sabato 6 giugno 2020

GIANNI BON - Fim nazionale e Varese, Cisl - Lombardia

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

Sono nato a Milano il 4.10.1940, diplomato perito industriale meccanico. La mia famiglia era emigrata dal Friuli, mio padre era operaio e mia madre custode in un palazzo, entrambi di formazione religiosa e praticanti.

Immediatamente dopo il diploma avrò ricevuto almeno una trentina di offerte di lavoro e ho scelto la Sit Siemens che poi divenne Italtel. Mi occupavo di tempi e metodi in un ufficio con una quarantina di persone, metà occupati sui tempi e l'altra metà sui metodi. Erano anni molto caldi dal punto di vista sociale, in particolare a Milano ci fu la grande vertenza degli elettromeccanici nel 1960, ‘61 e ricordo di essere andato ad un comizio, probabilmente il primo unitario fatto al Vigorelli. Ho partecipato agli scioperi, alla fine della vertenza si è ottenuto qualcosa, io però sono stato trasferito in un posto isolato dove non potevo parlare con nessuno. Dopo di che mi hanno offerto la possibilità di lasciare l'azienda e andare a lavorare al sindacato cosa che ho accettato. Era il 1963. Probabilmente ero stato individuato durante la vertenza.

La scelta della Cisl. Il comunismo non mi aveva mai attirato e del mondo cattolico sentivo parlare poco, però mi ritrovai naturalmente da quella parte, probabilmente c'era dietro la storia della mia famiglia che è stata la molla che mi ha spinto a impegnarmi per fare qualcosa per cambiare la situazione, data le difficoltà che molti in Friuli vivevano.

Fui assunto alla Fim nazionale. La sede allora era a Milano, in via Pancaldo. Lì c'era Luigi Macario che veniva spesso da Roma, poi c'erano: Giambattista Cavazzuti, che seguiva il settore dell'auto e i rapporti internazionali, Nino Pagani, Pippo Morelli e, come membri di segreteria, ma non a tempo pieno, c'erano Pierre Carniti e Franco Castrezzati. Io avevo una scrivania con un telefono. Siccome quell'anno era stato firmato il rinnovo del contratto nazionale, che per la prima volta prevedeva il premio di produzione, io mi occupai di quello. Era il famoso P su H, la formula utilizzata per calcolare il premio di produzione.
Allora esisteva un Comitato nazionale per la produttività, ostacolato dalla Cgil e dal Partito comunista, mentre la Cisl si era dotata di un gruppo di persone per gestire la questione. Ne facevano parte Pippo Morelli, Morini, Nicola Cacace, Beppe Bianchi e questi scrissero due libri, uno sulla produttività e l'altro sul cottimo, di cui io corressi le bozze. Dopo il contratto iniziò la campagna per la sua applicazione nei luoghi di lavoro, ma i mezzi erano scarsi e le persone poche. Per sostenere la campagna venne quindi attivato un percorso di formazione e informazione per gli attivisti. Si facevano dei corsi di tre giorni: venerdì, sabato e domenica mattina in luoghi residenziali e io feci un sacco di queste tre giorni a spiegare, discutere e rispondere ai quesiti sulle novità. Dopo di che cominciò la campagna per l'applicazione concreta attraverso la contrattazione aziendale e si fecero parecchi accordi e la Fim chiese che una copia degli accordi venisse sempre mandata alla sede nazionale. Allora c'era un giornale e all'interno veniva pubblicata una schedina con le caratteristiche degli accordi e una valutazione sugli stessi. Io facevo quelle cose. Oltre alla formazione e alla raccolta dei contratti partecipavo alla contrattazione e ho fatto un sacco di accordi. Perché c'erano situazioni dove la Fim non aveva gli uomini per gestire la contrattazione, magari non aveva neppure un operatore a tempo pieno. Quelli che mi utilizzarono di più furono i genovesi, i bresciani, i veneti e i friulani. Il confronto con le imprese era duro perché noi volevamo contrattare, c'era stata la ricostruzione e si veniva dal boom economico e la gente presentava la cambiale. La richiesta era più soldi, ma si cominciava a discutere anche di altre cose.
In quel periodo mi sono sposato. Eravamo nella fase dell'applicazione del processo di verticalizzazione all'interno della Cisl e la Fim era il primo sostenitore di questa linea. Anche la Fiom iniziava a staccarsi dalla Cgil, ma il suo atteggiamento era quello di stare un po' a vedere, ma continuando a puntare sempre sul contratto nazionale. I padroni, la Confindustria, erano contrari. Nel 1966 ci fu il tentativo di rivincita proprio sulla contrattazione, non tanto sui soldi o sull'orario, ma proprio sul diritto alla contrattazione decentrata. Esattamente l'opposto di quella che è oggi la loro posizione. Comunque alla fine la contrattazione si fece e se ne fece tanta.
Sono rimasto in Fim nazionale fino alla fine del 1968. In Lombardia c'erano due strutture che non si erano verticalizzate: Bergamo e Varese, che avevano l'una circa settemila iscritti e l'altra tremila, che a quei tempi erano numeri significativi, e mi chiesero dove volevo andare. Io domandai di andare a Bergamo e ovviamente finii a Varese. Si fece un congresso straordinario dove vinse la nuova linea ed entrai in segreteria insieme a Ceriani, che aveva quasi il doppio dei miei anni. Essendo rimasti solo in due, Pippo Morelli mi mandò Pierino Zanisi. Poco a poco costruimmo la Fim di Varese con persone scelte localmente.
A Varese sono rimasto fino al 1974 e ho vissuto tutta l'esplosione dell'autunno caldo, il periodo successivo e la delusione della fine del percorso unitario per il quale mi ero battuto fortemente. Un giorno qualcuno, che non ricordo, mi disse che dovevo andare in segreteria nazionale e, me assente, fui eletto segretario nazionale della Fim, che nel frattempo si era trasferita a Roma. Con me c'era Carniti, Morelli, Alberto Gavioli, Nino Pagani, Alberto Tridente. Rimasi a Roma fino al congresso successivo del 1977. Mia moglie aveva una posizione di lavoro che non voleva lasciare e così decisi di tornare a Milano. Siccome allora iniziavano le regionalizzazioni divenni segretario regionale della Fim della Lombardia. Dopo un po' di tempo venni cooptato nella segreteria regionale della Cisl, pur rimanendo ancora alla Fim. Allora segretario generale della Cisl lombarda era l'avvocato Paolo Sala che poi venne sostituito da Melino Pillitteri. Nell'81 ho lasciato la Fim e sono entrato a tempo pieno nella segreteria regionale della Cisl dove sono rimasto fino al 1987.

Gli anni Sessanta per me e per tutti i giovani erano anni di grande speranza, la nostra generazione è stata segnata da tre personaggi: Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov. Era un periodo nel quale sembrava possibile che le vecchie divisioni venissero superate e il mondo potesse cambiare. Il Papa parlava degli uomini di buona volontà e anche nel sindacato coloro che si impegnavano per l'unità sindacale erano uomini di buona volontà. Forse non c'era molta riflessione sullo strumento dell'unità, ma era una spinta, un'idea che portava naturalmente verso l'unità, erano i giovani che lottavano, che scendevano in strada e che non stavano a guardare se c’era più Fim o più Fiom, più Cgil o più Cisl. Chiedevano un sindacato che facesse il suo mestiere. La storia stava andando in quella direzione. Noi ci abbiamo creduto, perché la Fim, insieme a qualche altra categoria dell'industria, fu quella che più di tutte credette a questo processo, fece tutti i congressi di scioglimento nel 1972 e fece anche il congresso nazionale, mentre dall'altra parte Bruno Trentin non riuscì a reggere la spinta del Partito comunista e quindi l’unità si è arenata. All'inizio, quando si fece il patto federativo, l'idea era che fosse soltanto una sorta di pausa e poi il processo sarebbe andato avanti. Pensavamo che se l'unità non si faceva a Roma noi potevamo continuare a costruire il percorso unitario a livello locale. La delusione ci fu e mentre all'inizio si era molto più aperti a confrontarsi, discutere, dopo quella pausa cominciammo a interrogarci su che cosa sarebbe accaduto più avanti, perché c'era la preoccupazione che l'organizzazione della Cgil fosse molto più forte. Così a Varese, in maniera molto discreta, cominciammo a ricostruire una rete di punti di riferimento della Fim e ogni tanto si faceva qualche incontro perché non si sapeva come sarebbe andata a finire. Anche se intanto si era nella stessa sede unitaria.
Con la caduta dell'unità ci fu una ripresa del centralismo romano. Quando l'unità camminava Roma contava poco, al massimo faceva un po' di coordinamento, quando le segreterie nazionali ripreso in mano il pallino dell'iniziativa sindacale nei territori lo spazio si ridusse.

Negli anni caldi del ‘68, ‘69, ‘70 ci fu una maggiore disponibilità dei lavoratori ad un impegno sindacale nei luoghi di lavoro. Quando si facevano le assemblee c'era gente che voleva parlare, disponibile ad impegnarsi. Ci fu più partecipazione, più presenza ed era più facile dire a una persona di staccarsi per uscire a collaborare con il sindacato.
In occasione del rinnovo del contratto del 1969, quando si rivendicava il diritto all'assemblea in fabbrica, c'erano aziende che mi telefonavano, dicevano che avevano saputo che avevamo organizzato un'assemblea e che non ci avrebbero vietato l'ingresso in fabbrica, anche se ancora quel diritto non era stato conquistato. Qualcuno addirittura mi telefonava per dirmi che mi aveva fatto preparare la mensa. Le imprese sapevano che sarebbe arrivata presto la legge, una legge che ha sancito le conquiste fatte sul campo. La prima grande assemblea a cui ho partecipato non è stata in fabbrica. Un giorno i lavoratori dell'Aviomacchi per protesta bloccarono l’azienda e uscirono tutti fuori, e siccome tra la sede della fabbrica e la Cisl non c'era molta strada, fecero un corteo fin sotto le nostre finestre. Non perché ce l'avessero con il sindacato, volevano discutere. Erano tre, quattrocento persone. Lì vicino c'era un istituto delle suore che ci ospitarono. Credo sia quella la prima volta in cui ho parlato di fronte a una assemblea numerosa. Non ero emozionato, non è mai stato un problema, semmai è importante pensare a che cosa dici in modo da non ripetere cose già dette.

Nella zona di Varese c'era la presenza di fascisti organizzati che si facevano sentire e che crearono anche problemi di ordine pubblico. Il rischio arrivava da lì, a sinistra c’erano dei simpatizzanti del Gruppo Gramsci cui aderirono anche alcuni fimmini, ma nelle fabbriche non crearono mai problemi. Ogni tanto distribuivano qualche volantino ma niente di più.

Nel 1970 venne proclamato un mese di mobilitazione sui temi delle riforme e all'inizio la partecipazione fu piuttosto buona, poi andò scemando perché avevamo come interlocutore il governo e con il governo portare a casa dei risultati era assai difficile perché le decisioni non arrivavano mai in tempi rapidi. Era un’azione necessaria. Avevamo ristabilito un certo equilibrio nelle fabbriche, dando più dignità alle persone, dando la possibilità di non essere più trattati come zerbini, ma questo non era vero fuori dalla fabbrica. Per i tantissimi immigrati arrivati dal sud non c'erano le case, le scuole facevano i doppi e tripli turni. Su questi temi abbiamo ottenuto alcune cose, ma alla fine siamo stati sconfitti e secondo me fu colpa della classe politica italiana che non capiva ciò che stava accadendo. C'era l'occasione storica di fare un grande patto con tutte le forze del lavoro e delle imprese, ma la politica, sia di maggioranza che di opposizione, per i propri limiti, non comprese il valore di quell'opportunità.

Nei primi anni Settanta nella contrattazione si inseriscono nuovi temi fra cui le 150 ore, l'1% del monte salari da utilizzare per gli asili nido e le mense aziendali. Altro tema che si stava affermando era quello dell'ambiente di lavoro e della sicurezza. Nel contratto del 1973 si pose anche il tema dell'informazione sulle prospettive dell'impresa. Questa conquista creò parecchi problemi perché c'erano imprese che non dicevano nulla e poi non c'erano esperienze precedenti. In fabbrica sui temi più generali era importante avere dei quadri preparati, sindacalizzati, che sapessero trasmettere questi contenuti ai lavoratori, se invece si avevano delegati non formati a volte aveva addirittura poco senso andare a parlare di questioni non aziendali.

Sui temi interni alle vicende della Cisl ricordo che il sentimento presente tra i metalmeccanici era che noi eravamo prima Fim e poi Cisl. Nonostante questo, le vicende del 1973, che portarono a un rischio di scissione della Cisl, furono vissute con una certa preoccupazione, anche perché noi pensavamo che fermando Scalia sarebbe potuto ripartire il progetto unitario. In effetti Scalia venne fermato, ma il progetto unitario non ripartì più. A livello locale le nostre scelte erano totalmente condivise e non ci fu problema di sorta perché tutte le categorie e anche la Cisl di Varese avevano fatto il congresso di scioglimento.

Nel 1973 ci fu la prima crisi petrolifera che fu uno shock, con le domeniche a piedi, la televisione che si spegneva prima e un percorso di crescita che improvvisamente sembrava fermarsi. Carniti fece una relazione per spiegarci cosa significava la crisi petrolifera, che ci poneva in una prospettiva totalmente diversa. All'inizio della mia esperienza il mondo ero io e la mia provincia, già andare a Roma era un fatto epocale e tutta la famiglia ne discuteva, con il ‘69 e nei primi anni successivi la scala dei problemi divenne l'Italia, dopo la crisi del petrolio i problemi erano di dimensione europea, mondiale. Questo passaggio non fu facile e quando i consigli di fabbrica cominciarono a rendersi conto che non potevano più fare tutto ciò che ritenevano giusto, perché dovevano cominciare a tener conto della situazione generale, che non era più solo l'Italia ma l'Europa e il mondo, in diversi casi entrarono in crisi. Il mondo del lavoro cominciava a capire che occorreva tenere conto di nuove condizioni. In quel momento c'era lo Sme e con queste cose si doveva fare i conti. Era l'inizio di un percorso di ripensamento, di una riflessione che attraversa anche l'esperienza dei governi di unità nazionale e che poi esplose con la proposta Tarantelli sulla contingenza. Pian piano il sindacato si ritirava da alcuni ambiti mentre la politica riprendeva il sopravvento.

C'erano fabbriche, in particolare quelle elettromeccaniche, dove le donne erano in grande maggioranza, ma pochissime partecipavano come delegate e nemmeno c'erano donne coinvolte nelle iniziative femministe. La prima volta che incontrai un gruppo di donne della Flm che volevano impegnarsi più direttamente queste chiesero a me che cosa dovevano fare. I processi sono sempre lunghi, certamente il referendum sul divorzio del 1974 aprì una riflessione importante nel paese sul ruolo delle donne, ma poco nelle fabbriche.

Egualitarismo. Allora la differenza tra la paga dell'operaio e quella dell'amministratore sarà stata di uno a dieci, oggi siamo uno a quattrocento. C'è un egualitarismo dal punto di vista dei diritti e della dignità delle persone e un egualitarismo dal punto di vista salariale. Sul piano salariale c'erano delle ragioni molto precise: con il costo della vita che cresceva non si capiva perché tra un lavoratore e l'altro dovessero esserci aumenti diversi. Allora le paghe erano molto frammentate, anche per persone inquadrate allo stesso livello, e c'era bisogno di razionalizzare queste cose, un processo che è stato utile anche alle imprese. Poi l'abuso della parola egualitarismo è stato anche la sua condanna, perché in molti casi venne proposto come un meccanismo automatico senza più nessun legame con il merito.

L'idea dell'autonomia del sindacato rispetto alla politica è stato un fatto importante che è diventato patrimonio dell'intero mondo del lavoro, ma oggi rischia di essere un fatto negativo perché sindacato e politica praticamente non si parlano più.

Nel mio lavoro di sindacalista l'elemento più importante era quello di cercare di capire le cose di cui ci si occupava prima di parlarne. La mia generazione, che ha fatto della Fim l'asse portante della propria esperienza, voleva sapere, conoscere e quindi studiava per conto proprio.
Noi generazione degli anni Sessanta siamo stati sconfitti. Dobbiamo prenderne atto. Ma ci siamo anche divertiti.