello dignitoso della discussione politica nelle differenze e
una responsabilità alta nel fare tante cose insieme, anche in momenti
difficili.
La nuova sede risponde a un'esigenza oggettiva,
materiale dell'organizzazione, ma questo cambiamento non ha voluto dire che
volevamo andare avanti da soli, senza gli altri. Anzi, adesso che anche la Cgil
lascerà la vecchia sede, da luoghi diversi potremo costruire percorsi comuni
adatti a questa stagione. Ci dobbiamo tutti sfidare nel dare forti segni di
discontinuità. Noi non ci vergogniamo del nostro passato, anzi, è un grande
patrimonio, ma per far diventare generativo questo patrimonio abbiamo bisogno
di cambiamento e di velocità. Perché per un sindacato che capisce come
coniugare il locale con il globale, con un po' di difficoltà, ci siamo; che si
sia passati dalla catena di montaggio ad una maggiore complessità, la realtà ci
ha costretto a capirlo; ma per passare dalla lentezza alla velocità - senza
toccare nessuna regola democratica - invece c'è ancora molto da fare. C'è una
discontinuità di comportamenti, di azioni per costruire le risposte, però,
essendo organizzazioni che vivono il contatto con la realtà, pur da sedi
diverse potremo fare importanti pezzi di strada insieme. I delegati in molti
luoghi di lavoro ce lo dimostrano, i lavoratori ce lo sollecitano.
D. Un'ultima domanda. In questi anni, seppure a volte
con fatica, le idee che ha esposto in questa intervista sono diventate
patrimonio dell’intera organizzazione. Che cosa occorre ancora per dare
maggiore concretezza all’azione della Cisl lombarda?
R. Per me sono stati anni straordinari. È stata
un'esperienza per la quale ringrazio coloro che mi hanno consentito di farla e
mi ritengo fortunato. Quello che ci manca ancora, ricordando però che abbiamo
cambiato tanto, è un lavoro più forte sui delegati, sono una risorsa
incredibile e dobbiamo fare di più. Li teniamo ancora un po' sotto controllo,
ogni operatore li considera un po' suoi, mentre devono diventare un patrimonio
dentro l'organizzazione, li dobbiamo liberare. Devono sì rispondere al loro
operatore e alla loro categoria, ma dobbiamo fare un percorso insieme. Dobbiamo
lavorare di più per far crescere il loro protagonismo, per far diventare
l'organizzazione più vissuta. Più i delegati fanno un passo avanti, più in
quest'organizzazione entrano energie straordinarie. Vorrei sentirli più vicini.