Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall’oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Sono nato a Cornate d’Adda il 4 giugno 1940 e vivo ancora qui. Ho frequentato in paese le cinque elementari, poi sono andato a Sesto San Giovanni alle scuole della Breda e ho ha fatto i tre anni di avviamento professionale.
Ho iniziato a lavorare
il 1° luglio 1955 alla Ercole Marelli. Lo stesso anno mi sono iscritto
all’istituto tecnico dai salesiani, che frequentavo all’uscita dal lavoro e mi
sono diplomato perito elettrico. La sera prendevo il pullman alle 22,30 e
arrivavo a casa alle 23,30. Al mattino mi alzavo alle 6 per tornare a Sesto.
Sono stato
assunto come apprendista addetto al montaggio dei piccoli trasformatori, poi
sono passato operaio e quando mi sono diplomato sono diventato impiegato
tecnico. Dopo un periodo di crisi il gruppo è stato smembrato in più aziende e
nell’83 sono passato in Firema, dove sono rimasto fino al 1996, quando sono
andato in pensione.
In azienda
c’erano degli amici del mio paese impegnati nel sindacato e appena entrato mi
hanno iscritto alla Cisl. Avevo già una sensibilità sociale che proveniva dalla
mia partecipazione alla vita dell’oratorio e delle Acli. I riferimenti in
fabbrica, per la Fim, erano Aldo Ripamonti ed Enrico Riva, membri di
commissione interna.
Ho iniziato ad
impegnarmi dopo il servizio militare, nel 1966, ma non sono mai stato
commissario. Ho fatto parte però del primo consiglio di fabbrica che abbiamo
eletto e sono stato sempre rieletto fino al mio passaggio in Firema.
Ero membro del
direttivo di zona della Fim, ma non ho potuto avere altri incarichi in Cisl per
l’incompatibilità con l’impegno di assessore che ho avuto al mio paese per
vent’anni, dal ‘70 al ’90.
Quando sono
stato assunto in Marelli ci lavoravano quasi 7.000 persone, di cui 2.000
impiegati, nel mio reparto eravamo circa 600.
Il primo cdf era formato da 70 delegati, 58 dei quali erano Fiom, 9
della Fim e 3 della Uilm. Tra i 9 della Fim c’erano lavoratori di estrazione
cattolica, ma anche alcuni di Democrazia proletaria o di altri gruppi.
Nonostante queste differenze, qualche segno l’abbiamo lasciato, soprattutto
nella fase finale della ristrutturazione.
Essendo una
fabbrica con una presenza molto forte del Pci e della Fiom, gli impiegati
tendevano a chiudersi in se e a non esporsi, magari mugugnavano ma ci
seguivano. Partecipavano agli scioperi e comunque c’era sempre il giro della
ronda e si portavano fuori tutti. Se poi dichiaravano che avevano scioperato o
erano in ferie questo non lo so. Io, però, cercavo sempre di conquistare la
fiducia delle persone e penso che questo qualche risultato l’abbia dato.
All’inizio è
stata dura. Vicino alle macchinette del caffè, erano esposti il Manifesto,
l’Unità e l’Avanti. Un giorno ho preso uno dei delegati, quello
con cui riuscivo a dialogare un po’ di più, e gli ho detto che avevo intenzione
di esporre Avvenire. Qualcuno voleva che esponessimo il Popolo,
ma il giornale della Dc arrivava con un giorno di ritardo e solo
successivamente siamo riusciti a esporlo in mensa. Il delegato della Fiom mi ha
detto: “Fallo pure, ma non so quanto tempo dura”. “Io ci provo”. Il primo
giorno ha resistito 10 minuti. Dopo averlo appeso, appena tornato al mio posto
sono venuti ad avvertirmi che il giornale era stato stracciato e buttato nel
cestino. La mattina dopo ci ho riprovato e ha fatto la stessa fine. Allora ho
chiamato i delegati della Fiom e gli ho detto: “E’ già successo due volte, alla
terza se trovo il mio giornale nel cestino ci vanno a finire anche gli altri”.
“Ti consigliamo di non provarci” è stato il loro commento. La mattina dopo è
successa la stessa cosa ad Avvenire e così, mantenendo la promessa, ho
stracciato tutti gli altri e li ho buttati nel cestino. Si è fermato il
reparto. La Fiom ha immediatamente dichiarato un’ora di sciopero “contro
l’intolleranza del delegato della Fim”. Ma dopo questo episodio è stata
convocata un’assemblea e la conclusione è stata che da quel momento venivano
affissi quattro giornali e tutti e quattro rimanevano regolarmente esposti.
Durante le
assemblee, quando prendeva la parola uno di noi conosciuto come democristiano,
era una bolgia. Non ci lasciavano parlare. Questo invece non avveniva con i
delegati Fim non democristiani. Anche in consiglio di fabbrica era così. Col
tempo, quando hanno capito che c’era coerenza da parte nostra, che
partecipavamo alle lotte come tutti, e che non eravamo degli sprovveduti,
allora l’atteggiamento è cambiato. Non ci sono stati mai episodi di violenza,
anche se qualche manata sul collo l’ho presa. I più accesi erano i delegati
degli operai.
Quando mi hanno
messo a lavorare nel reparto “quadri” come impiegato, c’erano quattro delegati
tutti della Fiom e io ero un delegato “aggiunto”, cioè non eletto in
quell’area. Poi, però, mi hanno sempre rieletto.
In fabbrica
c’era la cellula del Pci e c’erano anche cellule di reparto. Erano molto
organizzati, con una presenza capillare. Il partito non faceva riunioni
all’interno. Gli attivisti si trovavano all’esterno e non sono mai intervenuti
sulle vicende aziendali. Mi dicevano: “Non capisco come fa un lavoratore della
Marelli, del sindacato, ad essere democristiano”.
Noi abbiamo
creato il “Gip” della Dc, ma non ha mai funzionato effettivamente. Serviva per
raccogliere i soldi per pagare l’Avvenire e il Popolo che
appendevamo in bacheca, ma non ha mai avuto un ruolo in azienda.
In fabbrica c’era
anche diversi gruppi extraparlamentari. Durante le assemblee mi interrompevano
spesso mentre parlavo. Più volte sono stato circondato da gruppetti di operai
che urlavano contro di me in modo minaccioso. Qualche volta mi hanno anche
fatto spaventare. Una volta uno di costoro mi ha interrotto in consiglio di
fabbrica, io ho reagito spiegandogli che avrei usato tutto il tempo necessario
per dire ciò che dovevo e che se mi avesse interrotto, avrei ripreso da dove
ero stato fermato. E siccome sapevo che ogni tanto faceva del lavoro in nero
quando usciva dalla fabbrica, perché l’avevo visto personalmente, l’ho detto di
fronte a tutti. La sera, quando sono uscito, sono stato fermato da quattro
persone che mi hanno circondato dicendo che non avrei dovuto raccontare quelle
cose in cdf e che avevo messo il loro amico in cattiva luce. E’ stata una
minaccia abbastanza seria, ma fortunatamente è finita con un nulla di fatto. Il
giorno dopo l’ho raccontato ai miei colleghi della Fim, perché tra di noi ci
dicevamo tutto. Nulla a che vedere, però, con la violenza delle Brigate
rosse.
I terroristi
hanno ucciso il dott. Briano, capo del personale di tutta l’azienda, perché era
una persona con cui si poteva discutere. Quando è successo, come delegazione
del cdf siamo andati a Milano, a casa della famiglia, e abbiamo parlato con la
moglie e i figli. Il giorno dei funerali la fabbrica si è fermata.
L’amministrazione
comunale, quando è iniziata la crisi, ci ha appoggiato poco. Probabilmente non
aveva un potere reale. Ci metteva a disposizione delle sale per i nostri
incontri, ha convocato dei consigli comunali aperti, qualche sostegno con
ordini del giorno, ma niente di concreto.
Noi ci siamo
appoggiati di più alla Regione. Il presidente Guzzetti è venuto in fabbrica più
volte a parlare ai lavoratori riuniti in assemblea generale. Una presenza ben
accetta e apprezzata anche dalla Fiom. Lui ha sostenuto la possibilità di
salvare l’azienda e i posti di lavoro attraverso un suo smembramento in più
aree, cosa che poi è avvenuta. La gestione di questa fase critica era nelle
nostre mani e la Marelli l’abbiamo salvata soprattutto noi della Cisl. Verso la
fine, questo ha cambiato anche i rapporti in termini di iscritti tra Fim e
Fiom. Noi siamo arrivati ad avere 30 delegati e loro sono scesi da 58 a 40.
Nell’85 siamo addirittura diventati maggioranza.
Anche la
Chiesa sestese non ci è stata vicina, restava ai margini, un po’ come il
Comune. Abbiamo cercato di coinvolgere il prevosto, ma è arrivata solo una
solidarietà verbale. Quando è venuto il Papa ero in prima fila. Eravamo in
piena crisi e per noi è stato un momento di solidarietà vera. Abbiamo fatto il
servizio d’ordine, cui hanno partecipato anche i delegati della Fiom, ma la
preoccupazione in fabbrica era talmente forte che abbiamo dimenticato presto
quell’incontro.
I sindacalisti
di Sesto, sia Fim che Fiom, non vedevano
tanto bene noi delegati di estrazione democristiana. Con l’operatore della Fim,
Guido Laudini, ho avuto degli scontri abbastanza forti. Tiboni non l’ho mai sopportato.
Secondo lui si doveva sempre rompere e non fare mai accordi. In un’assemblea
Fim a Sesto sono intervenuto contro di lui, dicendogli che non ci avrebbe più
rappresentati e ho scatenato una bolgia.
Il confronto
all’interno della Fim della Ercole Marelli era vivace, ma nel pieno rispetto
reciproco, seppure con idee di partenza diverse. Alla fine la Fim riusciva
sempre a fare sintesi e a presentarsi in consiglio con posizioni unitarie. Col
tempo siamo cresciuti, sia come iscritti che come persone che ci seguivano,
e la presenza in Fim di culture diverse
è stata una ricchezza.