Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Angeli senza ali. Morti bianche e sicurezza sul lavoro. Il caso Lombardia”, a cura di Costantino Corbari e Angelico Corti, Edizioni Lavoro, Roma, 2008
L’informazione e l’integrazione dei lavoratori
stranieri è una delle priorità per tutti gli «addetti ai lavori» in edilizia,
sindacalisti o imprenditori che siano. Perché quando si tratta di misure di
protezione e sicurezza «non sempre basta capirsi a gesti», come racconta
Cristina Carrera, operatrice per il sindacato edili della Cisl da sette anni,
dal 2005 a Bergamo.
I lavoratori in edilizia sono
soprattutto stranieri: marocchini, tunisini, albanesi e tanti kosovari. Molti
sono scappati dal Kosovo durante la guerra, a 13-14 anni, nascosti in un
furgone. Qui hanno provato a ricominciare, a
ricostruirsi un futuro. Gli stranieri ormai sono moltissimi, tanto che noi
operatori abbiamo fatto un corso di arabo per il
primo
approccio. Ma avrò imparato due parole, serve di più il contatto diretto.
È curioso vedere il modo in cui lavorano, diverso
in base alla cultura che hanno. E allora scopri che l’indiano o il pakistano
sono pie bravi nei lavori manuali. Invece il marocchino, l’albanese o il kosovaro
hanno altre abilità.
La formazione con gli immigrati è delicata,
bisogna conoscere li lingua, non si possono confondere le etnie, ma ti dà molte
soddisfazioni. Ricordo alcuni mesi fa, nel cantiere dell’autostrada avevano un
gruppo di kosovari: un giorno erano qui, un giorno là, perché il
cantiere
andava avanti a pezzi. Allora ci siamo attivati e tutti i sabati
pomeriggio, dalle tre e mezza alle sette, con il loro caposquadra kosovaro che sapeva
l’italiano abbiamo organizzato incontri per dare loro informazioni utili. Anche
nel cantiere dell’ospedale nuovo Bergamo, come Filca, abbiamo organizzato un
corso di formazione di italiano di tre settimane, il sabato pomeriggio e la
domenica mattina, per le squadre di ragazzi stranieri. Avevano grandi
difficoltà a comunicare con noi e dovevo
sempre aspettare qualcuno che facesse da interprete.
Anche loro cercavano un’occasione per imparare l’italiano, tant’è che al corso
sono sempre venuti. È stata una bella esperienza, importante
anche
perché siamo potuti entrare meglio in contatto con loro e poi dare
indicazioni e riferimenti sul territorio, in modo che andassero a cercare nel
loro paese una scuola d’italiano. Certo è un
bell’impegno: per un anno sono andata in cantiere tutti i giorni,
ogni volta per un gruppo diverso, a spiegare l’assistenza della cassi edile,
utilizzando anche opuscoli che fossero nella loro lingua. Molti erano già del
mestiere, altri invece proprio giovani, alla loro prima esperienza. Magari fino
al giorno prima aggiustavano tapparelle, poi
si sono trovati a fare i carpentieri. Ovviamente hanno cominciato facendo i
manovali, portando il materiale, per i primi mesi. Pian piano hanno imparato.
Il cantiere dell’ospedale
nuovo lo chiamano «il
cantiere modello», ma è solo teoria. Tre volte la
settimana sono lì, per incontrare i lavoratori, parlare con l’azienda
committente o le ditte subappaltatrici. I problemi non mancano, l’abbiamo detto
e scritto tante volte. Alcuni mesi fa è caduta una gru, in due ore è stata
fatta sparire e nessuno ha detto nulla. Coi nostri colleghi diciamo «Lì c’è il
Papa che davvero protegge» perché di infortuni
gravi non ne sono ancora successi. per fortuna neanche incidenti mortali.
Ma è solo un caso. Il Responsabile per la sicurezza,
infatti, sta facendo fatica a far rispettare le cose più elementari: la scarpa
idonea, l’imbragatura quando fai i lavori in quota, i ponteggi con le protezioni,
le pareti di sicurezza negli scavi. La priorità è stare nei tempi, tutto il
resto viene dopo. Non parliamo poi della sicurezza. Tanto se succede qualcosa
la colpa è del poveretto che è scivolato.
Anche la formazione è insufficiente: d’obbligo
gli operai avrebbero 150 ore d’ingresso, ma non abbiamo trovato nessuno che le
ha fatte. Al cantiere dell’ospedale abbiamo firmato un protocollo d’intesa
sindacati, committente, per un corso aggiuntivo alla formazione base, che però
era del tutto carente. Del resto, l’obbligo della formazione è solo virtuale.
Non solo le imprese non lasciano il tempo agli operai di seguire gli incontri,
ma molte li mandano in scuole che rilasciano attestati di frequenza di corsi
mai seguiti.
E un cantiere enorme, il nuovo ospedale di
Bergamo, tra impiegati e operai non ci lavorano mai meno di duecento
persone. L’azienda che ha ricevuto l’incarico ha vinto l’appalto al ribasso e
quindi deve stare nei costi. Ha una ventina di dipendenti, ma ha dato tutto in
subappalto. E con quasi tutte queste aziende in subappalto siamo in vertenza,
perché tagliano i costi sulla pelle dei lavoratori. In tre casi, in
particolare, abbiamo dovuto andare per avvocati: o non retribuivano o c’era il
giro del caporalato. Responsabile in solido è l’azienda che vince l’appalto, ma
il mio metodo è costruire un rapporto con ogni singola impresa. Anche se poi
dipende da chi c’è dall'altra parte. Se c’è il caposquadra, il geometra o
l’impiegato che capisce la situazione, bene. Se invece trovi quello che fa il
gioco duro e dice «comunque io non pago perché non è vero quello che questo
lavoratore dichiara», allora passi alle vie legali. Il problema è che i lavoratori
dovrebbero avere in mano la busta paga, per poter far valere le loro ragioni,
ma spesso non è così.
L’irregolarità è all'ordine del giorno. Molti
lavoratori pensano di essere assunti e invece non lo sono. Dopo alcuni mesi
cominciano a chiedersi perché non hanno la busta paga, soprattutto se hanno
bisogno dei documenti per il rinnovo del permesso di soggiorno. Per non parlare
del fatto che in tanti devono pagare il loro datore di lavoro per essere assunti
e rinnovare il permesso. Quindi la busta paga da mille euro passa a cinquecento
perché il resto, ti spiegano, l’hanno dovuto dare al capo «perché mi ha fatto
questo favore». Un capo che poi, in moltissimi casi, è un finto imprenditore.
Sono tanti gli imprenditori finti, i prestanome,
oppure quelli che mandano avanti gli altri per cui arrivi a loro quando ti
danno i soldi per chiudere la vertenza. Io ho sempre trovato persone che se
anche non ti aprono le braccia almeno non ti scacciano, forse per il fatto che
sono donna. In generale sono gentili, sì, però poi in molti non chiamano gli
operai che hai chiesto di incontrare. Ti dicono che non sono obbligati a farlo
e ti tocca farti trovare fuori dal cantiere a fine lavoro.
I geometri e gli ingegneri sono i più diffidenti,
pensano che siamo lì a controllare, non hanno bene chiaro che se vediamo
qualche cosa che non va facciamo la comunicazione a chi di dovere, ma non siamo
ispettori. E poi chiediamo sempre il permesso, non abbiamo il nulla osta per
entrare come ci pare e piace. Solitamente domandiamo del referente di cantiere
(o il caposquadra, o il geometra o l’imprenditore) e a lui spieghiamo perché
siamo lì e perché vogliamo parlare con i lavoratori. L’orario migliore certo è
la pausa pranzo, perché hai più tempo per parlare, per spiegare l’Abc dei
diritti sindacali e poi l'assistenza della cassa edile. Tante volte non sanno
che possono chiedere i contributi. Però almeno alcune cose devono saperle, come
guardare le ore per il premio di maggio o verificare se a luglio arriva la
cartella. Quindi giri per i cantieri per ricordare a tutti le scadenze.
Soprattutto se il cantiere è grande è meglio andare dalle 12.15 alle 13.30.
Però nei cantieri piccoli anche in altri momenti, alle dieci, alle due, mentre
lavorano.
Ogni cantiere fuori ha un cartello, dove nero su
bianco c’è scritto chi è il Responsabile della sicurezza, qual è l’impresa che
ha vinto l’appalto, l’impresa committente, il responsabile dei lavori. Da lì ti
fai una prima idea della situazione. Poi entri, e scopri che se anche sul
cartello c’è scritto «Impresa edile Cristina», in realtà all’interno
lavorano l’impresa «Mario», l’impresa «Giovanna», l’impresa «Tiziana». E sono
artigiani organizzati in piccole squadre, che si passano appalto e subappalto.
E tanti, ma tanti, non sanno nemmeno di chi sono dipendenti. Arrivano in
cantiere con il loro capo, che magari li ha raccolti nei paesi la mattina
all’alba, che li paga in contanti, magari a fine giornata. E rispondono a lui,
non sanno nemmeno chi è il titolare dei lavori. Così se succede qualcosa, e se
devi aprire una vertenza, non sanno per chi hanno lavorato. Comunque, una volta
dentro, parlando con chi lavora in cantiere, capisci se è in regola o no.
Purtroppo succede ancora di vedere operai che scappano quando ti vedono
entrare, perché non sono in regola.
Succedono anche episodi simpatici. Ricordo una
volta, quasi due anni fa, ero appena arrivata a Bergamo da Brescia: vado in un
cantiere di un centro commerciale, mi presento «Sono Cristina della Cisl» e
chiedo di Mario. Il suo collega lo chiama: «Mario, c’è Cristina della Asl». E
io: «No, della Cisl». E allora: «Mario, c’è Cristina della Inps». E io «No,
della Cisl». E allora lui «Mario, scendi che c’è qua una donna che ti
cerca...». Dire «della Cisl» non lo aiutava a capire perché una donna era in
cantiere e cercava proprio questo Mario.
Non è stato l’unico a chiedersi cosa volesse una
donna in un cantiere, in questi sette anni. All’inizio è stato difficile.
Alcuni mi dicevano «Sei donna, non parlo con te», oppure se andavo con un collega,
anche se nuovo e palesemente alle prime armi, si rivolgevano a lui e non a me.
Spesso capita ancora. E lo fanno tutti, italiani o stranieri che siano. La
mentalità dominante è che se sei donna, e per di più lavori in un settore
maschile come l’edilizia, ti devi meritare l’attenzione, la fiducia. Non ti è
data. All’uomo sì. Però alla fine i risultati li ottieni, se hai un approccio
di ascolto, se li fai sentire persone protagoniste della loro vita, se ti
interessi delle loro vite e dei loro problemi, andando al di là delle questioni
spicce che ti pongono. Piano piano, anche se sei una donna, acquisisci
autorevolezza. E capisci come gestire al meglio il rapporto, perché anche la
confidenza eccessiva è sbagliata.
L'attività nei cantieri è complessa. Il nostro
compito è quello di dare informazioni ai lavoratori, con un occhio attento alla
regolarità delle condizioni del cantiere. Ma non possiamo fermare un lavoro,
non ci occupiamo degli aspetti tecnici. Anche se comunque dobbiamo seguire
corsi di aggiornamento della scuola edile, sui nuovi metodi di lavoro. Non è da
poco. Perché se conosci i metodi di lavoro, le macchine, riesci a seguirli
meglio. Se gli operai sono lì senza un attrezzo, solo con i guanti e il badile,
se conosci i processi e le fasi di lavorazione capisci meglio cosa c’è che non
va, dal punto di vista della sicurezza. Certo non sono geometra o altro ma un
minimo devo sapere.
Dobbiamo conoscere il cantiere e seguirlo. Ed è
bello quando cominci dalle fondamenta, dagli scavi, e segui fino all’opera
finita, sia che sia una casa, un ospedale, un grande centro commerciale. Vedi
l’opera e il susseguirsi delle persone, quanta gente lavora. L’edilizia
fortunatamente non è quel settore di farabutti e delinquenti come si vuol far
credere, c’è anche una grande preparazione e professionalità. Non sono tutti
manovali, gli edili, ci sono gli operai specializzati che hanno una grande
esperienza da vendere.
I veri imprenditori, poi, non i caporali o quelli
che fanno mercato di persone, hanno una grande capacità gestionale. I finti
imprenditori si distinguono subito. Primo, perché vedono il sindacato come
quella cosa che «Ah, è qui e mi fa chiudere», quindi sono già carenti di una
fetta di storia; secondo, ti danno chiaramente l’impressione di aver qualcosa
da nascondere. Inoltre non conoscono la cassa edile, non sanno cos’hanno pagato
e cosa no, per tutto devono chiamare sempre il commercialista. Sono moltissimi,
infatti, i piccoli imprenditori che si affidano ai commercialisti, che tante
volte sono i veri titolari dell’azienda. Per non parlare dei prestanome,
che sono tanti, e dei caporali che guadagnano 15-20
mila euro al mese, anche se poi risulta che hanno una busta paga da mille euro
e magari fanno anche domanda per l’assegno familiare e la detrazione d’imposta.
E chi li controlla?
Anche noi, quando veniamo a conoscenza di
irregolarità e vogliamo fare una denuncia dobbiamo comunque avere le prove e i testimoni. Non è certo la paura che ti frena, ma
l’esigenza di provarlo. Perché poi i lavoratori,
anche nelle vertenze normali, non si presentano, accettano la mediazione e non
vanno avanti. Anche perché continuare a venire, per loro, significa perdere
giornate di lavoro: monetizzano tutto.
Quando poi si è vinto l’appalto al ribasso, il
taglio dei costi è la priorità. E quindi si cercano operai che hanno bisogno di
lavorare per sopravvivere e che accettano anche condizioni al limite del
pericolo.
Moltissime volte ho visto lavoratori che non
usavano sistemi di protezione, che salivano sui ponteggi senza imbragatura.
Allora li segnaliamo subito, al caposquadra o al geometra, ma anche al
Rappresentante della sicurezza della zona e all’Asl. E ne parliamo ovviamente
anche col lavoratore, solo che quelli che hanno più esperienza ti dicono:
«Non ho bisogno dell’imbragatura, per fare questo tipo di lavorazione è più
scomodo». Devono fare un lavoro in due ore e se glielo fai fare vestito in un
modo o con un metodo diverso dicono che perdono tempo, che il capo li
rimprovera. E si rifiutano. Lavorano troppo in fretta, perché sono quasi tutti
a cottimo. Anche se non lo ammettono è così.
La sicurezza è una questione di costi. Ne ho
visti un sacco camminare come equilibristi, a otto metri di altezza, senza
protezione, per fare una tettoia. E se li richiami, ti dicono: «Non ti
preoccupare, lo faccio sempre». Non è un caso se una delle cause principali di
morte nei cantieri è la caduta dall’alto. Si fidano troppo di loro stessi. «Ce
la faccio - dicono - non sarà per quel metro, per quel pezzo, non sarà per...»,
ma la disattenzione, quell’attimo in cui rischiano di perdere l’equilibrio è lì
in agguato. E poi questi ponteggi senza reti, senza protezione: solo pezzi di
ferro e assi. E questo sempre solo perché costa, acquistare i materiali, e costa
tempo predisporre le protezioni. La priorità sono le scadenze dei lavori.
Tutto si basa sul «Dio soldo» e la sicurezza
viene considerata un costo. Se non ci fosse la cassa edile tanti non avrebbero
nemmeno la scarpa, il giubbino, i guanti. Lavorano sempre più in fretta, sempre
di più, perché prima finiscono, prima guadagnano e riprendono a lavorare da
un’altra parte. L’impresa spinge, e il lavoratore si adegua. In edilizia ci
sono tantissime squadre di artigiani che vengono pagate per il lavoro fatto, la
busta diventa una copertura.
E chi va a verificare? Il rischio di una multa in
seguito a dichiarazioni fiscali false è uno su cento. Tanto vale rischiare e
pagare la multa.