sabato 27 giugno 2020

GIUSEPPE GALLI - Fulpia, Cisl - Cremona

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

Sono nato a Cremona il 18 novembre 1934. Ho frequentato la scuola fino alla terza media e dopo un po' di tempo ho iniziato a lavorare in fabbrica. La mia era una famiglia contadina che poi si è trasformata in operaia, perché mio padre a un certo punto si è trasferito a Cremona andando a lavorare in un'azienda di cornici. Era una famiglia molto religiosa. Io sono il tredicesimo e ultimo dei figli, sei maschi e sette femmine. Sono praticamente cresciuto in oratorio con il parroco, don Amigoni, che mi ha formato in tutti i sensi. 

Ho iniziato a lavorare a quindici anni e mezzo alla Cavalli e Poli dove lavorava mio padre che si è attivato per farmi assumere. In quel momento era l'azienda più grande di Cremona e occupava oltre cinquecento addetti e gran parte della produzione veniva esportata all'estero. Il mio primo lavoro era quello di pulire con una sorta di spugna le aste in legno che poi venivano dorate da operai specializzati. Ho fatto quel lavoro fino al 1955, ‘56 quando sono stato chiamato dalla Cisl a uscire dalla fabbrica per gestire il movimento giovanile del sindacato.
Mio padre era un vecchio socialista, iscritto alla Cgil. Durante il fascismo ha subito delle violenze pesantissime quando abitava a Casalbutano. Nel 1929, una domenica mattina, gli hanno somministrato l'olio di ricino perché era conosciuto e impegnato a favore dei contadini. E’ stato una vicenda bruttissima che lo ha costretto a trasferirsi a Cremona perché lì non riusciva più a lavorare. Gli agrari di Cremona erano tutti legati a Farinacci ed erano dei reazionari spaventosi. Quando sono entrato in fabbrica avevo già una coscienza sociale perché ascoltavo mio padre discutere con mia madre che lo contestava dicendogli di lasciar perdere la politica perché lei aveva il problema di far crescere i figli. La mattina in cui all'osteria “La granda” gli avevano fatto bere l'olio di ricino e l'avevano picchiato, quando è tornato a casa mia madre gli ha detto che era un disgraziato, che voleva far morire i suoi figli per le proprie idee. Lui per reazione l’ha spinta nel naviglio e quasi annegava, ma lui non si è tuffato per andare a prenderla e per salvarla ha dovuto tuffarsi un vicino.
In fabbrica ho conosciuto due rappresentanti della Cisl, Aldo Nolli e Triacchini, che erano democristiani ancor prima che cislini, ma due persone integerrime. La mia scelta per la Cisl era dettata in particolare dalla formazione che avevo avuto in oratorio e dalla spinta del sacerdote che mi aveva guidato, per la difesa dei valori del cristianesimo e contro il pericolo comunista. Mio padre aveva avuto degli scontri di tipo ideologico in fabbrica con i suoi compagni comunisti e non ha fatto obiezioni e, anzi, qualche tempo dopo anche lui si è iscritto alla Cisl. Il mio primo impegno era quello di cercare di fare nuovi iscritti e io avvicinavo i più giovani e le donne, cercando di convincerli che noi, pur difendendo l'interesse dei lavoratori, avevamo come obiettivo centrale la difesa della dignità della persona, la possibilità di sentirsi persone rispettate e non essere succubi dell'azienda. Un’azione che ha avuto successo, perché nel giro di qualche anno nelle elezioni delle commissioni interne abbiamo conquistato la maggioranza, con grande rabbia dei comunisti.
Lasciata la fabbrica il mio primo compito fu quello di stabilire un rapporto con le realtà industriali per costruire il gruppo dei giovani. Ho iniziato organizzando iniziative culturali e ricreative, le prime gite sul Po, che sembrava di andare chissà dove, eppure c'erano tanti ragazzi e anche ragazze che partecipavano. Si cercava di aggregare e di far nascere nelle fabbriche il gruppo che poi doveva attivarsi per l'attività sindacale. Durante questo periodo ho frequentato il corso lungo alla scuola Cisl di Firenze. Ho svolto questa attività fino al 1960, fino a quando Mirco Rizzini, che allora era il segretario generale della Cisl di Cremona, mi mandò a fare il segretario di zona a Casalmaggiore. Ha caricato una branda sull'unica macchina della Cisl e mi ha portato a Casalmaggiore dicendomi che avrei dovuto mettere la branda in ufficio, che dovevo aprire la sera e chiudere al mattino. Sono rimasto lì per quattro anni fino al 1964. Dopo di che mi hanno spostato a fare il segretario di zona a Soresina.
La zona di Casalmaggiore era una realtà agricola, non c'erano insediamenti industriali significativi e gli agrari erano ancora reazionari. L'11 novembre, quando si facevano i conti per la chiusura dell'annata, dovevo fare tantissime vertenze, perché allora i salariati durante l'anno prendevano degli acconti ogni quindici o trenta giorni, che segnavano su un libretto, anche per i generi in natura. Quando a fine stagione si presentavano al datore di lavoro spesso erano liti e si dovevano fare le vertenze, ma fare vertenza voleva dire che l'anno successivo il bracciante non avrebbe lavorato in quell'azienda e quindi doveva salire su un carro con un po' di masserizie, la moglie e i figli e andarsene da un'altra parte. Era il San Martino dei contadini.
Non avevo l'automobile e la Cisl mi ha dato un Guzzino. Andavo via da casa il lunedì mattina presto e tornavo la domenica pomeriggio, perché la domenica mattina si faceva il recapito a Rivarolo del re. Era un territorio molto vasto che distava ben 40 km da Cremona.
A Soresina c'era una cultura più industriale e gli agrari, che erano normalmente grandi proprietari terrieri, erano meno duri, meno reazionari, anche perché i contadini potevano trovare lavoro nelle fabbriche. A Soresina, infatti, oltre alla Latteria c'erano anche aziende metalmeccaniche come la Zini e la Ponzini e a Soresina nasceva la nostra politica contrattuale e abbiamo potuto sviluppare le nostre proposte attraverso le piattaforme aziendali. Lì ci sono rimasto per otto anni, fino agli anni Settanta, dopo di che sono stato chiamato a fare il segretario generale della Fulpia, la categoria degli alimentaristi. Dal 1985 al 1988 ho fatto parte della segreteria della Ust insieme a Secondo Piazza e Cominacini, poi nel 1988 sono passato a gestire il Consorzio casa che abbiamo costruito come Cisl, sono diventato presidente del consorzio Giulio Pastore e siamo riusciti a realizzare molte abitazioni per i lavoratori.
Ulteriore fase del mio impegno è stata la segreteria dei pensionati di Cremona a partire dal 1994, poi nel Duemila sono passato alla segreteria regionale della Fnp dove sono rimasto fino al 2005 e dal 2005 al 2013 ho fatto il consigliere dell'Inps a Cremona.

L'aspetto prioritario nella contrattazione degli anni Sessanta era il salario, perché i salari erano bassi, si cominciava allora a fare i primi contratti integrativi, anche se noi puntavamo molto sulla dignità del lavoratore, sul diritto al lavoro, sul fatto di essere riconosciuti come persone rispettate, perché le tutele erano decisamente limitate.

Sul finire degli anni Sessanta c'è stata una crescita della partecipazione dei lavoratori, anche perché contemporaneamente c'è stata una crescita dal punto di vista culturale e gli operai avevano acquisito il concetto dell'autotutela, cioè dello stare insieme nel sindacato. Quando si costruivano le piattaforme si vedeva la partecipazione, non c'era niente da inventare, erano i lavoratori che mi dicevano su quali temi dovevamo orientarci, questo anche grazie al cambiamento che stava avvenendo fuori dalla fabbrica nella società. Gli scioperi e le manifestazioni sui temi più generali come la casa, le pensioni, le riforme hanno sempre visto una buona partecipazione anche se questi temi erano meno sentiti rispetto a quelli aziendali e ai contratti nazionali di lavoro. Si andava in piazza con entusiasmo per cercare di coinvolgere sempre più gente possibile.

Il passaggio dalle commissioni interne ai consigli dei delegati è stato un momento un po' particolare perché inizialmente non era molto condiviso dalla nostra base, perché in commissione interna si ritenevano rispettati dato che rappresentavano l'organizzazione in modo esplicito. Nel consiglio invece la rappresentanza dell'organizzazione si diluiva. Io dicevo loro che avrebbero dovuto affermarsi dentro il consiglio perché l'unità era la forza dell'iniziativa sindacale e si dovevano far emergere le nostre proposte. Più avanti nel tempo l'atteggiamento è cambiato e nelle elezioni i delegati della Cisl c'erano e in alcune realtà, con la rabbia della Cgil, siamo andati in maggioranza.
Alle assemblee introdotte con lo Statuto dei lavoratori c'era un'ottima partecipazione anche se inizialmente quasi nessuno interveniva perché tutti avevano o vergogna o paura. Non sono mai stato emozionato o preoccupato per parlare in pubblico anche se qualche volta subivo qualche contestazione e incitavo i lavoratori a intervenire. C'è stata una crescita talmente veloce che ha fatto superare questo primo momento di incertezza, di dubbi e la gente ha imparato a esprimersi, a dire la propria opinione. C'era anche chi era più orientato verso la parte padronale perché influenzato dal capo reparto o da altri.
L'unica volta che ho avuto una contestazione è stata alla Sorini di Castelleone che aveva quattrocento dipendenti, ad opera di un gruppo politico locale, rappresentato da Giancarlo Corada e da un nipote dei Sorini proprietari dell'azienda, durante uno sciopero per il rinnovo del contratto aziendale. Io stavo parlando al megafono per spiegare ai lavoratori le ragioni dello sciopero e la posizione dell'azienda quando è arrivato questo gruppo di facinorosi a dire che stavo dicendo delle cose stupide, perché noi non dovevamo rivendicare il miglioramento del premio di produzione ma la gestione della fabbrica.
Nel territorio non c’era una presenza significativa di gruppi politici extraparlamentari. A Cremona non si sono mai registrati fenomeni di terrorismo brigatista.

Di fronte alla grande crescita del movimento dei lavoratori e dell'organizzazione sindacale gli imprenditori del settore alimentare hanno mostrato disponibilità al confronto perché non abbiamo mai anteposto, soprattutto io ma anche i colleghi della Cgil, la lotta rispetto al merito delle questioni e ai risultati finali delle vertenze. Anche l'associazione industriali ha sempre avuto rispetto nei nostri confronti perché la nostra era una posizione di disponibilità a ragionare. Ricordo Pietro Negroni, diventato presidente dell'associazione imprenditoriale nazionale, che a volte mi telefonava anche separatamente e una volta venne a casa mia insieme a Eraldo Crea per stendere una bozza dell'accordo per il rinnovo del contratto nazionale della categoria. Probabilmente, proprio per questa disponibilità al confronto, il nostro ragionamento, salvo qualche eccezione, non ha mai trovato un'ostilità preconcetta.

Ero favorevole all'unità sindacale, lo sono sempre stato anche se chiedevo alcuni chiarimenti al nostro interno per capire che cosa significava l'unità del movimento. Ero favorevole soprattutto per un principio: senza l'unità non si va da nessuna parte. Io ragionavo così: se abbiamo fatto un accordo insieme che consideriamo positivo è perché la pensiamo allo stesso modo, che cosa ci impedisce di fare l'unità se la pensiamo allo stesso modo? Però poi le logiche erano di altra natura, allora la Cgil veniva frenata dall'esterno dal Partito comunista, magari bisognava scioperare per ragioni politiche mentre noi dicevamo che si sciopera con motivazioni precise nell'interesse di chi rappresentiamo, cioè dei lavoratori. I rapporti con i colleghi sindacalisti della Cgil erano improntati su un piano di amicizia e questo mi ha aiutato, perché lo scontro ideologico non c'è mai stato. Io il percorso unitario l'ho fatto, anche con una certa soddisfazione sul piano personale, perché a Cremona ha dato dei risultati sia con il superamento delle commissioni interne, seppure con la dovuta gradualità, sia con la contrattazione. Oggi la divisione sindacale non porta ad alcun risultato a difesa dei lavoratori.
La fine del progetto di costruzione dell'unità organica e il passaggio alla federazione l'ho vissuta un po' come una sconfitta perché pensavo che il processo arrivasse a una conclusione definitiva per l'unità. Non mi sono mai illuso, però pensavo che politicamente le condizioni maturassero, che la Cgil diventasse sempre più autonoma dal Partito comunista dal punto di vista culturale e politico e quindi capisse meglio che l'unità sindacale era utile per l'intero movimento dei lavoratori. Invece, purtroppo, quando sembrava che si potesse arrivare alle conclusioni c'è stato il no del Pci e tutto si è fermato.

Ero favorevolissimo all'incompatibilità, chi faceva la scelta sindacale doveva fare solo quello, questa è sempre stata la mia convinzione. Sindacato e forze politiche avevano ruoli diversi che dovevano rimanere separati. Quando c'erano delle vertenze chiedevo al segretario della Dc di Cremona di ascoltare i nostri problemi, perché si facessero carico anche loro delle situazioni difficili, ma nella reciproca autonomia. Sono sempre stato iscritto alla Democrazia cristiana e prima di impegnarmi nel sindacato sono stato un attivista della Dc, ma ho sempre cercato di mantenere un atteggiamento autonomo e distinto dalla politica. In casa Cisl su questo tema a Cremona non ci sono state grandi discussioni e anche la stessa Fisba non era su posizioni contrarie così radicali.

Quando in occasione del congresso del 1973 si contrapposero le tesi di Scalia e Storti io ero un po' titubante, mi sembrava che le tesi di Scalia mi convincessero maggiormente, poi però, riflettendo bene, ho capito che non erano posizioni che potevo condividere per cui alla fine mi sono schierato con Storti e Carniti. I miei dubbi nascevano al fatto che mi sembrava che la proposta carnitiana mi portasse ideologicamente fuori dalla mia cultura, che mi portasse a sinistra. Sbagliavo.

Non ho mai condiviso la cultura dell'egualitarismo perché ho sempre considerato la diversità dei valori. Le nostre richieste nelle vertenze sindacali però erano sempre di aumenti uguali per tutti, così come l'organizzazione in quel momento aveva deciso. Un conto sono le opinioni personali e un conto le scelte dell'organizzazione e anche il rispetto degli iscritti all'organizzazione. Ho però sempre lottato per evitare che ci fosse una dicotomia tra la prestazione maschile e quella femminile, in questo senso sostenevo la battaglia egualitaria perché il lavoro degli uomini e delle donne avesse la stessa dignità. Questa tematica però non è mai stata molto accentuata qui da noi e nelle fabbriche la parità di salario a parità di lavoro era già stata conquistata. Occorre tenere presente che nel territorio di Cremona questi temi erano stati anticipati da Guido Miglioli già nei primi anni del novecento e più avanti abbiamo avuto don Mazzolari che ha continuato molte delle battaglie per la difesa dei contadini e della dignità del lavoro.

Governi di unità nazionale. Io ritenevo che il sindacato di fronte a questi cambiamenti politici mantenesse la propria linea di rappresentanza e di difesa del movimento operaio senza farsi influenzare dalle scelte politiche. Secondo me il sindacato in quel momento si esprimeva nei confronti del governo cercando di interpretare due ruoli: quello strettamente sindacale e quello politico, perché rischiavamo di essere espropriati del nostro ruolo dalla politica. Sembrava che quell'alleanza politica dovesse dare le risposte ai nostri associati. Pertanto il mio ruolo era quello di mantenere la nostra autonomia, che andasse sempre nella direzione della tutela e della rappresentanza dei lavoratori. In quel momento la Cgil sembrava essere quello che ero io negli anni Cinquanta, allora cercavo di scavalcarli perché mi sembrava che in mancanza di autonomia si appiattissero sul governo. Se il Pci è al governo noi dobbiamo stare tranquilli e calmi, questo era il pensiero della Cgil, per me invece no. Non semplicemente perché credevo nell'autonomia, ma contro la Cgil.

Con l'impegno sindacale mi sono realizzato anche dal punto di vista culturale. Gestire una categoria rispetto ad un'altra è un fatto rilevante, perché si arricchisce la propria esperienza confrontandosi con gli altri e per me le varie fasi zonali, di categoria, orizzontali hanno contribuito a questo arricchimento in modo notevole. Io mi sento sindacalista ancora oggi e per quello che posso cerco ancora di trasmettere il nostro messaggio. È stata una bella esperienza di vita, ci sono stati dei momenti duri, difficili, a volte anche con incomprensioni che si sono superate cercando di fare del proprio meglio e dando le risposte a chi le cercava. Perché in me questa voglia di difendere la gente, di rappresentare i lavoratori, era un po' innata e da questo punto di vista è stata una grande soddisfazione.

I valori e le scelte di fondo della Cisl hanno inciso nel movimento sindacale soprattutto nella prima fase, perché c'era una forte contrapposizione ideologica e le scelte che faceva la Cisl, quando si differenziava dalla Cgil, riflettevano una precisa idea della persona. Quelle richieste erano inserite in un contesto di diritti che esprimevano il modello di società nella quale si intendeva vivere, si sviluppava il proprio ruolo legandolo ai valori fondamentali in cui credevamo: il principio della libertà individuale, della dignità della persona, eccetera.
Oggi purtroppo di quelle scelte, di quei valori, non è rimasto niente. Sono molto dispiaciuto perché stiamo subendo il degrado della politica anche come organizzazione. Perché non abbiamo mobilitato le persone contro le scelte che i governi hanno fatto in questi ultimi anni? Subiamo la politica. Noi dovremmo essere quello che siamo sempre stati, autonomi, e svolgere il nostro ruolo.