lunedì 18 maggio 2020

RAFFAELE NAVA - Ercole Marelli – Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Sono nato a Cornate d’Adda il 4 giugno 1940 e vivo ancora qui. Ho frequentato in paese le cinque elementari, poi sono andato a Sesto San Giovanni alle scuole della Breda e ho ha fatto i tre anni di avviamento professionale.

Ho iniziato a lavorare il 1° luglio 1955 alla Ercole Marelli. Lo stesso anno mi sono iscritto all’istituto tecnico dai salesiani, che frequentavo all’uscita dal lavoro e mi sono diplomato perito elettrico. La sera prendevo il pullman alle 22,30 e arrivavo a casa alle 23,30. Al mattino mi alzavo alle 6 per tornare a Sesto.
Sono stato assunto come apprendista addetto al montaggio dei piccoli trasformatori, poi sono passato operaio e quando mi sono diplomato sono diventato impiegato tecnico. Dopo un periodo di crisi il gruppo è stato smembrato in più aziende e nell’83 sono passato in Firema, dove sono rimasto fino al 1996, quando sono andato in pensione.

In azienda c’erano degli amici del mio paese impegnati nel sindacato e appena entrato mi hanno iscritto alla Cisl. Avevo già una sensibilità sociale che proveniva dalla mia partecipazione alla vita dell’oratorio e delle Acli. I riferimenti in fabbrica, per la Fim, erano Aldo Ripamonti ed Enrico Riva, membri di commissione interna.
Ho iniziato ad impegnarmi dopo il servizio militare, nel 1966, ma non sono mai stato commissario. Ho fatto parte però del primo consiglio di fabbrica che abbiamo eletto e sono stato sempre rieletto fino al mio passaggio in Firema.
Ero membro del direttivo di zona della Fim, ma non ho potuto avere altri incarichi in Cisl per l’incompatibilità con l’impegno di assessore che ho avuto al mio paese per vent’anni, dal ‘70 al ’90.
Quando sono stato assunto in Marelli ci lavoravano quasi 7.000 persone, di cui 2.000 impiegati, nel mio reparto eravamo circa 600.  Il primo cdf era formato da 70 delegati, 58 dei quali erano Fiom, 9 della Fim e 3 della Uilm. Tra i 9 della Fim c’erano lavoratori di estrazione cattolica, ma anche alcuni di Democrazia proletaria o di altri gruppi. Nonostante queste differenze, qualche segno l’abbiamo lasciato, soprattutto nella fase finale della ristrutturazione.
Essendo una fabbrica con una presenza molto forte del Pci e della Fiom, gli impiegati tendevano a chiudersi in se e a non esporsi, magari mugugnavano ma ci seguivano. Partecipavano agli scioperi e comunque c’era sempre il giro della ronda e si portavano fuori tutti. Se poi dichiaravano che avevano scioperato o erano in ferie questo non lo so. Io, però, cercavo sempre di conquistare la fiducia delle persone e penso che questo qualche risultato l’abbia dato.

All’inizio è stata dura. Vicino alle macchinette del caffè, erano esposti il Manifesto, l’Unità e l’Avanti. Un giorno ho preso uno dei delegati, quello con cui riuscivo a dialogare un po’ di più, e gli ho detto che avevo intenzione di esporre Avvenire. Qualcuno voleva che esponessimo il Popolo, ma il giornale della Dc arrivava con un giorno di ritardo e solo successivamente siamo riusciti a esporlo in mensa. Il delegato della Fiom mi ha detto: “Fallo pure, ma non so quanto tempo dura”. “Io ci provo”. Il primo giorno ha resistito 10 minuti. Dopo averlo appeso, appena tornato al mio posto sono venuti ad avvertirmi che il giornale era stato stracciato e buttato nel cestino. La mattina dopo ci ho riprovato e ha fatto la stessa fine. Allora ho chiamato i delegati della Fiom e gli ho detto: “E’ già successo due volte, alla terza se trovo il mio giornale nel cestino ci vanno a finire anche gli altri”. “Ti consigliamo di non provarci” è stato il loro commento. La mattina dopo è successa la stessa cosa ad Avvenire e così, mantenendo la promessa, ho stracciato tutti gli altri e li ho buttati nel cestino. Si è fermato il reparto. La Fiom ha immediatamente dichiarato un’ora di sciopero “contro l’intolleranza del delegato della Fim”. Ma dopo questo episodio è stata convocata un’assemblea e la conclusione è stata che da quel momento venivano affissi quattro giornali e tutti e quattro rimanevano regolarmente esposti.
Durante le assemblee, quando prendeva la parola uno di noi conosciuto come democristiano, era una bolgia. Non ci lasciavano parlare. Questo invece non avveniva con i delegati Fim non democristiani. Anche in consiglio di fabbrica era così. Col tempo, quando hanno capito che c’era coerenza da parte nostra, che partecipavamo alle lotte come tutti, e che non eravamo degli sprovveduti, allora l’atteggiamento è cambiato. Non ci sono stati mai episodi di violenza, anche se qualche manata sul collo l’ho presa. I più accesi erano i delegati degli operai.
Quando mi hanno messo a lavorare nel reparto “quadri” come impiegato, c’erano quattro delegati tutti della Fiom e io ero un delegato “aggiunto”, cioè non eletto in quell’area. Poi, però, mi hanno sempre rieletto.
In fabbrica c’era la cellula del Pci e c’erano anche cellule di reparto. Erano molto organizzati, con una presenza capillare. Il partito non faceva riunioni all’interno. Gli attivisti si trovavano all’esterno e non sono mai intervenuti sulle vicende aziendali. Mi dicevano: “Non capisco come fa un lavoratore della Marelli, del sindacato, ad essere democristiano”.
Noi abbiamo creato il “Gip” della Dc, ma non ha mai funzionato effettivamente. Serviva per raccogliere i soldi per pagare l’Avvenire e il Popolo che appendevamo in bacheca, ma non ha mai avuto un ruolo in azienda.
In fabbrica c’era anche diversi gruppi extraparlamentari. Durante le assemblee mi interrompevano spesso mentre parlavo. Più volte sono stato circondato da gruppetti di operai che urlavano contro di me in modo minaccioso. Qualche volta mi hanno anche fatto spaventare. Una volta uno di costoro mi ha interrotto in consiglio di fabbrica, io ho reagito spiegandogli che avrei usato tutto il tempo necessario per dire ciò che dovevo e che se mi avesse interrotto, avrei ripreso da dove ero stato fermato. E siccome sapevo che ogni tanto faceva del lavoro in nero quando usciva dalla fabbrica, perché l’avevo visto personalmente, l’ho detto di fronte a tutti. La sera, quando sono uscito, sono stato fermato da quattro persone che mi hanno circondato dicendo che non avrei dovuto raccontare quelle cose in cdf e che avevo messo il loro amico in cattiva luce. E’ stata una minaccia abbastanza seria, ma fortunatamente è finita con un nulla di fatto. Il giorno dopo l’ho raccontato ai miei colleghi della Fim, perché tra di noi ci dicevamo tutto. Nulla a che vedere, però, con la violenza delle Brigate rosse.  
I terroristi hanno ucciso il dott. Briano, capo del personale di tutta l’azienda, perché era una persona con cui si poteva discutere. Quando è successo, come delegazione del cdf siamo andati a Milano, a casa della famiglia, e abbiamo parlato con la moglie e i figli. Il giorno dei funerali la fabbrica si è fermata.

L’amministrazione comunale, quando è iniziata la crisi, ci ha appoggiato poco. Probabilmente non aveva un potere reale. Ci metteva a disposizione delle sale per i nostri incontri, ha convocato dei consigli comunali aperti, qualche sostegno con ordini del giorno, ma niente di concreto.
Noi ci siamo appoggiati di più alla Regione. Il presidente Guzzetti è venuto in fabbrica più volte a parlare ai lavoratori riuniti in assemblea generale. Una presenza ben accetta e apprezzata anche dalla Fiom. Lui ha sostenuto la possibilità di salvare l’azienda e i posti di lavoro attraverso un suo smembramento in più aree, cosa che poi è avvenuta. La gestione di questa fase critica era nelle nostre mani e la Marelli l’abbiamo salvata soprattutto noi della Cisl. Verso la fine, questo ha cambiato anche i rapporti in termini di iscritti tra Fim e Fiom. Noi siamo arrivati ad avere 30 delegati e loro sono scesi da 58 a 40. Nell’85 siamo addirittura diventati maggioranza.
Anche la Chiesa sestese non ci è stata vicina, restava ai margini, un po’ come il Comune. Abbiamo cercato di coinvolgere il prevosto, ma è arrivata solo una solidarietà verbale. Quando è venuto il Papa ero in prima fila. Eravamo in piena crisi e per noi è stato un momento di solidarietà vera. Abbiamo fatto il servizio d’ordine, cui hanno partecipato anche i delegati della Fiom, ma la preoccupazione in fabbrica era talmente forte che abbiamo dimenticato presto quell’incontro.

I sindacalisti di Sesto, sia Fim che Fiom, non  vedevano tanto bene noi delegati di estrazione democristiana. Con l’operatore della Fim, Guido Laudini, ho avuto degli scontri abbastanza forti. Tiboni non l’ho mai sopportato. Secondo lui si doveva sempre rompere e non fare mai accordi. In un’assemblea Fim a Sesto sono intervenuto contro di lui, dicendogli che non ci avrebbe più rappresentati e ho scatenato una bolgia.  
Il confronto all’interno della Fim della Ercole Marelli era vivace, ma nel pieno rispetto reciproco, seppure con idee di partenza diverse. Alla fine la Fim riusciva sempre a fare sintesi e a presentarsi in consiglio con posizioni unitarie. Col tempo siamo cresciuti, sia come iscritti che come persone che ci seguivano, e  la presenza in Fim di culture diverse è stata una ricchezza.