domenica 17 maggio 2020

SILVIO BAITA - Filca Cisl - Lombardia

Intervista realizzata in occasione della pubblicazione del libro “Angeli senza ali. Morti bianche e sicurezza sul lavoro. Il caso Lombardia”, a cura di Costantino Corbari e Angelico Corti, Edizioni Lavoro, Roma, 2008

Norme nuove. vecchi problemi
Un problema è quello dei campi d’azione degli Rlst, che il nuovo Testo unico punta a risolvere, dando loro un ruolo più forte, un riconoscimento anche giuridico. In Lombardia, poi, come racconta Silvio Baita, segretario regionale Filca Cisl, si è fatto un ulteriore passo avanti, con l’avvio di un progetto di coordinamento di tutti i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali.

Perché questa esigenza di un coordinamento regionale?
In Lombardia gli Rlst sono una trentina, due-tre in ogni provincia, attivi ormai da una decina d’anni. Tanti, troppi perché le cose rimangano come sono. Bisogna rivedere tutto: tempi, modalità di lavoro, attività, rapporti con i lavoratori. In alcuni casi si occupano troppo delle attività burocratiche - verificano se c’è il medico in cantiere, se il piano per la sicurezza è corretto - e manca l’aspetto relazionale con i lavoratori, che sono il nostro obiettivo.
Non è così in tutte le province, ma proprio perché manca un comportamento omogeneo c’è bisogno di razionalizzare l’attività, di coordinarli meglio. Se a Cremona l’Rlst chiede un certo tipo di modulistica e a Bergamo ne chiede un’altra, all’imprenditore non va bene. Questo avviene perché gli Rlst sono stati costituiti a livello provinciale, ognuno rispetto alle esigenze che aveva. Lo stesso vale per i Cpt, i Comitati paritetici territoriali: abbiamo pensato a un coordinamento regionale, anche perché abbiano un rapporto con il Pirellone.

Cosa potrebbe fare la Regione per migliorare la sicurezza in edilizia?
Dovrebbe coordinare le Asl e prevedere tutta una serie di norme in termini di prevenzione per quanto riguarda tutti i lavori di loro competenza. Qualche anno fa abbiamo concordato alcune linee guida specifiche sul settore dell’edilizia, che però alla luce della nuova normativa andrebbero aggiornate e migliorate. L’anno scorso abbiamo concordato le linee guida per i cantieri dei lavori stradali, perché anche loro devono poter avere dei servizi igienici comodi, degli spogliatoi, un sistema minimo di acqua corrente. Anche questa è salute e sicurezza sul lavoro. Peccato che da qualche anno, ormai, non si riesca ad avere un rapporto continuo con l’amministrazione regionale.

Più ruolo agli Rlst, ma non solo. La normativa negli ultimi anni ha fatto passi avanti...
Certamente. E siamo molto soddisfatti di aver sottoscritto con l’Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori, un avviso comune che ha permesso di sviluppare attività tradotte in normative e leggi. Da quell’avviso comune nasce il Dure, il Documento unico di regolarità contributiva, che nel 2006 è diventato legge, esteso a tutti in modo sistematico con il decreto Bersani. Il Dure stabilisce che al momento in cui ti aggiudichi un appalto devi dimostrare di essere almeno in regola con i versamenti Inps, cassa edile e Inail. E quindi avere una struttura organizzativa seria. Anche il Durc, comunque, non è sufficiente se non viene stabilito il rapporto tra costo dell’opera e della manodopera. Perché se io mi faccio carico di un lavoro di un milione di euro in tre mesi, non posso dichiarare di avere solo due dipendenti, perché è evidente che per concludere l’opera dovrei utilizzare un sacco di lavoro nero. Questo rapporto tra costo de! lavoro e dell’opera si chiama congruità. Su questo il governo dovrebbe lavorare, si è impegnato a presentare dei criteri.
Sempre sul fronte dei costi, sarebbe utile che le voci di spesa per la sicurezza venissero considerate a parte nei capitolati d'appalto e che su queste non ci fosse il massimo ribasso. Quando do in appalto un lavoro con il 40% di ribasso l’azienda dove risparmia? Sulla regolarità e la sicurezza, non certo sul materiale! Certo, però, norme a parte, molto dipende dal committente. Noi abbiamo grossi Comuni che non hanno mai chiesto il Dure per verificare la regolarità dell’impresa. E dovrebbero chiederlo anche tutte le volte che devono pagare lo stato di avanzamento dei lavori, per verificare che l’impresa stia utilizzando personale suo e non in nero. Ma non lo fanno, per la logica del risparmio. E perché il Comune appaltante, se può dimostrare di aver realizzato un’opera con molto meno di quello che avrebbe dovuto, ha un bel biglietto da visita nei confronti del proprio elettorato: pazienza se poi questo va a discapito delle tutele, della sicurezza, dei diritti. Questo comunque avviene anche nel privato: si assegna il lavoro a chi fa spendere meno, senza verificare perché.

Un’altra novità importante introdotta dal decreto Bersani è l'obbligo dei cartellini di riconoscimento...
È senz’altro un’innovazione positiva, perché è vero che dove c‘è la legge c’è l’inganno, ma quando entri in cantiere almeno sai chi è presente. E se si riscontra almeno il 20% di lavoratori irregolari il cantiere viene chiuso e non viene più riaperto fino a che i lavoratori non vengono regolarizzati. La recentissima proposta di Testo unico sulla sicurezza, invece, oltre che potenziare il ruolo degli Rlst rafforza e riconosce i Comitati tecnici paritetici, che hanno il compito di verifica e di supporto a tutte le imprese, il potenziamento del ruolo del Rlst, e soprattutto prevede la revisione di quel meccanismo che serve a valutare l’idoneità dell’impresa. E qui vorremmo inserire la patente a punti, un’idea della Filca per contrastare l’eccessiva facilità con cui si diventa impresa. All’autorizzazione della Camera di commercio si dovrebbe affiancare una patente a cui, a ogni mancanza riscontrata, si tolgono punti, fino al ritiro dell'iscrizione al registro delle imprese.

Sul fronte dei controlli, com’è la situazione?
Sono insufficienti. Se ne deve occupare l’Asl, in collaborazione con gli ispettori dell’Inail, ma per un cantiere che viene controllato ce ne sono cento che sfuggono. In più, come accennavo, oggi è troppo facile diventare impresa: è sufficiente recarsi alla Camera di commercio e pagare i 400 euro per l’iscrizione per proporsi sul mercato, senza che sia richiesta nessuna verifica sulla reale capacità di fare impresa, di gestire risorse umane, di occuparsi di prevenzione e sicurezza.
Questo è stato capito dai lavoratori immigrati che per risolvere il problema del permesso di soggiorno diventano lavoratori autonomi, ma non sono formati, non hanno le conoscenze, non hanno idea di come impostare il cantiere. Il risultato è un aumento esponenziale del rischio di incidenti.

Come si procede con la formazione? È vero che se ne fa pochissima?
In quasi tutti i contratti integrativi provinciali sono previste almeno otto ore di formazione per tutti i primi ingressi, ad ogni cambio di incarico, come aggiornamento. Il punto dolente è la formazione per i lavoratori immigrati, perché arrivano in cantiere che non sanno assolutamente nulla, a partire dalla lingua. Per questo abbiamo introdotto la cartellonistica e gli opuscoli in varie lingue, ma la strada da fare è tanta. Stiamo pensando di istituire un libretto formativo per tutti i lavoratori, per registrare tutti i corsi fatti. Può dare risposte interessanti, perché la mobilità è una delle caratteristiche dei lavoratori del settore, che magari in un anno si spostano in quattro province e in questo modo potrebbero certificare al meglio le proprie competenze. L’abbiamo concordato in tutti i territori ed è in fase di preparazione.

Ci sono diversità in termini di condizioni di rischio tra territori?
Dipende dalla concentrazione di cantieri edili, perché gli incidenti avvengono ovunque per gli stessi motivi: caduta dall’alto e cedimenti degli scavi. E ovunque le vittime sono soprattutto lavoratori immigrati. Oggi il primato delle morti bianche in edilizia ce l’ha Brescia, ma è casuale. Inoltre, il lavoratore infortunato a Brescia facilmente è iscritto alla cassa edile a Como, o a Milano.

Quale può essere l’incentivo a investire in sicurezza?
L'unico deterrente è la pena. Alcuni infortuni sul lavoro sono omicidi colposi: se ti mando a lavorare a dieci metri d’altezza e non ti predispongono il ponteggio è una mia colpa, non una fatalità. Perché volontariamente so che ti sto mettendo nella condizione di rischiare la vita. Se ti metto in una buca profonda cinque-sei metri e non la proteggo, so che prima o poi il terreno potrà cedere. Ne sono consapevole e se lo faccio per risparmiare otto ore di lavoro per non mettere i parapetti devo risponderne personalmente. La pena dovrebbe essere pesante. Invece le multe sono soprattutto amministrative e anche se il decreto Bersani ha accentuato le pene, i tempi dei processi rimangono lunghissimi.

Quanto sono alte le multe?
Dipende dai casi: se non hai il cartello della sicurezza te la cavi con trenta euro, ma se non hai il ponteggio possono essere anche 20-30 mila euro. Il problema è che, data la quantità di imprese che abbiamo sul territorio, la possibilità di un controllo e quindi di una multa è minima. A volte il rischio, dal punto di vista imprenditoriale, vale la candela. Perché se anche prendo 50 mila euro di multa, magari ne ho risparmiati 150 mila prima.

Appalti e subappalti quanto incidono sul rischio infortuni?
Moltissimo. Perché ancora vengono assegnati al massimo ribasso. Questa è la logica dominante. Molti poi usano la media: le imprese si mettono d’accordo e uno spara alto, l’altro spara basso e uno in mezzo. Poi si lavora tutti e tre insieme. Il problema è che soprattutto nei privati non c’è un limite di subappaltò e tutte le fasi produttive vengono esternalizzate. Quindi in un cantiere avremo la presenza di più figure, non coordinate tra loro, che rispondono a diverse imprese. Con situazioni pa­radossali, da film tragicomico, dell’operaio che sale sul tetto per fare un lavoro e del collega sotto che gli toglie la scala per fame un altro. A volte succede, perché non c’è coordinamento nel cantiere e molto spesso la mano destra non sa quello che fa la mano sinistra. Molti dei lavoratori nei cantieri, poi, non sono edili. Sono lattonieri, falegnami, elettricisti. E non li rappresenta nessuno. Per questo noi abbiamo chiesto di rappresentarli tutti, di rappresentare il cantiere e quindi tutte le figure che vi lavorano dentro.

Com’è il rapporto con gli imprenditori?
Nonostante alcuni passi avanti è conflittuale, ancora ci vedono come dei rompiscatole. Certo tra associazioni di rappresentanza si lavora, attraverso gli organismi bilaterali abbiamo definito molti obiettivi comuni, ma poi è difficile convincere i piccoli imprenditori ad applicare le norme di sicurezza e di prevenzione. Le associazioni imprenditoriali e la cassa edile sono vittime e carnefici al tempo stesso, perché quando chiedi di presentare una denuncia insieme nella maggior parte dei casi si tirano indietro.

E con le amministrazioni pubbliche?
In tutte le opere pubbliche è previsto un direttore dei lavori, che ha il compito di controllare. E dovrebbe preoccuparsi anche di far applicare totalmente le normative che ci sono, a partire dalla richiesta del Durc. Devono verificare che l’impresa sia regolare e che i lavori siano in sicurezza. Nelle attività di controllo e prevenzione oggi sono coinvolti anche i vigili, ma non ne abbiamo visto uno andare in giro a controllare i cantieri. I Comuni hanno una grossa responsabilità sui controllori. E se nel regolamento edilizio non introducono norme che limitano l’irregolarità e la mancanza di sicurezza, è chiaro che nel momento in cui assegnano gli appalti lo fanno all’acqua di rose. Non è un caso se in Lombardia abbiamo siglato pochissimi .accordi con i Comuni. Abbiamo definito qualcosa con il prefetto, perché irregolarità vuol dire anche illegalità, ma poca cosa. A Milano invece abbiamo ottenuto risultati interessanti, abbiamo raggiunto accordi sia col Comune che con la Provincia. E ribadendo sempre la stessa cosa: dovete far applicare la normativa, al di là del coordinamento delle Asl, degli ispettorati.

In questo scenario a tinte fosche, qualche positività però dovrà pur esserci...
Negli ultimi due anni, con il Dure e il decreto Bersani, ma anche con l’ultima sanatoria, abbiamo avuto un aumento degli iscritti alla cassa edile del 23-24%, registriamo un segnale di maggiore regolarizzazione. Questo è importante, perché abbiamo la possibilità di controllare quelli che sono dentro al circuito. Ed è un’ottima cosa anche perché dove c’è legalità c’è riconoscimento dei diritti. Non riscontriamo lo stesso risultato per quanto riguarda gli infortuni, che rimangono sempre quelli. Non c’è un grande miglioramento: lo 0,2% che miglioramento è? Se oggi muoiono 128 edili anziché i 200 del 2000 non possiamo comunque rallegrarci.

E anche vero, però, che in molti casi quando gli strumenti di protezione ci sono i lavoratori si rifiutano di usarli...
È vero, il problema è anche culturale. Molti lavoratori si rifiutano di mettere l’elmetto perché fa caldo, dà fastidio, perché lo ritengono inutile. Altri invece non vogliono mettere le cinture di sicurezza perché rallentano il lavoro. L’abitudine «l'ho sempre fatto così» non ti spinge a usare sistemi di sicurezza. E molti hanno anche un atteggiamento superficiale. Però questo è un problema educativo. E l’educazione alla sicurezza deve essere portata avanti anche da parte dell’imprenditore: se il lavoratore non mette l’elmetto, la cintura, deve obbligarlo a farlo, non c’è alternativa. E invece nulla. Non dimentichiamo che l’edilizia è un settore in cui c’è una forte presenza di cottimismo: gli operai devono produrre il più possibile, non possono perdere tempo. Il risultato? Un operaio edile guadagna fino a 1.600 euro al mese, un cottimista tre volte di più.
Il caporalato poi è un problema non secondario, questo modo di impiegare manodopera improvvisata è un fattore di insicurezza grandissimo.