giovedì 9 aprile 2020

PIERANGELO FARINA - Fim, Cisl - Lecco

Trascrizione testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lo sciopero di Giacomo. Un secolo di solidarietà operaia a Lecco e nel suo territorio”, di Costantino Corbari, Periplo Edizioni, Lecco, 1995 

Sono nato Lecco il 28.12.1938. Abitante Lecco. Ho cominciato a lavorare in piccole fabbriche, subito dopo le elementari, poi alla Badoni quando avevo 18 anni, nel ‘56, una delle fabbriche storiche di carpenteria. Lì molto velocemente sono diventato membro della commissione interna, probabilmente anche perché avevo avuto in commissione interna prima il fratello e prima ancora il padre. C'era una tradizione in famiglia. Anche se mio padre era molto più impegnato nelle Acli che nel sindacato. Faceva parte dei raggi bianchi. 

Sono uscito dalla Badoni nel novembre del '68. Sono venuto nei meccanici. Allora c'erano Caviglioli e Gilardi. La Fim era guidata da una specie di triumvirato. Poi la cosa si è chiarita con Caviglioli e poi con Gilardi. Segretario generale della Cisl era Nardini. Io ho iniziato a far l'operatore nella zona del lago e della Brianza. Noi la chiamavamo la pipa: il lago era la parte lunga e la Brianza era il fornello. Poi ho fatto altre esperienze in Valsassina e altre zone, poi sono venuto a Lecco. Quando Gilardi è diventato segretario dell'Unione io sono diventato segretario della Fim. Era il 1976. Poi nell'81 sono diventato segretario della Cisl fino al 1989. Sono passato al Consorzio cooperative casa, fino al 1992, quando sono andato in pensione. Nel 1993, al congresso, sono stato eletto segretario di pensionati. 

Il primo avvenimento importante nei rapporti interni è stata una dura vertenza sul problema dei cottimi nel 1965 e si arrivati ad uno scontro molto duro, con l'idea di licenziare alcuni lavoratori. Allora abbiamo messo sulla strada, che una delle strade principali di Lecco, di transito con la Valsassina, una tenda che impediva il passaggio, dove si faceva presenza. La vertenza è andata avanti per parecchi giorni. Era abbastanza una novità perché allora non era ancor avviata la contrattazione aziendale, con scontri di questo tipo. E' stato un trauma per la città. Tant'è vero che c'era stato un coinvolgimento iella città. Le Acli distribuirono dei volantini. Si era creato un clima di attesa intorno a questa vertenza. Si è conclusa però senza l'intervento delle organizzazioni sindacali ufficiali perché non erano riconosciute e si è fatto un accordo tra azienda e commissione interna. Io ero un novellino in materia, ma avevo giocato la parte della Cisl che era minoritaria alla Badoni. La vertenza era sul cottimo, ma poi si era incattivita, c'era anche l'ipotesi di buttare fuori delle persone, ma poi era rientrato tutto e abbiamo trovato una soluzione. 

Poi successivamente si è passati alla contrattazione del P su H, si è cioè cercato di passare dal cottimo individuale a una misurazione della produzione a livello collettivo, cercando di omogeneizzare le produzioni. Questo avvenne dopo il contratto nazionale del '66. 

Il contratto del ‘66 è stato un contratto che è durato moltissimo, con tanti scioperi. Economicamente ha portato a casa non molto. Una delle cose che si erano acquisite era il diritto alla delega. Questo è stato un fatto positivo perché prima c'era l'assegno, bisognava andare ogni tre mesi a raccogliere le quote. Inoltre, in questo contratto, si è costruita la prima possibilità di contrattazione aziendale sul premio. Era ben definito che cosa si poteva contrattare a livello aziendale. Le premesse erano inserite in linea di principio nel contratto nazionale e poi sperimentate nelle fabbriche. Mentre prima la contrattazione aziendale era esclusa e non c'era il riconoscimento del sindacato a trattare. Anche se le commissioni interne già facevano i loro accordi ed erano in rapporto con il sindacato. 

Lecco è stato tra i primi territori che ha fatto le prime esperienze sul nuovo inquadramento unico. Quella sicuramente è stata una cosa per cui noi abbiamo avviato il discorso anche a livello nazionale. 

Le vertenze sui cottimi invece erano una iniziativa diffusa. 

Le iniziative sull'inquadramento unico sono degli anni ‘70, dopo il contratto del '69, dove c'era la necessità di rompere un certo meccanismo di divisione delle categorie, in una fase in cui il lavoro era diventato molto ripetitivo. Per cui il problema era di creare dei meccanismi nuovi di classificazione. 

Questa idea si sviluppa a Lecco probabilmente perché c'era un tipo di attività industriale che aveva queste caratteristiche e stava cambiando proprio in questo modo e poi probabilmente qui c'è stato un livello di dirigenza abbastanza buono. Con la presenza di dirigenti, come Caviglioli, che aveva legami con il nazionale. Da Lecco alcuni erano passati a ruoli dirigenti superiori, anche nella Fiom, e questo aveva facilitato la cosa. Poi probabilmente anche per una strategia nazionale. Allora si era ipotizzato in qualche modo di fare le sperimentazioni e a Lecco, con Bologna e forse qualche altro territorio, si era tentato di fare queste cose. 

Per riuscire nella nostra idea il meccanismo che abbiamo seguito negli anni ‘70 era quello di andare subito a fare degli accordi con due o tre fabbriche, dove magari non c'era nemmeno l'intervento diretto dell'Unione industriali. Ad esempio, la prima sperimentazione si faceva al Tubettificio Ligure che era una fabbrica un po’ anomala. Talmente anomala che permetteva la contrattazione ma rischiava di essere un po’ troppo anomala da non essere utile per creare la generalizzazione. Poi si faceva la Sae, la Badoni, il Caleotto. Si sceglievano quelle tre, quattro fabbriche sulle quali studiare la prima impostazione e dove interveniva il gruppo dirigente provinciale. Poi su quella impostazione si cercava di generalizzare. 

Anche le aziende tutto sommato si mostrarono disponibili. Probabilmente perché l'attività tirava. Ad esempio alla Sae, prima di riuscire ad entrare con forza come sindacato, c'erano trattamenti economici per cui tutti i lavoratori ci volevano andare. Perché probabilmente allora la produzione e il valore aggiunto che si realizzava, in particolare sulla carpenteria, era molto alto. Quindi le aziende andavano così bene che erano disponibili e ci si è trovati anche di fronte ad una azienda che giocava a concedere di più di quello che chiedeva il sindacato. 

Il sindacato si stava affermando e le aziende, cogliendo questo fatto nuovo, lo tenevano come interlocutore e avevano quindi anche interesse a valorizzarlo negli accordi. C'erano altre che addirittura tendevano a fare la politica del dire noi siamo più bravi del sindacato per continuare nell'idea del paternalismo che c'era prima. Probabilmente hanno giocato tanti di questi fattori. Tutto sommato devo dire che non c'è stata una opposizione neanche da parte dell'Unione industriali. Probabilmente anche lei giocava un ruolo, di fatto fungeva da supporto alle aziende anche se ufficialmente lei non c'era per ragioni di principio. Questo nella fase dal '66 al '72. 

Di fatto poi con lo Statuto dei lavoratori e il diritto alla contrattazione le cose si sono codificate. In questo senso è stato importantissimo, durante il contratto del ‘69, la scelta di anticipare i contenuti dello Statuto dei lavoratori con l'ingresso dei sindacalisti nelle aziende. Questo avvenne a Lecco come in tutte le parti d'Italia. Da noi è stato un fatto clamoroso. Lo stesso giorno, in tutte le fabbriche del territorio i lavoratori uscirono dalla fabbrica, presero il sindacalista e lo portarono dentro la fabbrica a fare l'assemblea. E' stato un modo di anticipare lo statuto dei lavoratori nel diritto dei sindacalisti ad entrare in fabbrica. Sino a quel momento si volantinava fuori dalle fabbriche, si contattavano gli attivisti fuori dai cancelli e si raccoglieva la gente quando usciva per fare i comizi, le assemblee, per spiegare, ecc. Allora funzionavano anche le organizzazioni nel senso che c’erano le cellule aziendali della Cisl e della Cgil e quindi c'era una attività di organizzazione forte. 

Dal ‘60 al ‘65 ogni vertenza era una lotta dura. La gente quando scioperava doveva star fuori dalla fabbrica. Arrivava la polizia. Bisognava fare i fuochi per tenere li la gente. Bisognava anche caricare la gente. Ma credo che ci sia sempre stato un certo controllo. E' chiaro che se c'era in giro un corteo di persone in sciopero e si trovavano davanti fabbriche che lavoravano, qualche sassaiola c'è stata. 

Fatti sul filo della legalità ci sono stati, ci sono stati persino degli arresti di sindacalisti, ma questa è la storia del sindacato in quegli anni difficili dove il sindacato doveva farsi conoscere. 

Il processo di graduale sensibilizzazione e partecipazione è una esperienza che è stata vissuta in quasi tutte le fabbriche. La stessa Sae, negli anni '66, è partita con picchettaggi di persone che venivano coi pullman da Milano, perché in quella fabbrica c'erano condizioni così favorevoli che nessuno scioperava. Lì il paternalismo non so neanche se era la parola giusta, perché lì non c'è il paternalismo tradizionale del padrone che conosce tutti, che vive nel territorio, che è radicato con l'ambiente e la gente. Lì era un paternalismo legato proprio al fatto di avere tanti soldi. Quindi pagavano per tenerli buoni. 

Questo passaggio o simili è stato fatto in quasi tutte le fabbriche lecchesi, finché non c'era una buona organizzazione sindacale fatta da attivisti dentro la fabbrica e quindi riuscivano a lavorare all'interno. Le prime strutture organizzative, in qualche caso anche unitarie, che si sono costruite nelle fabbriche erano tutte la conseguenza di picchettaggi e di persone liberate dalla paura di dovere entrare, poi diventavano anche attivisti. Era un meccanismo di questo tipo. La gente non è che fosse contraria alle idee e alle proposte del sindacato, solo che c'era paura, c'era la cultura che considerava il sindacato violento, che rompeva gli equilibri. E' stato sufficiente mettere in moto un meccanismo di questo tipo che ha creato un'area di consenso e di attivisti i quali hanno propagato questa possibilità. E questo è stato un grande merito di tutto il gruppo dirigente sindacale. 

Ci sono state fabbriche dove siamo andati a tirare pomodori, i cachi. Ad esempio alla Promimet, una fabbrica tutta di donne. Tener fuori le ragazze e farle diventare combattive tirando i cachi contro i capetti che entravano, che normalmente anche nelle fabbriche di donne erano tutti uomini. Quindi donne contro uomini. Alla Fiocchi sono successe le stesse cose e poi ci sono state delle denunce. In qualche modo tutte le fabbriche sono state un po’ svegliate in questa direzione. Anche a Santa Maria Hoè, alla stessa Bessel, si sono dovuti fare i picchettaggi. Poi questo processo ha creato delle fabbriche leader rispetto alle altre. Un processo che dagli anni ‘60 in avanti si è costruito un po’ in questo modo. 

Fino a metà degli anni ‘60 si pensava che il sindacato era il sindacato rosso. Negli anni successivi c'era la sorpresa di vedere che l'anima di tutte queste iniziative era la Cisl. La Cgil era ancora in gran parte fatta di quadri che venivano dalla resistenza, la Cisl invece aveva tutta gente giovane e ci accusavano di essere la stessa cosa. Durante la vertenza Badoni, il capo del personale, Pascucci, accusò la Chiesa, scrivendolo su un giornale locale, il Resegone, di sostenere i comunisti bianchi che oramai facevano l'insurrezione. 

Anche il mondo della Chiesa era diviso. C'era quello più attento, come le Acli, che favoriva e caldeggiava. Ma quanta difficoltà a trovare degli spazi per andare nelle parrocchie a fare riunioni, perché nei parroci più giovani c'era attenzione ma c'era anche il mondo cattolico che considerava questo fenomeno come stravolgente. 

Probabilmente gli anni ‘70 sono stati quelli in cui è cambiata una cultura complessiva del paese ma negli anni ‘60 c' è stata una fase in cui si è costruito per arrivare lì. E' evidente che si facevano alcune cose per costruire un clima alternativo al precedente, ma fatto sempre tenendo conto che bisognava stare attenti perché l'arresto, la minaccia c'erano sempre. La capacità dei gruppi dirigenti era anche quella di costruire la disponibilità della gente a fare i picchetti, le lotte ma poi anche di controllarli. 

Vertenza Metalfar di Bosisio. Questa era una azienda di bulloneria, una forgia, dove si facevano sempre straordinari e si lavoravano un sacco di ore. Questa vicenda vede coinvolto Airoldi che era il capo degli studenti ma che poi è entrato nel sindacato. 

Nel contratto del ‘69, ogni settimana, il venerdì e il sabato si scioperava contro gli straordinari e si cominciava con i picchettaggi. Stabilito che ormai lo sciopero nelle grosse fabbriche si faceva senza problemi, ci si dava appuntamento e si formava il corteo delle macchine con 100, 150 persone e poi si faceva il giro delle zone delle piccole fabbriche dove si lavorava. Però, normalmente, si mandavano avanti due, tre persone per suonare i campanelli e avvertire "attenzione sta arrivando il picchetto per cui, se ce dentro della gente, fatela uscire per evitare problemi". Questo perché se uscivano ci risolvevano il problema in un modo tranquillo. Un giorno, probabilmente c'era già stata qualche provocazione nelle occasioni precedenti, sono usciti gli operai, hanno preso Airoldi che era li con tre o quattro persone ad avvertire che stava arrivando il corteo, e invece di spaventarsi hanno fatto spaventare il sindacalista e l'hanno minacciato di buttarlo nei forni. L'hanno portato dentro e lo hanno fatto spaventare. Airoldi allora era sindacalista della Fiom alle prime armi. Poi la cosa si è saputa. Allora i lavoratori sono andati davanti alla fabbrica e hanno fatto un po’ di casino fuori. Ma il giorno dopo, invece, questi sono usciti, a capo del corteo ero io in questo caso, venivamo giù con una colonna e ci eravamo già fermati in alcune fabbriche di Galbiate, gli operai sono usciti con delle sbarre e in questo caso non hanno più voluto solo minacciare e hanno picchiato sulle macchine e quelli che erano dentro hanno rischiato non poco. 

A questo punto c'è stato un consiglio del sindacato e si è deciso di fare il lunedì lo sciopero generale della zona e di portare i lavoratori di tutte le fabbriche davanti alla Metalfar. La dimostrazione è stata una scena da far west perché lì c'era una scarpata ed era piena di carabinieri e dì polizia, sembrava di vedere la Calabria o la Sardegna e dall'altra parte tutta la gente. Poi c'era lì un bar. Hanno cominciato a dire che era di un parente del proprietario e hanno cominciato ad entrare a consumare e non pagava più nessuno "Tanto paga Farina". Questo, ad un certo punto, visto la malaparata ha preso il motorino ed è scappato per i campi inseguito dalla gente. Ci saranno state almeno cinquemila persone. I lavoratori hanno smesso di lavorare e sono usciti. Abbiamo dovuto fare un camminamento per non farli picchiare troppo. Qualche pedata l'hanno presa e lì la cosa si è conclusa. Ma il fatto ha avuto così risonanza nel territorio che da quel momento anche le piccole fabbriche, i padroni, telefonavano al sindacato per sapere quando c'era lo sciopero perché mandavano fuori i lavoratori. Poi magari li facevano lavorare di notte, ma quando c'era lo sciopero erano tutti fuori. 

Nella fabbrica i dipendenti erano una quarantina. 

Quando noi abbiamo costruito i consigli di fabbrica abbiamo cercato di costruire dei consigli d'istituto, dando la stessa impostazione, che non poteva essere. Dei rapporti con gli studenti in modo organico non ce ne furono. Poi loro partecipavano ai nostri cortei ed erano anche loro elementi trainanti, ma che ci sia stata una simbiosi tra operi e studenti, no. I gruppi extraparlamentari c'erano, ma a mio parere hanno più che altro favorito la venuta dei lavoratori al sindacato, ma non hanno mai avuto un ruolo. Qualche volte hanno cercato di prendere la testa di qualche manifestazione, ma venivano subito isolati. Spesso erano loro quelli che per primi si sedevano in mezzo alla strada per bloccare il traffico, anche al di là delle indicazioni. Ma in genere abbiamo sempre avuto un buon controllo. A mio parere sono serviti di più sul piano culturale a provocare elementi di discussione più che di provocazione. Comunque anche i gruppi stavano dentro l'alveo di questo movimento sindacale che stava prendendo un ruolo forte dentro la società oltre che nella fabbrica. 

Giulio Foi. Lui come incarico sindacale faceva l'ufficio vertenze e contemporaneamente seguiva i trasporti, una di quelle categorie un po’ marginali rispetto ad una realtà come la nostra soprattutto metalmeccanica. Il clima era quello ricordato. Il concetto è lo stesso per quanto riguarda la Metalfar. Non è possibile per un sindacato che sta diventando così importante accettare che si arrivi, nel libero esercizio dello sciopero, a mettere in galera il sindacalista, questo indipendentemente da ciò che era effettivamente accaduto. Allora si è organizzata la manifestazione. C'era una marea di gente. Ma in quel momento, al di là dell'organizzazione, riusciva tutto. Siamo andati giù, si è parlamentato un po’ - Nardini per la Cisl e Voltolini per la Cgil - e poi lo hanno rilasciato. 

Negli anni '70 l'idea del sindacato era quella di realizzare i consigli di zona, cioè estendere l'esperienza dei consigli di fabbrica anche sul territorio e si sono fatte vertenze. Sono state fatte vertenze sui trasporti, sulle tariffe. Erano locali, ma in realtà erano iniziative diffuse anche altrove. Forse la cosa più eclatante che abbiamo fatto noi è stata quella degli asili nido. Ma perché? Perché l'interlocutore era ancora la fabbrica. Si concordava con l'azienda e poi si chiedeva al Comune di gestire le risorse che le aziende versavano per fare gli asili nido. Per un certo periodo di tempo diverse aziende hanno versato questi soldi, poi la cosa adagio adagio è morta, perché non tutte le aziende versavano, gradatamente il clima è cambiato. Ufficialmente poi gli industriali avevano cominciato a dire che questi fondi erano una tassa aggiuntiva sul lavoro. I Comuni avevano i loro problemi per fare i piani. 

Ci siamo occupati degli orari dei treni per i pendolari. L'iniziativa era stata realizzata dalla Fim con le Acli. Abbiamo fatto alcuni blocchi di treni dentro le stazioni, attorno al ‘70, ci eravamo poi collegati con un comitato i pendolari ed eravamo riusciti a fare degli accordi per cambiare gli orari dei treni pendolari. 

Mi ricordo l'esperienza della 167 a Mandello dove sono arrivati i contadini con le falci per difendere la loro terra. 

Su questi temi noi volevamo fare tutto con un approccio vertenziale ma con le amministrazioni era praticamente impossibile. I tempi sono più lunghi, le mediazioni ci devono essere. Questo è anche il motivo per cui non hanno decollato i consigli di zona, non solo a Lecco. 

I primi segni di crisi dell'industria lecchese li abbiamo avuti nel ‘76, ‘77. Ci sono state le prime operazioni di ristrutturazione. Si è cominciato ad usare la legge Visentini, che permetteva la ricapitalizzazione delle aziende. Le prime crisi furono di riorganizzazione dei settori, di ristrutturazioni aziendali. Lecco era basato su una industria famigliare, anche le maggiori. Erano attività artigianali che si erano ingrossate nel tempo. Tra l'altro, con questa caratteristica, che ogni centro aveva la sua grossa azienda, con il suo titolare che era una autorità. A Oggiono c'era la Carniti, a Lecco c'era la Badoni, a Dervio la Redaelli, a Mandello la Guzzi. 

Probabilmente la fase di sviluppo sindacale degli anni '70 ha sollecitato la necessità di riorganizzazione sia per il premere della concorrenza, sia per ridurre i costi. La manodopera costava di più perché avevamo fatto contrattazione. Negli anni ‘75, ‘80 quindi sono state riorganizzazioni aziendali, dove si abbandonavano in genere le produzioni più vecchie. Noi l'accusa che facevamo sempre era che non si inserivano nuove produzioni, invece loro tendevano a rendere più produttive le produzioni che pensavano di portare avanti, di renderle più automatizzate, l'informatica. L'accusa era di razionalizzare l'esistente e di non pensare al nuovo. 

In questa situazione, le fabbriche più deboli saltavano. Abbiamo cominciato con la Camiti di Oggiono, poi la Fornimpianti che poi si chiamò De Bartolomeis. 

Forse con la Fornimpianti è la prima operazione fatta per un discorso di territorio. Loro avevano il problema che i grandi trasporti, gasometri e serbatoi grandissimi, passare da Lecco cominciava a diventare difficile. Allora la prima ipotesi è stata quella di spostarsi ad Ambivere, nella bergamasca. Inizialmente lo spostamento nasceva dalle difficoltà, non tanto dalla possibilità di fare un affare speculativo sull'area, poi a mio parere successivamente il fatto che si liberasse un'area nel centro di Lecco ha fatto nascere molti interessi. Questo avveniva a fine '80. Anche la Sae comincia ad abbandonare alcune attività. 

Il fenomeno delle ristrutturazioni aziendali è diffuso, ma Lecco ha delle specificità. Sicuramente una è la scomparsa delle famiglie. Con la Visentini è stato ufficializzato il passaggio delle aziende dalle famiglie tradizionali al capitale azionario, che poteva essere ancora della famiglia, ma poteva essere anche esterno. Un processo di crescita, quindi, un processo positivo, ma che spogliava il territorio lecchese da uno degli elementi che lo caratterizzava. 

Perché una battaglia fatta negli anni '60 assumeva immediatamente questa dimensione, perché il personaggio era conosciuto. Il fatto che la città si schierava in parte a favore e in parte contro, tutti si sentivano coinvolti anche fuori dalla fabbrica. Dal ‘70 in avanti i problemi erano solo della fabbrica. Era per noi il problema di portarli fuori. A mio parere il passaggio è stato un po’ questo. Poi dagli anni '80 in avanti il meccanismo vero è stato quello che si poteva fare una bella speculazione sulle aree. 

Siamo però dopo gli anni ‘85, in cui gli accordi cominciavano ad avere al loro interno che cosa fare dell'area. Sia alla Sae, sia al Caleotto, noi contrattavamo e sostenevamo la difesa dei posti di lavoro, ma non era ima nostra richiesta specifica. Noi chiedevamo il mantenimento di un nucleo produttivo e degli investimenti certi. Le aziende ci dicevano che loro avrebbero fatto degli investimenti se loro potevano ricavare delle risorse da una operazione che coinvolgesse anche l'area. Noi allora rispondevamo che questa parte dovevano discuterla con qualcuno altro e non con noi. Poi i Comuni chiedevano a noi come dovevano comportarsi. Non so se poi c'era dietro anche qualche meccanismo di tangente. Noi abbiamo gestito tutta questa fase evitando di essere coinvolti in responsabilità che toccavano ad altri. 

Il nostro pensiero era questo: se la città di Lecco si avvia a diventare provincia ha bisogno di spazio fisico per riorganizzare la città e si liberano gli spazi industriali è giusto che si discuta dentro il piano regolatore. Tutti devono avere la possibilità di esprimere il loro giudizio su come deve andare. Noi quindi non eravamo d'accordo in linea di principio sul fare accordi triangolari. Anche se poi incontri con le amministrazioni ne abbiamo fatti parecchi, perché le aziende ci portavano a discutere queste questioni. Noi andavamo a dire quale era il problema dal nostro punto di vista e che occorreva tutelare i lavoratori. 

Le due situazioni eclatanti in questo senso sono state il Caleotto e la Sae. Ultima è stata la Badoni. Per noi c'era sempre la necessità di tenere distinto le due cose: il giudizio politico sull'uso del territorio non poteva che essere un giudizio che derivava da una decisione di carattere politico e non sindacale. Noi mettevamo in evidenza la necessità di garantire e salvaguardare il lavoro. Noi abbiamo sostenuto qualche volta che bisognava costruire un polo industriale nel territorio. Se porti via da Lecco si faccia una zona industriale a Oggiono o nel meratese, oppure nell'alto lago, in modo che si ridesse fiato alle possibilità di sviluppo delle aziende. Invece la sostanza è che le aziende ad una ad una se ne sono andate dove hanno voluto loro e non dove potevamo comunque tenerle organizzate. In questo senso è stata una parziale sconfitta. Parziale, perché comunque delle attività sono state mantenute. C'è stato un rilancio di altre attività che noi forse non avremmo nemmeno immaginato. Tutto sommato i livelli occupazionali non sono peggiorati in modo drammatico. 

Soprattutto terziario, banche, assicurazioni, supermercati. Però sono molte anche le aziendine di servizio alle attività delle imprese. Vicenda Camiti, zona di Oggiono. I proprietari si erano ritirati. I lavoratori avevano occupato la fabbrica e si rischiava il fallimento. Non so bene come la cosa sia nata, se all'interno del sindacato, ma probabilmente la gente stessa che era iscritta a qualche partito e avendo li dei leader. Il leader maggiore era Golfari, presidente della regione Lombardia. Probabilmente è stata una cosa un po’ automatica. Poi questi vengono, ti prospettano delle soluzioni e la cosa è partita. I politici furono coinvolti in altre vertenze perché si pensava che i politici avessero la possibilità di far incontrare le difficoltà dell'azienda con capitali o persone interessate a acquisire o valorizzare quelle attività. 

La Camiti aveva due attività: una era i motori fuoribordo e l'altra il meccanotessile, che rappresentava la parte più forte e la più vecchia. In quegli anni, anni ‘65, ‘70, l'idea che c'era nel sindacato era quella di costruire un polo del meccanotessile a livello nazionale, anche con l'aiuto statale, attraverso l'Efim. E per entrare in una ipotesi che già esisteva avere l'appoggio anche dei politici era quasi naturale. Solo che probabilmente questa idea di fare il polo del meccanotessile non ha funzionato. E quindi hanno tentato di costruire una soluzione interna. L'idea era quella di mettere in piedi una società che mantiene in vita l'azienda e in questo tempo facciamo tutti i tentativi possibili per individuare delle soluzioni. E' nata quindi la Omab con capitale parte proveniente dalle liquidazioni dei lavoratori e qualcosa che doveva portare la Regione, il Comune di Oggiono, e altri Comuni. Il Comune si è impegnato a garantire l'operazione con propri beni. 

La produzione è ripresa ed è andata avanti per tre anni. Questo ha permesso di mantenere una certa quota di persone in cassa integrazione straordinaria. Ha permesso di evadere gli ordini delle piccole commesse che c'erano. Ma è stata anche la fase in cui il debito si è ingrossato perché mancando al dunque la soluzione la situazione si è compromessa del tutto. Una delle ipotesi era l'intervento di Cariboni che allora era presidente dell'Unione industriali, titolare di una fabbrica produttrice di carpenteria per linee elettriche a Pescate. Questi volevano entrare, poi hanno avuto una offerta in Sicilia e hanno acquisito una fabbrica laggiù. Una ad una tutte le ipotesi che si sono immaginate sono venute meno. Nell'85 l'azienda ha chiuso definitivamente. C'è stato il fallimento. Le liquidazioni sono state pagate solo per una parte, circa il 70%. Molte persone in quel periodo avevano avuto la possibilità di andare in pensione, per cui la cosa si era sdrammatizzata sul piano sociale. Qualcuno ne aveva approfittato per prendere la cassa integrazione e fare lavoro nero. Inizialmente c'erano circa 400 persone. Quando la vicenda si è conclusa saranno stati un centinaio. 

Dopo il fallimento, che è stato lungo, alcuni lavoratori, avendo preso solo una parte delle competenze, hanno fatto vertenza al Comune, che aveva garantito con i propri beni, per avere la copertura di quella quota di liquidazione che mancava. Una vicenda che si sta ancora trascinando oggi. 

Dopo quella vicenda, probabilmente interventi diretti del pubblico non ci sono più stati. I comuni che avevano partecipato si sono un po’ sentiti traditi dalla Regione Lombardia. L'iniziativa era partita con Golfari e poi Golfari non era più presidente della Regione. Tutti quelli che si sono impegnati, uno ad uno si sono defilati. 

Oggi c'è l'Arlenico che lavora ancora in parte.