Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto”, di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Jaca Book, Milano, 2019
Nato a Soresina,
provincia di Cremona, il 30.6.1954, vive a Treviglio. Arrivato alle Acli di
Milano come obiettore di coscienza, ne è diventato presidente provinciale e
quindi presidente regionale lombardo.
In casa eravamo cinque fratelli con qualche problema a sbarcare il lunario perché il papà era sempre ammalato. La mamma è profondamente religiosa. Ho frequentato l'oratorio con impegno e a un certo punto, senza nessuna sollecitazione, ho fatto la scelta di entrare in seminario che ho lasciato dopo il primo anno di teologia. Nel frattempo i miei si erano trasferiti a Milano e quando, dopo il seminario, sono arrivato in città non conoscevo assolutamente nessuno e mi sono trovato solo. Mi sono inserito in un oratorio e fortunatamente ho trovato alcuni sacerdoti come don Raffaello Fiora e don Franco Cecchin che mi hanno accompagnato.
Don Raffaello mi ha portato alle Acli, avevo già una
sensibilità sociale che si era sviluppata in seminario dove si sentiva
l'influenza del Concilio. Tra i docenti avevo delle figure importanti, come don
Carlo Bellò, che mi hanno fatto crescere molto. Altre persone rilevanti con cui
sono venuto a contatto sono state, nel territorio di Cremona, il presidente
delle Acli Enrico Anelli e il responsabile della pastorale del lavoro don Mario
Barbieri, che svolgevano la loro azione in un ambiente che aveva vissuto
l'esperienza delle grandi battaglie di Guido Miglioli, fondatore delle Leghe
bianche. Era una realtà forte dove i teme del lavoro e della giustizia sociale
erano fondanti.
Più avanti ho condiviso l'esperienza della Rosa
bianca con Paolo Giuntella e a Bologna in una riunione ho conosciuto anche
Giuseppe Dossetti. Ho partecipato a incontri della Lega democratica dove
c'erano Ermanno Gorrieri e Achille Ardigò. La mia fortuna è stata quella di
poter vivere questi mondi e di incontrare persone di grande valore.
Ho fatto esperienza di insegnamento di italiano,
storia e geografia in una media di Garbagnate Milanese, una scuola difficile
dove il preside mi diceva che l'importante era che io riuscissi a tenere
tranquilli i ragazzi più che insegnare le mie materie. Poi il mio percorso si è
tutto compiuto alle Acli, dove sono stato presidente provinciale milanese dal
1996 al 2004 e presidente regionale lombardo dal 2006 al 2014.
Mentre ero in Acli i primi tempi partecipavo sempre
al gruppo giovanile della parrocchia di San Simpliciano e prendevo parte alle
attività dell'Azione cattolica. Ancora oggi ci ritroviamo. In quegli anni ho
conosciuto anche il gruppo di don Aldo Ellena costruito intorno alla rivista Animazione sociale.
Le parrocchie oggi fanno fatica ad aprirsi alle
tematiche sociali e non solo. Ho imparato che la santità è di tutti ed è un
percorso che ognuno fa non attraverso una scelta personale intimistica ma
confrontandosi con gli altri. Ho la sensazione che questo modello, che è quello
dei piccoli gruppi, della lettura della parola insieme, della capacità di
costruire forme di partecipazione dove si dà molto spazio alla condivisione e
poi si lascia grande libertà a ognuno di cercare i propri percorsi, non sia il
modello delle parrocchie attuali che anzi tendono a rinchiudersi. La Chiesa
prossima alla comunità, alle famiglie in questa fase viene meno anche perché
manca una pastorale che sappia contestualizzare il tempo presente. Questo vale
anche per il tema del lavoro, non c'è sufficiente capacità di capire e leggere
le trasformazioni.
Dover ripartire dopo che c'è stata una fase in cui
si è puntato a costruire delle forme di difesa e di garanzia per la Chiesa,
probabilmente ha portato a un tipo di parrocchia che è difficilissimo superare.
Nelle nostre comunità sono quasi tutti anziani che ripetono, molte volte anche
pedissequamente, quello che facevano loro un tempo e questo ha portato a una
rarefazione della comunità con l'abbandono dei giovani. Sono però convinto che
se si avviasse un percorso di formazione su temi e fenomeni nuovi, con
sacerdoti appositamente incaricati, si potrebbe cambiare e che questo sia
certamente più importante che continuare a difendere spazi e beni che sono in
eccesso e spesso vuoti.
Un tema cruciale è quello della formazione dei
sacerdoti, ci sono delle persone estremamente in gamba, ma occorrono delle
scelte pastorali per rilanciare la questione sociale con maggiore
determinazione, che poi non è semplicemente la questione sociale è la questione
del Vangelo.
Il grande impegno diffuso della Caritas e dei suoi moltissimi
collaboratori laici è un po' una foglia di fico, perché un conto è una
provvidenziale struttura di servizi, ma un’altra cosa è il coinvolgimento della
comunità parrocchiale nella crescita di una coscienza autenticamente
evangelica.
E’ un po' una deriva del momento, mentre prima c'era
molto investimento sulla formazione ora stiamo parlando solo dei servizi:
quanti pasti, quanti refettori, quanti abiti. Va bene, però forse abbiamo perso
la dimensione evangelica. Occorre sottolineare che anche la pastorale del
lavoro, prima della Caritas, ha avuto lo stesso problema.
Io mi sono innamorato della pastorale del lavoro di
don Raffaello Ciccone e Lorenzo Cantù. Don Raffaello faceva il tecnico e Cantù
faceva l'animatore spirituale a ruoli invertiti, giocavano su questo. In quel
momento avevo una posizione di grande responsabilità nelle Acli e per me la
pastorale del lavoro era ciò che facevamo noi. Acli, sindacato, pastorale del
lavoro: ci sentivamo accomunati in una comune missione nella quale ognuno
operava sul suo terreno. Il tema della giornata della solidarietà lanciata dal cardinal Martini era legato alla realtà
condivisa che si viveva in quel momento. Anche negli anni successivi, quando
sono iniziati i grandi processi di deindustrializzazione, insieme abbiamo
iniziato a parlare di lavoro sociale, di cooperazione di produzione lavoro e ci
siamo accorti che c'era in atto un profondo cambiamento anche tra i lavoratori.
Oggi la sensazione è che, con la situazione di
frammentazione che abbiamo, ognuno si muova per conto proprio, tenendo in piedi
la propria bandierina e non ci sia più la grande fatica di cercare di agire
insieme. Manca la volontà di costruire una strategia condivisa e ci vorrebbe un
po' più di umiltà e di coraggio, non abbiamo fiducia in noi stessi e quindi non
crediamo negli altri.
Io credo che nella Chiesa italiana, escludendo papa
Francesco, in questo momento ci sia una mancanza di leadership rispetto alle
riflessioni sui temi del cambiamento e sui processi in corso. In un contesto in
cui i preti sono chiamati a fare gli amministratori c'è la tendenza a ripetere
delle parole, ma non c'è la passione per costruire percorsi di senso e approntare
strumenti che possano affrontare il presente. Questa la ragione per cui il Papa
è così distante. Si sentono omelie che ripetono i suoi discorsi, ma manca chi
li traduce nella contemporaneità. Anche con occhi critici, che portano un po'
di scandalo. I preti, invece, hanno intorno molte volte persone che danno la
sicurezza di un governo o di una gestione, ma che non hanno la passione di
leggere questo tempo della storia.