Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Sono nato a Milano il 4.10.1940, diplomato perito
industriale meccanico. La mia famiglia era emigrata dal Friuli, mio padre era
operaio e mia madre custode in un palazzo, entrambi di formazione religiosa e
praticanti.
Immediatamente dopo il diploma avrò ricevuto almeno
una trentina di offerte di lavoro e ho scelto la Sit Siemens che poi divenne
Italtel. Mi occupavo di tempi e metodi in un ufficio con una quarantina di
persone, metà occupati sui tempi e l'altra metà sui metodi. Erano anni molto
caldi dal punto di vista sociale, in particolare a Milano ci fu la grande
vertenza degli elettromeccanici nel 1960, ‘61 e ricordo di essere andato ad un
comizio, probabilmente il primo unitario fatto al Vigorelli. Ho partecipato
agli scioperi, alla fine della vertenza si è ottenuto qualcosa, io però sono
stato trasferito in un posto isolato dove non potevo parlare con nessuno. Dopo
di che mi hanno offerto la possibilità di lasciare l'azienda e andare a lavorare
al sindacato cosa che ho accettato. Era il 1963. Probabilmente ero stato
individuato durante la vertenza.
La scelta della Cisl. Il comunismo non mi aveva mai
attirato e del mondo cattolico sentivo parlare poco, però mi ritrovai
naturalmente da quella parte, probabilmente c'era dietro la storia della mia
famiglia che è stata la molla che mi ha spinto a impegnarmi per fare qualcosa
per cambiare la situazione, data le difficoltà che molti in Friuli vivevano.
Fui assunto alla Fim nazionale. La sede allora era a
Milano, in via Pancaldo. Lì c'era Luigi Macario che veniva spesso da Roma, poi
c'erano: Giambattista Cavazzuti, che seguiva il settore dell'auto e i rapporti
internazionali, Nino Pagani, Pippo Morelli e, come membri di segreteria, ma non
a tempo pieno, c'erano Pierre Carniti e Franco Castrezzati. Io avevo una
scrivania con un telefono. Siccome quell'anno era stato firmato il rinnovo del
contratto nazionale, che per la prima volta prevedeva il premio di produzione,
io mi occupai di quello. Era il famoso P su H, la formula utilizzata per
calcolare il premio di produzione.
Allora esisteva un Comitato nazionale per la
produttività, ostacolato dalla Cgil e dal Partito comunista, mentre la Cisl si
era dotata di un gruppo di persone per gestire la questione. Ne facevano parte
Pippo Morelli, Morini, Nicola Cacace, Beppe Bianchi e questi scrissero due
libri, uno sulla produttività e l'altro sul cottimo, di cui io corressi le
bozze. Dopo il contratto iniziò la campagna per la sua applicazione nei luoghi
di lavoro, ma i mezzi erano scarsi e le persone poche. Per sostenere la
campagna venne quindi attivato un percorso di formazione e informazione per gli
attivisti. Si facevano dei corsi di tre giorni: venerdì, sabato e domenica
mattina in luoghi residenziali e io feci un sacco di queste tre giorni a
spiegare, discutere e rispondere ai quesiti sulle novità. Dopo di che cominciò
la campagna per l'applicazione concreta attraverso la contrattazione aziendale
e si fecero parecchi accordi e la Fim chiese che una copia degli accordi
venisse sempre mandata alla sede nazionale. Allora c'era un giornale e
all'interno veniva pubblicata una schedina con le caratteristiche degli accordi
e una valutazione sugli stessi. Io facevo quelle cose. Oltre alla formazione e
alla raccolta dei contratti partecipavo alla contrattazione e ho fatto un sacco
di accordi. Perché c'erano situazioni dove la Fim non aveva gli uomini per
gestire la contrattazione, magari non aveva neppure un operatore a tempo pieno.
Quelli che mi utilizzarono di più furono i genovesi, i bresciani, i veneti e i
friulani. Il confronto con le imprese era duro perché noi volevamo contrattare,
c'era stata la ricostruzione e si veniva dal boom economico e la gente
presentava la cambiale. La richiesta era più soldi, ma si cominciava a
discutere anche di altre cose.
In quel periodo mi sono sposato.
Eravamo
nella fase dell'applicazione del processo di verticalizzazione all'interno
della Cisl e la Fim era il primo sostenitore di questa linea. Anche la Fiom
iniziava a staccarsi dalla Cgil, ma il suo atteggiamento era quello di stare un
po' a vedere, ma continuando a puntare sempre sul contratto nazionale. I
padroni, la Confindustria, erano contrari. Nel 1966 ci fu il tentativo di
rivincita proprio sulla contrattazione, non tanto sui soldi o sull'orario, ma
proprio sul diritto alla contrattazione decentrata. Esattamente l'opposto di
quella che è oggi la loro posizione. Comunque alla fine la contrattazione si
fece e se ne fece tanta.
Sono rimasto in Fim nazionale fino alla fine del
1968. In Lombardia c'erano due strutture che non si erano verticalizzate:
Bergamo e Varese, che avevano l'una circa settemila iscritti e l'altra tremila,
che a quei tempi erano numeri significativi, e mi chiesero dove volevo andare.
Io domandai di andare a Bergamo e ovviamente finii a Varese. Si fece un
congresso straordinario dove vinse la nuova linea ed entrai in segreteria
insieme a Ceriani, che aveva quasi il doppio dei miei anni. Essendo rimasti
solo in due, Pippo Morelli mi mandò Pierino Zanisi. Poco a poco costruimmo la
Fim di Varese con persone scelte localmente.
A Varese sono rimasto fino al 1974 e ho vissuto
tutta l'esplosione dell'autunno caldo, il periodo successivo e la delusione
della fine del percorso unitario per il quale mi ero battuto fortemente. Un
giorno qualcuno, che non ricordo, mi disse che dovevo andare in segreteria
nazionale e, me assente, fui eletto segretario nazionale della Fim, che nel
frattempo si era trasferita a Roma. Con me c'era Carniti, Morelli, Alberto Gavioli,
Nino Pagani, Alberto Tridente. Rimasi a Roma fino al congresso successivo del
1977. Mia moglie aveva una posizione di lavoro che non voleva lasciare e così decisi
di tornare a Milano. Siccome allora iniziavano le regionalizzazioni divenni
segretario regionale della Fim della Lombardia. Dopo un po' di tempo venni
cooptato nella segreteria regionale della Cisl, pur rimanendo ancora alla Fim.
Allora segretario generale della Cisl lombarda era l'avvocato Paolo Sala che
poi venne sostituito da Melino Pillitteri. Nell'81 ho lasciato la Fim e sono
entrato a tempo pieno nella segreteria regionale della Cisl dove sono rimasto
fino al 1987.
Gli anni Sessanta per me e per tutti i giovani erano
anni di grande speranza, la nostra generazione è stata segnata da tre
personaggi: Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov. Era un periodo nel quale
sembrava possibile che le vecchie divisioni venissero superate e il mondo
potesse cambiare. Il Papa parlava degli uomini di buona volontà e anche nel
sindacato coloro che si impegnavano per l'unità sindacale erano uomini di buona
volontà. Forse non c'era molta riflessione sullo strumento dell'unità, ma era
una spinta, un'idea che portava naturalmente verso l'unità, erano i giovani che
lottavano, che scendevano in strada e che non stavano a guardare se c’era più
Fim o più Fiom, più Cgil o più Cisl. Chiedevano un sindacato che facesse il suo
mestiere. La storia stava andando in quella direzione. Noi ci abbiamo creduto,
perché la Fim, insieme a qualche altra categoria dell'industria, fu quella che
più di tutte credette a questo processo, fece tutti i congressi di scioglimento
nel 1972 e fece anche il congresso nazionale, mentre dall'altra parte Bruno Trentin
non riuscì a reggere la spinta del Partito comunista e quindi l’unità si è
arenata. All'inizio, quando si fece il patto federativo, l'idea era che fosse
soltanto una sorta di pausa e poi il processo sarebbe andato avanti. Pensavamo
che se l'unità non si faceva a Roma noi potevamo continuare a costruire il
percorso unitario a livello locale. La delusione ci fu e mentre all'inizio si
era molto più aperti a confrontarsi, discutere, dopo quella pausa cominciammo a
interrogarci su che cosa sarebbe accaduto più avanti, perché c'era la
preoccupazione che l'organizzazione della Cgil fosse molto più forte. Così a
Varese, in maniera molto discreta, cominciammo a ricostruire una rete di punti
di riferimento della Fim e ogni tanto si faceva qualche incontro perché non si
sapeva come sarebbe andata a finire. Anche se intanto si era nella stessa sede
unitaria.
Con la caduta dell'unità ci fu una ripresa del
centralismo romano. Quando l'unità camminava Roma contava poco, al massimo
faceva un po' di coordinamento, quando le segreterie nazionali ripreso in mano
il pallino dell'iniziativa sindacale nei territori lo spazio si ridusse.
Negli anni caldi del ‘68, ‘69, ‘70 ci fu una
maggiore disponibilità dei lavoratori ad un impegno sindacale nei luoghi di
lavoro. Quando si facevano le assemblee c'era gente che voleva parlare,
disponibile ad impegnarsi. Ci fu più partecipazione, più presenza ed era più
facile dire a una persona di staccarsi per uscire a collaborare con il
sindacato.
In occasione del rinnovo del contratto del 1969,
quando si rivendicava il diritto all'assemblea in fabbrica, c'erano aziende che
mi telefonavano, dicevano che avevano saputo che avevamo organizzato
un'assemblea e che non ci avrebbero vietato l'ingresso in fabbrica, anche se
ancora quel diritto non era stato conquistato. Qualcuno addirittura mi telefonava
per dirmi che mi aveva fatto preparare la mensa. Le imprese sapevano che sarebbe
arrivata presto la legge, una legge che ha sancito le conquiste fatte sul
campo. La prima grande assemblea a cui ho partecipato non è stata in fabbrica. Un
giorno i lavoratori dell'Aviomacchi per protesta bloccarono l’azienda e
uscirono tutti fuori, e siccome tra la sede della fabbrica e la Cisl non c'era
molta strada, fecero un corteo fin sotto le nostre finestre. Non perché ce
l'avessero con il sindacato, volevano discutere. Erano tre, quattrocento
persone. Lì vicino c'era un istituto delle suore che ci ospitarono. Credo sia
quella la prima volta in cui ho parlato di fronte a una assemblea numerosa. Non
ero emozionato, non è mai stato un problema, semmai è importante pensare a che
cosa dici in modo da non ripetere cose già dette.
Nella zona di Varese c'era la presenza di fascisti
organizzati che si facevano sentire e che crearono anche problemi di ordine
pubblico. Il rischio arrivava da lì, a sinistra c’erano dei simpatizzanti del Gruppo
Gramsci cui aderirono anche alcuni fimmini, ma nelle fabbriche non crearono mai
problemi. Ogni tanto distribuivano qualche volantino ma niente di più.
Nel 1970 venne proclamato un mese di mobilitazione
sui temi delle riforme e all'inizio la partecipazione fu piuttosto buona, poi
andò scemando perché avevamo come interlocutore il governo e con il governo portare
a casa dei risultati era assai difficile perché le decisioni non arrivavano mai
in tempi rapidi. Era un’azione necessaria. Avevamo ristabilito un certo
equilibrio nelle fabbriche, dando più dignità alle persone, dando la
possibilità di non essere più trattati come zerbini, ma questo non era vero
fuori dalla fabbrica. Per i tantissimi immigrati arrivati dal sud non c'erano
le case, le scuole facevano i doppi e tripli turni. Su questi temi abbiamo
ottenuto alcune cose, ma alla fine siamo stati sconfitti e secondo me fu colpa
della classe politica italiana che non capiva ciò che stava accadendo. C'era l'occasione
storica di fare un grande patto con tutte le forze del lavoro e delle imprese,
ma la politica, sia di maggioranza che di opposizione, per i propri limiti, non
comprese il valore di quell'opportunità.
Nei primi anni Settanta nella contrattazione si
inseriscono nuovi temi fra cui le 150 ore, l'1% del monte salari da utilizzare
per gli asili nido e le mense aziendali. Altro tema che si stava affermando era
quello dell'ambiente di lavoro e della sicurezza. Nel contratto del 1973 si
pose anche il tema dell'informazione sulle prospettive dell'impresa. Questa
conquista creò parecchi problemi perché c'erano imprese che non dicevano nulla
e poi non c'erano esperienze precedenti. In fabbrica sui temi più generali era
importante avere dei quadri preparati, sindacalizzati, che sapessero
trasmettere questi contenuti ai lavoratori, se invece si avevano delegati non
formati a volte aveva addirittura poco senso andare a parlare di questioni non
aziendali.
Sui temi interni alle vicende della Cisl ricordo che
il sentimento presente tra i metalmeccanici era che noi eravamo prima Fim e poi
Cisl. Nonostante questo, le vicende del 1973, che portarono a un rischio di
scissione della Cisl, furono vissute con una certa preoccupazione, anche perché
noi pensavamo che fermando Scalia sarebbe potuto ripartire il progetto
unitario. In effetti Scalia venne fermato, ma il progetto unitario non ripartì
più. A livello locale le nostre scelte erano totalmente condivise e non ci fu
problema di sorta perché tutte le categorie e anche la Cisl di Varese avevano fatto
il congresso di scioglimento.
Nel 1973 ci fu la prima crisi petrolifera che fu uno
shock, con le domeniche a piedi, la televisione che si spegneva prima e un
percorso di crescita che improvvisamente sembrava fermarsi. Carniti fece una
relazione per spiegarci cosa significava la crisi petrolifera, che ci poneva in
una prospettiva totalmente diversa. All'inizio della mia esperienza il mondo
ero io e la mia provincia, già andare a Roma era un fatto epocale e tutta la
famiglia ne discuteva, con il ‘69 e nei primi anni successivi la scala dei
problemi divenne l'Italia, dopo la crisi del petrolio i problemi erano di
dimensione europea, mondiale. Questo passaggio non fu facile e quando i
consigli di fabbrica cominciarono a rendersi conto che non potevano più fare
tutto ciò che ritenevano giusto, perché dovevano cominciare a tener conto della
situazione generale, che non era più solo l'Italia ma l'Europa e il mondo, in
diversi casi entrarono in crisi. Il mondo del lavoro cominciava a capire che
occorreva tenere conto di nuove condizioni. In quel momento c'era lo Sme e con
queste cose si doveva fare i conti. Era l'inizio di un percorso di
ripensamento, di una riflessione che attraversa anche l'esperienza dei governi
di unità nazionale e che poi esplose con la proposta Tarantelli sulla
contingenza. Pian piano il sindacato si ritirava da alcuni ambiti mentre la
politica riprendeva il sopravvento.
C'erano fabbriche, in particolare quelle
elettromeccaniche, dove le donne erano in grande maggioranza, ma pochissime
partecipavano come delegate e nemmeno c'erano donne coinvolte nelle iniziative
femministe. La prima volta che incontrai un gruppo di donne della Flm che
volevano impegnarsi più direttamente queste chiesero a me che cosa dovevano
fare. I processi sono sempre lunghi, certamente il referendum sul divorzio del
1974 aprì una riflessione importante nel paese sul ruolo delle donne, ma poco
nelle fabbriche.
Egualitarismo. Allora la differenza tra la paga dell'operaio
e quella dell'amministratore sarà stata di uno a dieci, oggi siamo uno a quattrocento.
C'è un egualitarismo dal punto di vista dei diritti e della dignità delle
persone e un egualitarismo dal punto di vista salariale. Sul piano salariale
c'erano delle ragioni molto precise: con il costo della vita che cresceva non
si capiva perché tra un lavoratore e l'altro dovessero esserci aumenti diversi.
Allora le paghe erano molto frammentate, anche per persone inquadrate allo
stesso livello, e c'era bisogno di razionalizzare queste cose, un processo che
è stato utile anche alle imprese. Poi l'abuso della parola egualitarismo è
stato anche la sua condanna, perché in molti casi venne proposto come un
meccanismo automatico senza più nessun legame con il merito.
L'idea dell'autonomia del sindacato rispetto alla
politica è stato un fatto importante che è diventato patrimonio dell'intero
mondo del lavoro, ma oggi rischia di essere un fatto negativo perché sindacato
e politica praticamente non si parlano più.
Nel mio lavoro di sindacalista l'elemento più
importante era quello di cercare di capire le cose di cui ci si occupava prima
di parlarne. La mia generazione, che ha fatto della Fim l'asse portante della
propria esperienza, voleva sapere, conoscere e quindi studiava per conto
proprio.
Noi generazione degli anni Sessanta siamo stati
sconfitti. Dobbiamo prenderne atto. Ma ci siamo anche divertiti.