Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto”, di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Jaca Book, Milano, 2019
Nato a Bergamo
il 25 dicembre 1943, ha sempre vissuto a Scanzorosciate. Un cammino dentro la
Cisl, da delegato in una grande azienda tessile a segretario generale nazionale
del sindacato.
Mia madre era sicuramente credente ma in un modo
laico, distaccato. Mio padre non lo so, andava a messa ma allora ci andavano
tutti. Ho frequentato un po' l'oratorio ma non molto, ho frequentato
maggiormente i preti del mio paese che erano eccezionali tra cui monsignor
Giovanni Merisio, il quale prendeva noi ragazzini e ci insegnava un mare di
cose.
Mia madre era operaia tessile e mio padre un
muratore per cui la dimensione del lavoro era dentro la nostra vita quotidiana.
Io ho iniziato a lavorare a dodici anni in una piccola officina del paese e poi
sono entrato in una grande fabbrica, la Reggiani, con 1.500 persone.
L'idea di
impegnarmi nel mondo del lavoro in me nasce per reazione. Alla Reggiani vigeva
un regime opprimente per autoritarismo e paternalismo, non esisteva il diritto
di parlare. Aderenti al sindacato eravamo una quindicina. Io ho scelto di darmi
da fare nel sindacato quando, dopo lo sciopero per il rinnovo del contratto
nazionale di lavoro nel 1962, la direzione fece la serrata. Di fronte a questo
comportamento che ho percepito come una violenza, come un sopruso ho pensato
che dovevo fare qualcosa e mi sono iscritto alla Cisl. La Cisl perché il mio
mondo portava lì, frequentavo la parrocchia, mi sono iscritto alla Democrazia
cristiana che avevo 14 anni, il mio ambiente era quello ed era naturale che io
arrivassi alla Cisl. Anche se ci sono arrivato tardi, perché avevo vent'anni.
Il lavoro era parte della mia vita, della mia
famiglia per cui lavorare e impegnarmi era la stessa cosa, non c'era una
separazione così come non c'è mai stata tra la mia vita e il mio impegno
sindacale e anche l'aspetto religioso per me era la mia vita. In quegli anni
partecipavo a incontri di formazione sindacale anche se le occasioni non erano
molte ed erano soprattutto di carattere tecnico informativo, mentre i contenuti
e i valori li recuperavo da altre parti, in particolare dalla politica, dalle
riflessioni religiose, difficilmente dal sindacato. Partecipavo agli incontri,
però soprattutto preferivo leggere e scrivere per conto mio. Facevo il topo di
biblioteca. Ho letto quasi tutti i libri degli scrittori cristiani come Bernanos,
Péguy, Teilhard de Chardin, Simone Weil perché in essi trovavo i miei punti di
riferimento, sempre per mia scelta non per suggerimento di qualcuno. Quando
lessi La condizione operaia di Simone
Weil mi si aprì un modo di pensare. Leggevo i quotidiani, che non era usuale
nel nostro mondo. Compravo Il giorno,
poi per reagire al mio capo reparto che mi diceva che non capivo niente e che
per fare bene il sindacalista in fabbrica avrei dovuto leggere Il Sole 24 Ore ho cominciato a
comperarlo e a leggere anche libri di economia. Ho letto Marx, non ero
comunista ma ero affascinato dal comunismo e infatti seguivo Franco Rodano,
seguivo i cattolici comunisti. Nella Democrazia cristiana frequentavo la
corrente di Donat Cattin dove incontravo gente della sinistra cattolica.
Conservo gli opuscoletti della dottrina sociale
della Chiesa e i testi delle encicliche, come la Rerum novarum e la Pacem in
terris, li studiavamo in parrocchia ma non erano gli elementi motivanti,
era una conoscenza, un sapere, non un sostegno alla militanza. Il sostegno alla
militanza veniva dalla vita. Occorre tenere presente che da noi ha avuto una
grande influenza il pontificato di Giovanni XXIII.
Sul luogo di lavoro il mio essere un credente
riconosciuto non mi ha mai creato dei problemi anche perché a eventuali
critiche io sapevo reagire duramente e poi dimostravo nei fatti che non ero un
conservatore.
Non ho mai sentito il bisogno di portare i temi del
lavoro dentro la mia comunità perché erano già connaturati in essa. Se io
andavo a messa la domenica mattina e poi mi fermavo sul sagrato della Chiesa,
come era uso, oppure al bar si parlava del lavoro. Il lavoro era parte del mio
essere, della vita della mia comunità.
Nel ‘67, ‘68 sono arrivato alle Acli, ma ero già una
persona adulta con un percorso formativo ormai completato. È stata una piccola
ma bella esperienza. Alla Reggiani abbiamo costituito il nucleo aziendale e
tutti i sabati pomeriggio i responsabili dei diversi gruppi di fabbrica si
trovavano alle Acli provinciali e lì ho imparato molto, però soprattutto di
come fare sindacato. Nelle Acli si faceva formazione, c'erano i campi scuola
estivi e anche lì però, siccome le Acli erano fatte sostanzialmente di
lavoratori industriali, l’argomento centrale era sempre l'azione sindacale in
fabbrica anche se ovviamente non mancavano riflessioni di tema religioso. Era
una formazione para sindacale e per altri aspetti para politica.
Un sindacato deve esprimere i suoi valori fondanti e
quello che pensa la sua gente. Se la grande maggioranza degli iscritti alla
Cisl è cattolica come puoi pensare che la Cisl sia agnostica? Poi è laica nel
senso che non fa discendere le sue scelte dalle scelte religiose, ma comunque
se i suoi iscritti, ed è così, sono di orientamento cattolico tu non puoi essere
diverso. È naturale, perché nel dibattito questa dimensione emerge, perché l’iscritto
nel suo dire, nel suo interpretare il mondo usa quel criterio. Credo che sia
stata una bella combinazione la nascita della Cisl espressione di una laicità
che non rinnegava l'elemento della religione come invece sostenevano i laicisti
che alla fine hanno creato danni e possono crearne anche adesso, perché la
religione è una parte costitutiva degli uomini. Posso non essere io religioso,
ma se la mia comunità, la mia nazione ha questi fondamenti non li posso
ignorare, anzi li devo approfondire.
Durante la mia segreteria avevamo dei buoni rapporti
con le istituzioni ecclesiastiche anche di alto livello, ma io non ho mai
subito una pressione per fare una cosa invece di un'altra. Certo la Chiesa
faceva sentire la sua voce, ma era la sua libertà. Ad esempio, sul lavoro
domenicale ricordo gli interventi contrari di monsignor Tonini, ma noi abbiamo
fatto le nostre scelte e non ci siamo tirati indietro. Mentre tenevamo conto
delle loro ragioni che ci aiutavano anche a dipanare un po' quello che
succedeva, sapevamo che dovevamo tenere conto della realtà. La realtà viene
prima di ogni altra cosa, anche quando non mi piace.
Ma quale realtà? La Cisl non è mai stata un
sindacato di classe, un sindacato ideologico, ma ha sempre avuto come perno
della sua riflessione la dimensione dell'uomo e pertanto, nel caso dei
lavoratori, il loro sfruttamento. C'è nella visione cislina questa dimensione
antropologica che l'aiuta a capire che cos'è il reale; il reale è la dimensione
umana e come essa si declina. La sua centralità non è la classe ma l'uomo e la
sua libertà. L'afflato democratico della Cisl nasce da questo, se l'uomo è
sfruttato non è libero, se l'uomo è oppresso dal sistema economico non è libero.
Allora bisogna liberarlo, per cui vado contro il sistema economico. E’ questa
visione dell'umano come centrale che ha aiutato la Cisl a cogliere la realtà.
L'unico tentativo serio di ristabilire una relazione
fra le varie associazioni cristiane è stato quello di Retinopera alla quale la Cisl partecipava ma non era tra i
fondatori. Il convegno di Todi del 2011 invece rispondeva alle aspirazioni di
qualcuno e infatti è fallito, era strumentale, ma era tipico di Raffaele
Bonanni. Io allora non ero più in Cisl e parlai con qualche esponente della Cei
e dissi che Todi era un errore.
L'area di riferimento politico della Cisl è sempre
stata il riformismo sociale, non comunista ma non anticomunista, non
democristiana conservatrice, ma portatrice di un laburismo nuovo. La Cisl è
l'incarnazione di questo laburismo. Per il sindacato è importante salvaguardare
un'area di riformismo politico, non per quell'area ma per sé, per il suo agire,
per la sua libertà. L'autonomia non è neutralità ma scelta.
Oggi nella struttura gerarchica della Chiesa c'è
attenzione al mondo del lavoro, il problema è che il messaggio rimane a un
certo livello. Alla settimana sociale di Cagliari si sono dette cose molto
interessanti, si sono fatte anche analisi nuove rispetto alla situazione però
rischiano di rimanere strumenti per addetti. Qualche ragionamento nelle
pastorali sociali, ma nell'incarnazione della realtà ecclesiale non si trova.
Non ho mai sentito un prete che nella sua omelia parlasse di quello che è
uscito a Cagliari. C'è una dicotomia tra un'impostazione che è buona e ciò che
arriva tra la gente. Anche se a volte c'è qualche prete che sembra volersi
sostituire ai sindacalisti, nella pastorale ordinaria di lavoro si parla poco.
Se tutti i preti la domenica parlassero di quello che è stato detto a Cagliari
avremmo la trasmissione di un messaggio fortissimo.
La società è cambiata radicalmente, è cambiata in
profondità. Quand'ero giovane il lavoro era la fabbrica, l'industria, oggi non
so cosa sia il lavoro. Senza unità sindacale oggi si è destinati a morire.
Inoltre è avvenuta una rottura antropologica nella nostra società. Quelli che
noi continuiamo a predicare come valori sono diventati elementi estranei, non
più incarnati nella gente e io credo che sia difficile per la Chiesa far
arrivare il proprio insegnamento. L'individualismo diffuso nella società si è
trasferito anche all'aspetto religioso. Servirebbe anche cambiare la formazione
del clero che rischia di ritrovarsi chiuso dentro una sorta di oligarchia
autoreferenziale, anche se non mancano ovviamente esempi differenti.