lunedì 18 maggio 2020

CRISTINA CARRERA - Filca Cisl - Bergamo

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Angeli senza ali. Morti bianche e sicurezza sul lavoro. Il caso Lombardia”, a cura di Costantino Corbari e Angelico Corti, Edizioni Lavoro, Roma, 2008

L’informazione e l’integrazione dei lavoratori stranieri è una delle priorità per tutti gli «addetti ai lavori» in edilizia, sindacalisti o imprenditori che siano. Perché quando si tratta di misure di protezione e sicurezza «non sempre basta capirsi a gesti», come racconta Cristina Carrera, operatrice per il sindacato edili della Cisl da sette anni, dal 2005 a Bergamo.

I lavoratori in edilizia sono soprattutto stranieri: marocchini, tunisini, albanesi e tanti kosovari. Molti sono scappati dal Kosovo durante la guerra, a 13-14 anni, nascosti in un furgone. Qui hanno provato a ricominciare, a ricostruirsi un futuro. Gli stranieri ormai sono moltissimi, tanto che noi operatori abbiamo fatto un corso di arabo per il primo approccio. Ma avrò imparato due parole, serve di più il contatto diretto.
È curioso vedere il modo in cui lavorano, diverso in base alla cultura che hanno. E allora scopri che l’indiano o il pakistano sono pie bravi nei lavori manuali. Invece il marocchino, l’albanese o il kosovaro hanno altre abilità.
La formazione con gli immigrati è delicata, bisogna conoscere li lingua, non si possono confondere le etnie, ma ti dà molte soddisfazioni. Ricordo alcuni mesi fa, nel cantiere dell’autostrada avevano un gruppo di kosovari: un giorno erano qui, un giorno là, perché il cantiere andava avanti a pezzi. Allora ci siamo attivati e tutti i sabati pomeriggio, dalle tre e mezza alle sette, con il loro caposquadra kosovaro che sapeva l’italiano abbiamo organizzato incontri per dare loro informazioni utili. Anche nel cantiere dell’ospedale nuovo Bergamo, come Filca, abbiamo organizzato un corso di formazione di italiano di tre settimane, il sabato pomeriggio e la domenica mattina, per le squadre di ragazzi stranieri. Avevano grandi difficoltà a comunicare con noi e dovevo sempre aspettare qualcuno che facesse da interprete. Anche loro cercavano un’occasione per imparare l’italiano, tant’è che al corso sono sempre venuti. È stata una bella esperienza, importante anche perché siamo potuti entrare meglio in contatto con loro e poi dare indicazioni e riferimenti sul territorio, in modo che andassero a cercare nel loro paese una scuola d’italiano. Certo è un bell’impegno: per un anno sono andata in cantiere tutti i giorni, ogni volta per un gruppo diverso, a spiegare l’assistenza della cassi edile, utilizzando anche opuscoli che fossero nella loro lingua. Molti erano già del mestiere, altri invece proprio giovani, alla loro prima esperienza. Magari fino al giorno prima aggiustavano tapparelle, poi si sono trovati a fare i carpentieri. Ovviamente hanno cominciato facendo i manovali, portando il materiale, per i primi mesi. Pian piano hanno imparato.
Il cantiere dell’ospedale nuovo lo chiamano «il cantiere modello», ma è solo teoria. Tre volte la settimana sono lì, per incontrare i lavoratori, parlare con l’azienda committente o le ditte subappaltatrici. I problemi non mancano, l’abbiamo detto e scritto tante volte. Alcuni mesi fa è caduta una gru, in due ore è stata fatta sparire e nessuno ha detto nulla. Coi nostri colleghi diciamo «Lì c’è il Papa che davvero protegge» perché di infortuni gravi non ne sono ancora successi. per fortuna neanche incidenti mortali. Ma è solo un caso. Il Responsabile per la sicurezza, infatti, sta facendo fatica a far rispettare le cose più elementari: la scarpa idonea, l’imbragatura quando fai i lavori in quota, i ponteggi con le protezioni, le pareti di sicurezza negli scavi. La priorità è stare nei tempi, tutto il resto viene dopo. Non parliamo poi della sicurezza. Tanto se succede qualcosa la colpa è del poveretto che è scivolato.
Anche la formazione è insufficiente: d’obbligo gli operai avrebbero 150 ore d’ingresso, ma non abbiamo trovato nessuno che le ha fatte. Al cantiere dell’ospedale abbiamo firmato un protocollo d’intesa sindacati, committente, per un corso aggiuntivo alla formazione base, che però era del tutto carente. Del resto, l’obbligo della forma­zione è solo virtuale. Non solo le imprese non lasciano il tempo agli operai di seguire gli incontri, ma molte li mandano in scuole che rilasciano attestati di frequenza di corsi mai seguiti.
E un cantiere enorme, il nuovo ospedale di Bergamo, tra impiegati e operai non ci lavorano mai meno di duecento persone. L’azienda che ha ricevuto l’incarico ha vinto l’appalto al ribasso e quindi deve stare nei costi. Ha una ventina di dipendenti, ma ha dato tut­to in subappalto. E con quasi tutte queste aziende in subappalto siamo in vertenza, perché tagliano i costi sulla pelle dei lavoratori. In tre casi, in particolare, abbiamo dovuto andare per avvocati: o non retribuivano o c’era il giro del caporalato. Responsabile in solido è l’azienda che vince l’appalto, ma il mio metodo è costruire un rapporto con ogni singola impresa. Anche se poi dipende da chi c’è dall'altra parte. Se c’è il caposquadra, il geometra o l’impiegato che capisce la situazione, bene. Se invece trovi quello che fa il gioco duro e dice «comunque io non pago perché non è vero quello che questo lavoratore dichiara», allora passi alle vie legali. Il problema è che i lavoratori dovrebbero avere in mano la busta paga, per poter far valere le loro ragioni, ma spesso non è così.
L’irregolarità è all'ordine del giorno. Molti lavoratori pensano di essere assunti e invece non lo sono. Dopo alcuni mesi cominciano a chiedersi perché non hanno la busta paga, soprattutto se hanno bisogno dei documenti per il rinnovo del permesso di soggiorno. Per non parlare del fatto che in tanti devono pagare il loro datore di lavoro per essere assunti e rinnovare il permesso. Quindi la busta paga da mille euro passa a cinquecento perché il resto, ti spiegano, l’hanno dovuto dare al capo «perché mi ha fatto questo favore». Un capo che poi, in moltissimi casi, è un finto imprenditore.
Sono tanti gli imprenditori finti, i prestanome, oppure quelli che mandano avanti gli altri per cui arrivi a loro quando ti danno i soldi per chiudere la vertenza. Io ho sempre trovato persone che se anche non ti aprono le braccia almeno non ti scacciano, forse per il fatto che sono donna. In generale sono gentili, sì, però poi in molti non chiamano gli operai che hai chiesto di incontrare. Ti dicono che non sono obbligati a farlo e ti tocca farti trovare fuori dal cantiere a fine lavoro.
I geometri e gli ingegneri sono i più diffidenti, pensano che siamo lì a controllare, non hanno bene chiaro che se vediamo qualche cosa che non va facciamo la comunicazione a chi di dovere, ma non siamo ispettori. E poi chiediamo sempre il permesso, non abbiamo il nulla osta per entrare come ci pare e piace. Solitamente domandiamo del referente di cantiere (o il caposquadra, o il geometra o l’imprenditore) e a lui spieghiamo perché siamo lì e perché vogliamo parlare con i lavoratori. L’orario migliore certo è la pausa pranzo, perché hai più tempo per parlare, per spiegare l’Abc dei diritti sindacali e poi l'assistenza della cassa edile. Tante volte non sanno che possono chiedere i contributi. Però almeno alcune cose devono saperle, come guardare le ore per il premio di maggio o verificare se a luglio arriva la cartella. Quindi giri per i cantieri per ricordare a tutti le scadenze. Soprattutto se il cantiere è grande è meglio andare dalle 12.15 alle 13.30. Però nei cantieri piccoli anche in altri momenti, alle dieci, alle due, mentre lavorano.
Ogni cantiere fuori ha un cartello, dove nero su bianco c’è scritto chi è il Responsabile della sicurezza, qual è l’impresa che ha vinto l’appalto, l’impresa committente, il responsabile dei lavori. Da lì ti fai una prima idea della situazione. Poi entri, e scopri che se anche sul cartello c’è scritto «Impresa edile Cristina», in realtà all’interno lavorano l’impresa «Mario», l’impresa «Giovanna», l’impresa «Tiziana». E sono artigiani organizzati in piccole squadre, che si passano appalto e subappalto. E tanti, ma tanti, non sanno nemmeno di chi sono dipendenti. Arrivano in cantiere con il loro capo, che magari li ha raccolti nei paesi la mattina all’alba, che li paga in contanti, magari a fine giornata. E rispondono a lui, non sanno nemmeno chi è il titolare dei lavori. Così se succede qualcosa, e se devi aprire una vertenza, non sanno per chi hanno lavorato. Comunque, una volta dentro, parlando con chi lavora in cantiere, capisci se è in regola o no. Purtroppo succede ancora di vedere operai che scappano quando ti vedono entrare, perché non sono in regola.
Succedono anche episodi simpatici. Ricordo una volta, quasi due anni fa, ero appena arrivata a Bergamo da Brescia: vado in un cantiere di un centro commerciale, mi presento «Sono Cristina della Cisl» e chiedo di Mario. Il suo collega lo chiama: «Mario, c’è Cristina della Asl». E io: «No, della Cisl». E allora: «Mario, c’è Cristina della Inps». E io «No, della Cisl». E allora lui «Mario, scendi che c’è qua una donna che ti cerca...». Dire «della Cisl» non lo aiutava a capire perché una donna era in cantiere e cercava proprio questo Mario.
Non è stato l’unico a chiedersi cosa volesse una donna in un cantiere, in questi sette anni. All’inizio è stato difficile. Alcuni mi dicevano «Sei donna, non parlo con te», oppure se andavo con un colle­ga, anche se nuovo e palesemente alle prime armi, si rivolgevano a lui e non a me. Spesso capita ancora. E lo fanno tutti, italiani o stranieri che siano. La mentalità dominante è che se sei donna, e per di più lavori in un settore maschile come l’edilizia, ti devi meritare l’attenzione, la fiducia. Non ti è data. All’uomo sì. Però alla fine i risultati li ottieni, se hai un approccio di ascolto, se li fai sentire persone protagoniste della loro vita, se ti interessi delle loro vite e dei loro problemi, andando al di là delle questioni spicce che ti pongono. Piano piano, anche se sei una donna, acquisisci autorevolezza. E capisci come gestire al meglio il rapporto, perché anche la confidenza eccessiva è sbagliata.
L'attività nei cantieri è complessa. Il nostro compito è quello di dare informazioni ai lavoratori, con un occhio attento alla regolarità delle condizioni del cantiere. Ma non possiamo fermare un lavoro, non ci occupiamo degli aspetti tecnici. Anche se comunque dobbiamo seguire corsi di aggiornamento della scuola edile, sui nuovi metodi di lavoro. Non è da poco. Perché se conosci i metodi di lavoro, le macchine, riesci a seguirli meglio. Se gli operai sono lì senza un attrezzo, solo con i guanti e il badile, se conosci i processi e le fasi di lavorazione capisci meglio cosa c’è che non va, dal punto di vista della sicurezza. Certo non sono geometra o altro ma un minimo devo sapere.
Dobbiamo conoscere il cantiere e seguirlo. Ed è bello quando cominci dalle fondamenta, dagli scavi, e segui fino all’opera finita, sia che sia una casa, un ospedale, un grande centro commerciale. Vedi l’opera e il susseguirsi delle persone, quanta gente lavora. L’edilizia fortunatamente non è quel settore di farabutti e delinquenti come si vuol far credere, c’è anche una grande preparazione e professionalità. Non sono tutti manovali, gli edili, ci sono gli operai specializzati che hanno una grande esperienza da vendere.
I veri imprenditori, poi, non i caporali o quelli che fanno mercato di persone, hanno una grande capacità gestionale. I finti imprenditori si distinguono subito. Primo, perché vedono il sindacato come quella cosa che «Ah, è qui e mi fa chiudere», quindi sono già carenti di una fetta di storia; secondo, ti danno chiaramente l’impressione di aver qualcosa da nascondere. Inoltre non conoscono la cassa edile, non sanno cos’hanno pagato e cosa no, per tutto devono chiamare sempre il commercialista. Sono moltissimi, infatti, i piccoli imprenditori che si affidano ai commercialisti, che tante volte sono i veri titolari dell’azienda. Per non parlare dei prestanome, che sono tanti, e dei caporali che guadagnano 15-20 mila euro al mese, anche se poi risulta che hanno una busta paga da mille euro e magari fanno anche domanda per l’assegno familiare e la detrazione d’imposta. E chi li controlla?
Anche noi, quando veniamo a conoscenza di irregolarità e vogliamo fare una denuncia dobbiamo comunque avere le prove e i testimoni. Non è certo la paura che ti frena, ma l’esigenza di provarlo. Perché poi i lavoratori, anche nelle vertenze normali, non si presentano, accettano la mediazione e non vanno avanti. Anche perché con­tinuare a venire, per loro, significa perdere giornate di lavoro: monetizzano tutto.
Quando poi si è vinto l’appalto al ribasso, il taglio dei costi è la priorità. E quindi si cercano operai che hanno bisogno di lavorare per sopravvivere e che accettano anche condizioni al limite del pericolo.
Moltissime volte ho visto lavoratori che non usavano sistemi di protezione, che salivano sui ponteggi senza imbragatura. Allora li segnaliamo subito, al caposquadra o al geometra, ma anche al Rappresentante della sicurezza della zona e all’Asl. E ne parliamo ovviamente anche col lavoratore, solo che quelli che hanno più esperienza ti dicono: «Non ho bisogno dell’imbragatura, per fare questo tipo di lavorazione è più scomodo». Devono fare un lavoro in due ore e se glielo fai fare vestito in un modo o con un metodo diverso dicono che perdono tempo, che il capo li rimprovera. E si rifiutano. Lavorano troppo in fretta, perché sono quasi tutti a cottimo. Anche se non lo ammettono è così.
La sicurezza è una questione di costi. Ne ho visti un sacco camminare come equilibristi, a otto metri di altezza, senza protezione, per fare una tettoia. E se li richiami, ti dicono: «Non ti preoccupare, lo faccio sempre». Non è un caso se una delle cause principali di morte nei cantieri è la caduta dall’alto. Si fidano troppo di loro stessi. «Ce la faccio - dicono - non sarà per quel metro, per quel pezzo, non sarà per...», ma la disattenzione, quell’attimo in cui rischiano di perdere l’equilibrio è lì in agguato. E poi questi ponteggi senza reti, senza protezione: solo pezzi di ferro e assi. E questo sempre solo perché costa, acquistare i materiali, e costa tempo predisporre le protezioni. La priorità sono le scadenze dei lavori.
Tutto si basa sul «Dio soldo» e la sicurezza viene considerata un costo. Se non ci fosse la cassa edile tanti non avrebbero nemmeno la scarpa, il giubbino, i guanti. Lavorano sempre più in fretta, sempre di più, perché prima finiscono, prima guadagnano e riprendono a lavorare da un’altra parte. L’impresa spinge, e il lavoratore si adegua. In edilizia ci sono tantissime squadre di artigiani che vengono pagate per il lavoro fatto, la busta diventa una copertura. E chi va a verificare? Il rischio di una multa in seguito a dichiarazioni fiscali false è uno su cento. Tanto vale rischiare e pagare la multa.