Intervista realizzata in occasione della pubblicazione del libro “Angeli senza ali. Morti bianche e sicurezza sul lavoro. Il caso Lombardia”, a cura di Costantino Corbari e Angelico Corti, Edizioni Lavoro, Roma, 2008
Norme nuove. vecchi problemi
Un problema è quello dei campi d’azione degli
Rlst, che il nuovo Testo unico punta a risolvere, dando loro un ruolo più
forte, un riconoscimento anche giuridico. In Lombardia, poi, come racconta
Silvio Baita, segretario regionale Filca Cisl, si è fatto un ulteriore passo
avanti, con l’avvio di un progetto di coordinamento di tutti i rappresentanti
dei lavoratori per la sicurezza territoriali.
Perché questa
esigenza di un coordinamento regionale?
In Lombardia gli Rlst sono una trentina,
due-tre in ogni provincia, attivi ormai da una decina d’anni. Tanti, troppi
perché le cose rimangano come sono. Bisogna rivedere tutto: tempi, modalità di
lavoro, attività, rapporti con i lavoratori. In alcuni casi si occupano troppo
delle attività burocratiche - verificano se c’è il medico in cantiere, se il
piano per la sicurezza è corretto - e manca l’aspetto relazionale con i
lavoratori, che sono il nostro obiettivo.
Non è così in tutte le province, ma proprio
perché manca un comportamento omogeneo c’è bisogno di razionalizzare l’attività,
di coordinarli meglio. Se a Cremona l’Rlst chiede un certo tipo di modulistica
e a Bergamo ne chiede un’altra, all’imprenditore non va bene. Questo avviene
perché gli Rlst sono stati costituiti a livello provinciale, ognuno rispetto
alle esigenze che aveva. Lo stesso vale per i Cpt, i Comitati paritetici
territoriali: abbiamo pensato a un coordinamento regionale, anche perché
abbiano un rapporto con il Pirellone.
Cosa potrebbe fare la
Regione per migliorare la sicurezza in edilizia?
Dovrebbe
coordinare le Asl e prevedere tutta una serie di norme in termini di
prevenzione per quanto riguarda tutti i lavori di loro competenza. Qualche anno
fa abbiamo concordato alcune linee guida specifiche sul settore dell’edilizia,
che però alla luce della nuova normativa andrebbero aggiornate e migliorate.
L’anno scorso abbiamo concordato le linee guida per i cantieri dei lavori
stradali, perché anche loro devono poter avere dei servizi igienici comodi,
degli spogliatoi, un sistema minimo di acqua corrente. Anche questa è salute e
sicurezza sul lavoro. Peccato che da qualche anno, ormai, non si riesca ad
avere un rapporto continuo con l’amministrazione regionale.
Più ruolo agli Rlst, ma
non solo. La normativa negli ultimi anni ha fatto passi avanti...
Certamente.
E siamo molto soddisfatti di aver sottoscritto con l’Ance, l’Associazione
nazionale dei costruttori, un avviso comune che ha permesso di sviluppare
attività tradotte in normative e leggi. Da quell’avviso comune nasce il Dure,
il Documento unico di regolarità contributiva, che nel 2006 è diventato legge,
esteso a tutti in modo sistematico con il decreto Bersani. Il Dure stabilisce
che al momento in cui ti aggiudichi un appalto devi dimostrare di essere almeno
in regola con i versamenti Inps, cassa edile e Inail. E quindi avere una
struttura organizzativa seria. Anche il Durc, comunque, non è sufficiente se
non viene stabilito il rapporto tra costo dell’opera e della manodopera. Perché
se io mi faccio carico di un lavoro di un milione di euro in tre mesi, non
posso dichiarare di avere solo due dipendenti, perché è evidente che per
concludere l’opera dovrei utilizzare un sacco di lavoro nero. Questo rapporto
tra costo de! lavoro e dell’opera si chiama congruità. Su questo il governo
dovrebbe lavorare, si è impegnato a presentare dei criteri.
Sempre
sul fronte dei costi, sarebbe utile che le voci di spesa per la sicurezza
venissero considerate a parte nei capitolati d'appalto e che su queste non ci
fosse il massimo ribasso. Quando do in appalto un lavoro con il 40% di ribasso
l’azienda dove risparmia? Sulla regolarità e la sicurezza, non certo sul
materiale! Certo, però, norme a parte, molto dipende dal committente. Noi
abbiamo grossi Comuni che non hanno mai chiesto il Dure per verificare la regolarità
dell’impresa. E dovrebbero chiederlo anche tutte le volte che devono pagare lo
stato di avanzamento dei lavori, per verificare che l’impresa stia utilizzando
personale suo e non in nero. Ma non lo fanno, per la logica del risparmio. E
perché il Comune appaltante, se può dimostrare di aver realizzato un’opera con
molto meno di quello che avrebbe dovuto, ha un bel biglietto da visita nei
confronti del proprio elettorato: pazienza se poi questo va a discapito delle
tutele, della sicurezza, dei diritti. Questo comunque avviene anche nel
privato: si assegna il lavoro a chi fa spendere meno, senza verificare perché.
Un’altra novità
importante introdotta dal decreto Bersani è l'obbligo dei cartellini di
riconoscimento...
È
senz’altro un’innovazione positiva, perché è vero che dove c‘è la legge c’è
l’inganno, ma quando entri in cantiere almeno sai chi è presente. E se si
riscontra almeno il 20% di lavoratori irregolari il cantiere viene chiuso e non
viene più riaperto fino a che i lavoratori non vengono regolarizzati. La
recentissima proposta di Testo unico sulla sicurezza, invece, oltre che potenziare
il ruolo degli Rlst rafforza e riconosce i Comitati tecnici paritetici, che
hanno il compito di verifica e di supporto a tutte le imprese, il potenziamento
del ruolo del Rlst, e soprattutto prevede la revisione di quel meccanismo che
serve a valutare l’idoneità dell’impresa. E qui vorremmo inserire la patente a
punti, un’idea della Filca per contrastare l’eccessiva facilità con cui si
diventa impresa. All’autorizzazione della Camera di commercio si dovrebbe
affiancare una patente a cui, a ogni mancanza riscontrata, si tolgono punti,
fino al ritiro dell'iscrizione al registro delle imprese.
Sul fronte dei
controlli, com’è la situazione?
Sono
insufficienti. Se ne deve occupare l’Asl, in collaborazione con gli ispettori
dell’Inail, ma per un cantiere che viene controllato ce ne sono cento che
sfuggono. In più, come accennavo, oggi è troppo facile diventare impresa: è
sufficiente recarsi alla Camera di commercio e pagare i 400 euro per
l’iscrizione per proporsi sul mercato, senza che sia richiesta nessuna verifica
sulla reale capacità di fare impresa, di gestire risorse umane, di occuparsi di
prevenzione e sicurezza.
Questo
è stato capito dai lavoratori immigrati che per risolvere il problema del
permesso di soggiorno diventano lavoratori autonomi, ma non sono formati, non
hanno le conoscenze, non hanno idea di come impostare il cantiere. Il risultato
è un aumento esponenziale del rischio di incidenti.
Come si procede con
la formazione? È vero che se ne fa pochissima?
In
quasi tutti i contratti integrativi provinciali sono previste almeno otto ore
di formazione per tutti i primi ingressi, ad ogni cambio di incarico, come
aggiornamento. Il punto dolente è la formazione per i lavoratori immigrati,
perché arrivano in cantiere che non sanno assolutamente nulla, a partire dalla
lingua. Per questo abbiamo introdotto la cartellonistica e gli opuscoli in
varie lingue, ma la strada da fare è tanta. Stiamo pensando di istituire un
libretto formativo per tutti i lavoratori, per registrare tutti i corsi fatti.
Può dare risposte interessanti, perché la mobilità è una delle caratteristiche
dei lavoratori del settore, che magari in un anno si spostano in quattro
province e in questo modo potrebbero certificare al meglio le proprie
competenze. L’abbiamo concordato in tutti i territori ed è in fase di preparazione.
Ci sono
diversità in termini di condizioni di rischio tra territori?
Dipende
dalla concentrazione di cantieri edili, perché gli incidenti avvengono ovunque
per gli stessi motivi: caduta dall’alto e cedimenti degli scavi. E ovunque le
vittime sono soprattutto lavoratori immigrati. Oggi il primato delle morti
bianche in edilizia ce l’ha Brescia, ma è casuale. Inoltre, il lavoratore
infortunato a Brescia facilmente è iscritto alla cassa edile a Como, o a
Milano.
Quale può essere
l’incentivo a investire in sicurezza?
L'unico
deterrente è la pena. Alcuni infortuni sul lavoro sono omicidi colposi: se ti
mando a lavorare a dieci metri d’altezza e non ti predispongono il ponteggio è
una mia colpa, non una fatalità. Perché volontariamente so che ti sto mettendo
nella condizione di rischiare la vita. Se ti metto in una buca profonda
cinque-sei metri e non la proteggo, so che prima o poi il terreno potrà cedere.
Ne sono consapevole e se lo faccio per risparmiare otto ore di lavoro per non
mettere i parapetti devo risponderne personalmente. La pena dovrebbe essere
pesante. Invece le multe sono soprattutto amministrative e anche se il decreto
Bersani ha accentuato le pene, i tempi dei processi rimangono lunghissimi.
Quanto sono alte le
multe?
Dipende
dai casi: se non hai il cartello della sicurezza te la cavi con trenta euro, ma
se non hai il ponteggio possono essere anche 20-30 mila euro. Il problema è
che, data la quantità di imprese che abbiamo sul territorio, la possibilità di
un controllo e quindi di una multa è minima. A volte il rischio, dal punto di
vista imprenditoriale, vale la candela. Perché se anche prendo 50 mila euro di
multa, magari ne ho risparmiati 150 mila prima.
Appalti e subappalti quanto incidono sul
rischio infortuni?
Moltissimo.
Perché ancora vengono assegnati al massimo ribasso. Questa è la logica
dominante. Molti poi usano la media: le imprese si mettono d’accordo e uno
spara alto, l’altro spara basso e uno in mezzo. Poi si lavora tutti e tre
insieme. Il problema è che soprattutto nei privati non c’è un limite di subappaltò
e tutte le fasi produttive vengono esternalizzate. Quindi in un cantiere avremo
la presenza di più figure, non coordinate tra loro, che rispondono a diverse
imprese. Con situazioni paradossali, da film tragicomico, dell’operaio che
sale sul tetto per fare un lavoro e del collega sotto che gli toglie la scala
per fame un altro. A volte succede, perché non c’è coordinamento nel cantiere e
molto spesso la mano destra non sa quello che fa la mano sinistra. Molti dei
lavoratori nei cantieri, poi, non sono edili. Sono lattonieri, falegnami,
elettricisti. E non li rappresenta nessuno. Per questo noi abbiamo chiesto di
rappresentarli tutti, di rappresentare il cantiere e quindi tutte le figure che
vi lavorano dentro.
Com’è il rapporto con
gli imprenditori?
Nonostante
alcuni passi avanti è conflittuale, ancora ci vedono come dei rompiscatole.
Certo tra associazioni di rappresentanza si lavora, attraverso gli organismi
bilaterali abbiamo definito molti obiettivi comuni, ma poi è difficile
convincere i piccoli imprenditori ad applicare le norme di sicurezza e di
prevenzione. Le associazioni imprenditoriali e la cassa edile sono vittime e
carnefici al tempo stesso, perché quando chiedi di presentare una denuncia
insieme nella maggior parte dei casi si tirano indietro.
E con le
amministrazioni pubbliche?
In
tutte le opere pubbliche è previsto un direttore dei lavori, che ha il compito
di controllare. E dovrebbe preoccuparsi anche di far applicare totalmente le
normative che ci sono, a partire dalla richiesta del Durc. Devono verificare
che l’impresa sia regolare e che i lavori siano in sicurezza. Nelle attività di
controllo e prevenzione oggi sono coinvolti anche i vigili, ma non ne abbiamo
visto uno andare in giro a controllare i cantieri. I Comuni hanno una grossa
responsabilità sui controllori. E se nel regolamento edilizio non introducono
norme che limitano l’irregolarità e la mancanza di sicurezza, è chiaro che nel
momento in cui assegnano gli appalti lo fanno all’acqua di rose. Non è un caso
se in Lombardia abbiamo siglato pochissimi .accordi con i Comuni. Abbiamo
definito qualcosa con il prefetto, perché irregolarità vuol dire anche
illegalità, ma poca cosa. A Milano invece abbiamo ottenuto risultati
interessanti, abbiamo raggiunto accordi sia col Comune che con la Provincia. E ribadendo sempre la stessa cosa: dovete far
applicare la normativa, al di là del coordinamento delle Asl, degli
ispettorati.
In questo scenario a
tinte fosche, qualche positività però dovrà pur esserci...
Negli
ultimi due anni, con il Dure e il decreto Bersani, ma anche con l’ultima
sanatoria, abbiamo avuto un aumento degli iscritti alla cassa edile del 23-24%,
registriamo un segnale di maggiore regolarizzazione. Questo è importante,
perché abbiamo la possibilità di controllare quelli che sono dentro al circuito.
Ed è un’ottima cosa anche perché dove c’è legalità c’è riconoscimento dei
diritti. Non riscontriamo lo stesso risultato per quanto riguarda gli
infortuni, che rimangono sempre quelli. Non c’è un grande miglioramento: lo
0,2% che miglioramento è? Se oggi muoiono 128 edili anziché i 200 del 2000 non
possiamo comunque rallegrarci.
E anche vero, però,
che in molti casi quando gli strumenti di protezione ci sono i lavoratori si
rifiutano di usarli...
È vero,
il problema è anche culturale. Molti lavoratori si rifiutano di mettere
l’elmetto perché fa caldo, dà fastidio, perché lo ritengono inutile. Altri
invece non vogliono mettere le cinture di sicurezza perché rallentano il
lavoro. L’abitudine «l'ho sempre fatto così» non ti spinge a usare sistemi di
sicurezza. E molti hanno anche un atteggiamento superficiale. Però questo è un
problema educativo. E l’educazione alla sicurezza deve essere portata avanti
anche da parte dell’imprenditore: se il lavoratore non mette l’elmetto, la
cintura, deve obbligarlo a farlo, non c’è alternativa. E invece nulla. Non
dimentichiamo che l’edilizia è un settore in cui c’è una forte presenza di
cottimismo: gli operai devono produrre il più possibile, non possono perdere
tempo. Il risultato? Un operaio edile guadagna fino a 1.600 euro al mese, un
cottimista tre volte di più.
Il caporalato
poi è un problema non secondario, questo modo di impiegare manodopera improvvisata
è un fattore di insicurezza grandissimo.