giovedì 23 aprile 2020

FRANCO CASTREZZATI - Fim, Cisl - Brescia

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006

 La mia è una famiglia contadina, di mezzadri. Abitavamo a Cellatica, in provincia di Brescia, dove sono nato il 21 aprile 1926. E’ a soli sette chilometri dalla città, ma a quell’epoca sembrava lontana e io sono andato per la prima volta a Brescia a dieci anni, per la cresima. 
In casa eravamo papà, mamma, tre fratelli e una sorella. Altri due fratelli sono morti piccoli. I genitori erano gente cattolica, di grande fede. Hanno influito sulla mia formazione non solo religiosa, ma anche politica. Di quegli anni ricordo alcuni momenti che mi hanno segnato profondamente e spiegano la mia avversione al fascismo. 
Mio papà si è fatto cinque giorni di carcere a causa mia. Un giorno, ripetendo una frase che avevo colto in casa e di cui non conoscevo il significato, ho urlato al nostro asino, che non si voleva muovere: <<hai la zucca più dura di quella di Mussolini>>. Qualcuno ha sentito e i fascisti lo hanno arrestato.

Un altro episodio coinvolse il mio curato. Una domenica, mentre servivo messa, durante la predica il sacerdote si mise a urlare e a un certo momento anche a piangere. In sacrestia c’erano i carabinieri ad aspettarlo per portarlo via. Quella notte avevano tentato di fargli bere l’olio di ricino. Era un antifascista e in paese lo si sapeva.
Ho studiato fino alla quinta elementare, poi quel prete, che mi spingeva a partecipare alla vita dell’associazionismo cattolico, ha voluto che andassi in seminario, dove ho frequentato fino alla quinta ginnasio. Quando sono uscito eravamo in tempo di guerra e un professore mi ha trovato un posto di lavoro alla casa editrice Morcelliana. In quel periodo stavano stampando un’edizione pregiata dei vangeli con testi in italiano, latino e greco e avevano bisogno di un correttore di bozze che conoscesse le tre lingue perché chi c’era prima di me era stato chiamato alle armi. Era un ambiente antifascista, si stampavano libri stranieri che venivano distribuiti tra il clero e si respirava un clima di tolleranza. Lì ho conosciuto un altro sacerdote che sarebbe diventato cardinale rimanendo in parrocchia, padre Giulio Bevilacqua, confessore di Paolo VI.
Alla Morcelliana sono rimasto fino al gennaio del 1944, quando è uscito un bando di Mussolini che chiamava alle armi i nati nel primo semestre del 1926 e anch’io avrei dovuto presentarmi in caserma. Ma per la mia formazione, gli ambienti che frequentavo e i contatti che già avevo con la resistenza non se ne parlava neppure di arruolarmi nella Repubblica di Salò. Così mi sono nascosto in casa del segretario comunale, dove era più difficile mi cercassero e dove avrebbe dovuto essere più facile scappare nel caso di una retata. In cambio facevo un po’ di lezioni di greco e latino ai suoi figli.
Una mattina c’è stata un rastrellamento e, mentre tentavo di fuggire, mi hanno bloccato a due passi dalla piazza della chiesa. Hanno preso più di cento persone e molti li hanno lasciati andare, ma io avevo nel portafoglio una carta d’identità falsa e due volantini antifascisti e mi hanno portato in carcere. Sono stato interrogato e accusato di essere renitente alla leva. Fortunatamente ero minorenne e mi sono salvato, mentre altri che erano con me, ma con qualche anno in più, sono stati fucilati. Io sono stato mandato a Parma dove sono stato processato da un Tribunale speciale. Intanto ero sempre in galera, mi hanno picchiato più volte, spaccandomi i denti e la faccia. Un giorno è uscito un bando che consentiva a coloro che non erano stati bloccati con le armi in pugno o non erano accusati di omicidio, di andare a lavorare in Germania o al fronte in Italia, che in quel momento era sotto Bologna. Io ho preferito Bologna, convinto che da lì prima o poi sarei riuscito a scappare.
Prima mi hanno mandato a Mede Lomellina, dove ho fatto un mese di istruzione, quindi sono stato inserito nel genio e inviato al fronte. Dopo due giorni c’è stato un fortissimo bombardamento, con un’avanzata degli alleati, e su milleduecento siamo rimasti in quarantadue. Gli altri o sono morti o scappati. Noi siamo stati accusati dai fascisti di tradimento e siamo stati portati in un grande campo di concentramento vicino a Verona. Nella parte nord c’erano i prigionieri alleati e nella parte sud gli italiani. La mattina ci caricavano sui carri ferroviari e ci portavano lungo la linea a fare riparazioni. Era la linea del Brennero, l’unica che collegava il nord Italia con la Germania. Tutte le notti veniva bombardata. I tedeschi riuscivano a tenere attivo un binario grazie a noi, che chiudevamo le buche, e con i soldati che posavano le rotaie.
Dopo un mese ci hanno messi su un treno diretto in Germania. Noi sapevamo che su quella linea i treni andavano adagio perché i binari non erano bloccati e, levate le assi del fondo del vagone, siamo scappati. Ognuno ha scelto la sua strada e io sono finito con i partigiani delle Fiamme verdi in Val Camonica.
Dopo la liberazione, appena tornato a casa, volevo rientrare a lavorare alla Morcelliana, invece mi mandò a chiamare il segretario della Democrazia cristiana dicendomi che, siccome ero uno con non aveva paura, avrei dovuto andare all’Anpi, l’associazione dei partigiani, dove non c’era nessun cattolico. L’Anpi in quel momento era un posto di potere importante. E’ stato un periodo di continui scontri e contrasti con i comunisti, che si consideravano gli unici liberatori, nonostante avessero avuto un ruolo minore nella resistenza bresciana. Con la rottura sindacale c’è stata anche la scissione dell’Anpi, con i garibaldini da una parte e le Fiamme verdi dall’altra. Anch’io me ne sono andato,
nonostante mi avessero chiesto di restare, e mi sono trovato disoccupato.

Sindacalista
Nel 1948 ero segretario della Dc di Cellatica, un paese di contadini e di povere famiglie, dove mi occupavo anche delle questioni sindacali che interessavano la mia gente.
Mi sono messo a cercare un posto, ma non era facile. Un giorno ho letto sul giornale che, per coloro che avevano la patente di guida per i camion, era possibile andare a lavorare in Argentina. Ero fidanzato e insieme abbiamo deciso che sarei partito, lei mi avrebbe raggiunto appena sistemato. Fatta la domanda, dopo quindici giorni arrivò la conferma. Ma la stessa settimana mi mandò a chiamare Angelo Gitti, segretario della Lcgil, che mi disse: <<abbiamo letto i tuoi articoli sui temi sociali che hai pubblicato sui giornali bresciani e ci serviresti, vuoi venire al sindacato?>>. Ho accettato, e così ho iniziato a lavorare come funzionario al settore terra. Sono rimasto lì fino a quando è nata la Cisl e ci siamo trasferiti in Corso Matteotti. La categoria dei mezzadri l’ho praticamente costruita io. Sono riuscito a raccogliere più di mille iscritti, in particolare nell’area della Franciacorta.
Un giorno, il segretario della Cisl mi disse che voleva mandarmi ai metalmeccanici, continuando però a seguire anche i mezzadri. Ma il responsabile dei metalmeccanici, Bruno Lucchese, appena entrato nel suo ufficio, mi intimò: <<qui non voglio vedere neanche un contadino, se li vuoi ricevere vai in strada o dove vuoi>>. Mi sono ritrovato in mezzo a questioni di cui non sapevo molto, cose che non mi riguardavano personalmente, particolarmente antipatiche per me che credevo finalmente di aver trovato un posto tra amici.
Ad un certo punto Lucchese venne invitato per due mesi negli Usa, per conoscere il sindacato americano. Lo sostituii io, seppure avesse un vice che lavorava alla Om, ma questi non aveva grandi capacità e seguiva ciò che gli dicevo. Iniziai ad andare alle riunioni delle sas, a occuparmi dei licenziamenti, cominciavo a essere conosciuto. Quando Lucchese rientrò si rese conto che i lavoratori volevano incontrare me e non lui. Io ero imbarazzato, non avevo nessuna ambizione, ma lui non mi volle più. Fui convocato dal segretario dell’Unione che mi propose di dare vita ad un ufficio che riuniva stampa, formazione e commissioni interne e così lasciai la Fim e i mezzadri e iniziai il nuovo impegno.
Ho cominciato a organizzare l’attività formativa, per la stampa scrivevo articoli sulle questioni che mi chiedeva la segreteria, in più curavo una pagina “lavoro” per i settimanali la “Voce del popolo” e il “Cittadino”. Andavo alla sede del “Giornale di Brescia”, dove si stampavano questi due giornali, con i miei articoli pronti, e stavo là una mezza giornata per seguire l’impaginazione.
Un giorno Gitti mi disse: <<guarda che c’è un certo Baglioni, che insegna alla Ricci, e siccome la confederazione insiste che si faccia attività formativa ci darà una mano>>. Guido Baglioni divenne responsabile dell’ufficio formazione, mentre io mantenni la responsabilità dell’ufficio stampa e commissioni interne. Ho legato subito con lui e andavamo d’accordo. A quel punto eravamo in cinque a fare formazione. Uscivamo tutte le sere con un’automobile che guidavo io, andavamo uno per paese e alla fine ripassavo a prenderli. Facevamo corsi di formazione quasi esclusivamente per i salariati agricoli, che era il sindacato più forte con circa undicimila iscritti. Siccome la Cisl aveva teorizzato che l’Italia andava cambiata, diventando una realtà industriale e non più agricola, si faceva formazione in quella prospettiva. <<Domani, quando diventeranno operai, avremo della gente preparata>>, si diceva. In quel momento ero anche istruttore confederale. Si chiamavano così coloro che per conto della confederazione andavano per una settimana in una città come relatori ai corsi organizzati dalle Unioni. Non ho avuto bisogno di fare preparazioni particolari, mi conoscevano, sapevano che me la cavavo a Brescia e mi hanno affidato quell’incarico.
Abbiamo lavorato bene per alcuni anni. Ben presto, però, iniziarono le prime discussioni, a volte anche forti. Infatti, mentre la confederazione sosteneva la necessità dell’autonomia delle categorie, la Cisl di Brescia era accentratrice. Baglioni appoggiava la linea confederale e io ero con lui.
Il sabato pomeriggio e la domenica mattina si tenevano gli incontri degli attivisti, in particolare dell’industria. In una di queste occasioni ci fu uno scontro tra Baglioni e Gitti, perché il segretario della Cisl non era molto contento di come si faceva formazione. In verità, perché vedeva che la crescita delle persone gli toglieva il potere assoluto di cui aveva goduto fino a quel momento. Cominciarono i dibattiti. Si diceva: <<adesso che le industrie hanno ricominciato a produrre, perché non avanziamo nostre richieste?>>. Noi chiedevamo la contrattazione articolata, sostenevamo che si doveva cambiare, altrimenti tutto ciò che insegnavamo sarebbe stato inutile, volevamo la presenza del sindacato in fabbrica. Gitti e la segreteria dicevano che queste cose le dovevano decidere loro.

Si cambia la Fim
Dopo quello scontro nacque l’idea di impegnarsi nei congressi. Abbiamo fatto parecchie riunioni “clandestine” con l’appoggio delle Acli, che non condividevano quella forma di stasi sindacale e di battaglia politica continua, come se il nostro obiettivo fosse solo l’anticomunismo. Io, che pure venivo da un’esperienza di convivenza dura con i comunisti, dicevo che dovevamo pur fare qualcosa insieme, anche se non pensavo minimamente all’unità d’azione.
Per molti versi era d’accordo anche l’Unione, seppure in modo tacito, pensando di mandare via Lucchese e di sostituirlo con un loro uomo. Secondo i nostri accordi, io avrei dovuto prendere in mano la Fim, Baglioni, invece, avrebbe dovuto diventare il segretario generale della Cisl.
Al congresso del 1958 venni eletto segretario generale della Fim. Gli operatori sindacali non potevano candidarsi ne far parte degli organismi, ma noi abbiamo detto: <<se ci eleggono, il congresso è sovrano>>. Così si è candidato tutto il mio gruppo, che ha vinto il congresso, e tutti sapevano che il capo ero io. Dopo di che sono stato cooptato e quindi eletto.
L’Unione ha contestato la mia elezione, e anche la confederazione ha messo in discussione la legittimità del mio ruolo, perché ero operatore e perché non ero un metalmeccanico. La soluzione la trovò Baglioni, il quale propose un documento che diceva più o meno: <<il consiglio generale della Fim rinnova la fiducia a Franco Castrezzati, nominando segretario generale Luigi Compagnoni e Franco Castrezzati come facente funzione>>.
Tutte le fabbriche maggiori erano con me, ma se non ci fosse stata l’Om non ce l’avrei fatta.
Dopo il congresso ci impegnammo ad attuare le idee che avevamo in mente, che avevamo sostenuto e che eravamo andati a spiegare. La curia iniziò a preoccuparsi. Secondo alcuni i lavoratori cattolici dovevano fare quello che diceva l’assistente delle Acli e così sono nati i problemi tra noi e l’associazione. Io sono sempre stato aclista, sono stato presidente delle Acli nella mia parrocchia, ma non ho mai pensato che le Acli dovessero comandare nel sindacato. Il vescovo ausiliare, mons. Giuseppe Almici, in particolare, sosteneva che avendo le Acli fatto la scelta di non creare un sindacato cristiano, ma essendo state loro a dare vita alla Cisl, il sindacato dovesse rispondere alla gerarchia. Io spiegavo che dovevo rispondere agli organi che mi avevano eletto.

Contro il premio antisciopero
Vinto il congresso, superate tutte le questioni formali, l’Unione dichiarò uno sciopero provinciale perché lo Stato investiva poco nelle aziende a partecipazione statale e non ne creava altre nel bresciano. Io ero d’accordo, ma dopo qualche giorno mi chiamò il segretario della Cisl e mi disse che bisognava escludere l’Om, perché c’era il premio antisciopero e non si poteva far perdere troppi soldi ai lavoratori.
Ho riunito la sas in sede. A mezzanotte eravamo ancora lì, ne avevo due contro mentre gli altri dodici o tredici erano a favore. Spiegare che tutti facevano sciopero mentre quelli dell’Om erano esonerati non aveva senso. Cosa avrebbero detto i lavoratori delle altre fabbriche? Ad un certo punto arrivò una telefonata di padre Ottorino Marcolini: <<sono qui dal vescovo che è preoccupatissimo, perché la Fiat ha minacciato di trasferire la Om a Torino>>. Io ho risposto: <<senta, io sono qui con la commissione interna e la sas della Cisl, stiamo discutendo da parecchie ore, la situazione non è facile, ma questa è la nostra posizione. Dirò della sua telefonata>>. <<Si, ma devi dire che il vescovo è preoccupatissimo>>. <<Sono preoccupatissimo anch’io, non solo il vescovo>>. Ovviamente allora il vescovo incuteva rispetto, però la mia formazione mi sosteneva ad andare avanti secondo quanto ritenevo giusto. Mi aveva chiamato anche monsignor Giacinto Agazzi, assistente delle Acli, dicendomi: <<sono io il responsabile dei lavoratori cattolici e quindi prima di decidere uno sciopero devi venire da me>>.  In precedenza il vescovo ausiliare mi aveva attaccato in piena assemblea generale dell’Azione Cattolica: <<va bene la giustizia, ma la violenza no>>. A Brescia non c’era mai stata violenza. Non faceva il mio nome, ma il riferimento era chiaro.
Padre Bevilacqua mi diceva: <<caro Castrezzati, tu ti lamenti perché la gerarchia appoggia più le classi ricche che le povere ed io sono d’accordo con te, però non devi neanche pensare che appoggi voi, perché dovete assumervi le vostre responsabilità e noi non possiamo entrare nel merito dei problemi>>. Aveva ragione e io gli davo ragione. Lui, in verità, mi sosteneva. Così abbiamo deciso di andare avanti e abbiamo scioperato.
Dichiarato lo sciopero, la Cisl mi ha tagliato tutte le risorse. Non mi rimborsava più le spese. Non mi dava i soldi per stampare i manifesti. Io ci tenevo che ci fosse scritto “Sciopero Fim Cisl”. Loro scrivevano “Libero sindacato”, noi firmavamo “Fim Cisl”. Ci prendevano in giro: <<ma che cos’è questa Fim Cisl?>>. Ho preparato migliaia di volantini, ho passato due giorni e due notti a stamparli, a tagliarli. Dovevo farlo io, perché in Fim c’erano un operatore e delle ragazze che non collaboravano, perché lo stipendio lo prendevano dall’Unione. Ho girato tutta la città con la macchina piena, distribuendo volantini ovunque e la cosa ha fatto effetto. A Brescia conoscevo tutti, ero attivo nella Dc, facevo i comizi. Il giorno prima dello sciopero alla Om sono andato alla Democrazia cristiana, mi sono fatto dare dodici automobili e siamo andati in giro con i megafoni a urlare: <<venite tutti alla Om>>. Fino a quel giorno nel partito ero un’autorità, andavo dal fattorino e mi dava tutto ciò che mi serviva. Dopo non mi hanno dato più niente.
Sono stato solennemente e pubblicamente scomunicato da tutti perché avevo inviato una lettera ai parlamentari dicendo che in Italia si violava la Costituzione a causa del premio antisciopero. La lettera ha scatenato una reazione durissima. Il “Cittadino” è uscito con una pagina intera contro le mie posizioni. Il fondo era firmato dal responsabile dell’Ufficio studi della Cisl. Riportava anche un intervento del segretario della Dc e una serie di articoli tutti di condanna del nostro operato. <<La Cisl è per la contrattazione e non per l’intervento della legge nelle questioni sindacali, quindi la Fim di Brescia si pone fuori dalla linea della Cisl>>, spiegavano. Io ero un po’ in difficoltà. Allora Carlo Donat-Cattin, che ci seguiva da fuori, e con cui ero diventato amico quando era venuto più volte a parlare alla Dc bresciana, mi ha mandato la mozione finale dell’ultimo congresso della Cisl, che aveva presieduto, nella quale si diceva che “la Cisl è contro l’intervento della legge nella soluzione dei conflitti di lavoro, salvo nel caso in cui sia messo in discussione il diritto di sciopero”. Io, con un brutto titolo “Ortodossi o eterodossi”, ho pubblicato l’ultima parte della mozione sul nostro giornale. E’ stata una vittoria. Li ho messi a tacere tutti.
Alla Om allo sciopero di dicembre hanno aderito in ventuno. Diciotto della Fim e tre della Fiom.
Lo stesso giorno mi ha chiamato l’Unione per dirmi: <<vedi che risultato hai ottenuto!>>. <<Io sono contento - ho risposto - perché gli operai entravano, ma erano con noi>>. Dopo qualche tempo il segretario della Cisl mi ha comunicato che il prefetto avrebbe pagato il premio antisciopero per i ventuno che avevano partecipato alla protesta, ma tutti hanno rifiutato. Del nostro sciopero ne scrissero i giornali, tutta la città parlava di quel fatto.
Il dibattito si è fatto acceso anche in Cisl e gli scontri hanno coinvolto la confederazione. Mi accusavano di fare l’unità d’azione con la Fiom. Sapevo che Pastore aveva detto: <<marciare separati, colpire uniti>>, ma io ho sostenuto che per forza bisognava stare insieme, altrimenti si perdeva. Tutti, dalla curia ai padroni, ci dicevano che noi della Cisl eravamo bravi, però quando facevamo delle richieste concrete, ci rispondevano che era una questione generale e non concedevano mai nulla. Quando andavo all’associazione industriali o in un’azienda a dire: <<noi chiediamo le cose che voi dicevate che erano buone, fatte bene>> trovavo uno sbarramento assoluto. Allora abbiamo dovuto fare gli scioperi e per farli è stato necessario parlare anche con la Fiom. Per fortuna c’erano due bravi segretari, che erano in lotta con il Pci, ed erano correttissimi. Io raccontavo le mie difficoltà e loro altrettanto. Preferivano che i comizi li tenessi io, ma siccome non si potevano fare unitariamente, i manifesti li firmavano le commissioni interne e si scriveva che il comizio lo faceva Franco Castrezzati, senza indicare il ruolo.
Da Roma mi chiesero di scrivere per Conquiste del lavoro un articolo nel quale si dicesse che “la Fim non è la Fiom”. Io non avevo nessun problema a preparare un articolo del genere e così evitai altri interventi.
Gli stipendi a Brescia li pagava la Cisl, anche alle categorie, seppure la confederazione dicesse che l’Unione doveva decentrare le risorse. Siccome non avevamo soldi, su richiesta dell’Unione abbiamo deciso di fare una raccolta di denaro tra i lavoratori per sostenere le battaglie sindacali. L’abbiamo condotta unitariamente. Un giorno mi arrivò un telegramma di Storti che mi convocava al Centro Studi di Firenze. Ci siamo seduti nel cortile, c’erano anche Dionigi Coppo e il prof. Mario Romani, e Storti ha iniziato col dirmi che le mie scelte erano sbagliate: <<fate l’unità d’azione, andate contro le delibere del consiglio, non rispettate le indicazioni confederali, di fatto siete fuori dall’organizzazione. Questa raccolta dei soldi in comune, poi, è una cosa inaccettabile>>. All’incontro era presente anche Gitti e io ho avuto buon gioco a ribattere: <<me l’ha detto lui>>. Tutti a quel punto lo guardarono e lui cercò di giustificarsi: <<ne avevamo bisogno>>. Sono ripartito vittorioso. Dato che l’iniziativa era partita dall’Unione allora era tutta un’altra cosa.  In quell’occasione ho capito che se avessi sbagliato mi avrebbero mandato via.

Il consolidamento
Mi sono buttato nel lavoro a capofitto. Intervenivo a tutte le riunioni, facevo tutti i comizi, partecipavo a tutte le trattative. Lavoravo diciassette, diciotto ore al giorno. Ho fatto tre anni irripetibili, per sopravvivere, per portare avanti le nostre battaglie. Nelle fabbriche erano entrati gli operai che erano stati salariati agricoli, avevano partecipato ai nostri corsi di formazione e ora erano diventati metalmeccanici, ma l’organizzazione della Fim era tutta da costruire.
Abbiamo iniziato a fare accordi aziendali, partendo dalla Beretta, facendo gli scioperi, legando la contrattazione alla produttività.
Per sostenere le nostre posizioni ho dato vita a un giornale di cui stampavamo 20mila copie. Si chiamava “Impegno sindacale”. Ero il direttore, ma dovevo scrivere tutto io, anche con altre firme. Riportava notizie dalle varie aziende, informava su quello che si realizzava. Ci è servito moltissimo, perché era difficile essere presenti dappertutto. Lo distribuivamo attraverso gli attivisti, che venivano in sede a ritirarlo e lo portavano nelle fabbriche.
Abbiamo fatto gli accordi in tutte le aziende significative, una settantina circa. Grazie alla nostra azione, il novanta per cento dei metalmeccanici bresciani, circa ottantamila lavoratori, erano coperti da accordi aziendali, unica situazione in Italia.
Arrivati al congresso del 1962 tutti erano con me e ho avuto il cento per cento dei voti, anche di quelli che inizialmente erano dubbiosi. Avevo contro la federazione nazionale, che però stava attenta perché non sapeva che sbocchi avrebbe potuto avere la nostra esperienza.
Nel frattempo avevo costruito dei rapporti con Carniti a Milano. Inizialmente ci vedevamo di nascosto, perché non poteva esporsi, ma condivideva le nostre scelte. La stessa cosa con Torino. Ci riunivamo a Milano o a Roma, in occasione di qualche trattativa, perché non avevamo i mezzi per fare diversamente. Così, di volta in volta, decidevamo cosa fare. Poi c’erano gli incontri ufficiali con tutti. Facevo parte anche del consiglio generale della Cisl confederale. Brescia era isolata, ma era diventata un punto di riferimento.
Ad un certo punto mi hanno proposto di fare il segretario nazionale della Fim al posto di Franco Volontè. Un giorno Carniti ed io stavamo andando a Milano per una trattativa e mi diede la notizia che Volontè si era dimesso, dicendomi che toccava a me sostituirlo. Io ero disposto a collaborare, ma non spostandomi da Brescia. Temevo che andandomene sarebbe saltato tutto. Allora abbiamo pensato a Luigi Macario, che in quel momento era segretario confederale della Cisl, che venne eletto nel 1963.
Con la nuova situazione Brescia è uscita dall’isolamento. Io e Carniti siamo entrati in segreteria nazionale, ma da esterni, perché io sono rimasto a Brescia e Carniti a Milano. Ero convinto che si dovessero rafforzare le periferie, affinché la gente fosse con noi, perché in quel caso, anche se ci fossero stati dei giochi di palazzo, ci avrebbero pensato loro a sostenerci.

Si cambia anche in Cisl
Con il giornale avevo iniziato una battaglia per le incompatibilità. Nella segreteria provinciale: Gitti era un parlamentare, Carlo Albini assessore comunale, Pietro Apostoli assessore provinciale. Il giornale lo mandavo a parroci, sindaci, a tutte le Fim provinciali. E abbiamo iniziato ad avere attenzione alle nostre posizioni e gli altri a stare più attenti.
Mentre conducevo la campagna sulle incompatibilità, l’Unione andava perdendo consensi e la Fim aumentava i propri iscritti. A un certo punto è intervenuta la confederazione e ha mandato a Brescia Dionigi Coppo. Coppo, che veniva da Brescia, era andato via perché non lo volevano. Era di destra, però era una persona che ci sapeva fare. Pastore lo aveva portato in confederazione come segretario sindacale. Lui aveva ancora un po’ di rancore con l’Unione bresciana. E non aveva voglia di fare il portaborse di Gitti.
E’ venuto a presiedere un esecutivo esaltando la nostra esperienza e i numerosi accordi aziendali che avevamo fatto. Non era con noi, ma ce l’aveva di più con gli altri. Non lo diceva, ma lo capivo dai suoi sorrisetti.
Visto che il rappresentante della confederazione sosteneva la nostra azione, pian piano tutte le categorie si sono avvicinate a noi. Salvo la terra, con Apostoli, che era contrario. Una sera lo abbiamo portato fuori insieme a tutti i segretari di categoria e l’abbiamo fatto bere e ha firmato un documento comune, che il giorno dopo voleva sconfessare. Tutti ridevano di lui.
Coppo è venuto a Brescia un’altra volta e nel suo intervento ha detto: <<io sono per le compatibilità, ma tu Gitti parti il lunedì mattina per Roma e torni il sabato, non puoi andare avanti così>>. Di fatto lo ha convinto a lasciare.
La mattina dopo Coppo mi ha chiamato dall’albergo: <<è d’accordo a dimettersi, chiede però una stanza per lui in Cisl>>. Io ho detto che ero d’accordo, purché non fosse quella del segretario generale che aveva occupato fino ad allora. Lui non voleva mollare, ma poi ha capito che ormai eravamo decisi e così è stato. Ho chiesto che cosa avrebbe fatto in Cisl, e Coppo rispose: <<gli ho detto che lui sarà il parlamentare dei lavoratori>>.
Albini nel frattempo se n’era andato. Però, dopo la mia elezione, siccome sapevano che io e Baglioni eravamo legati, Storti lo ha mandato a Milano. Quindi la sua candidatura è tramontata. Quando se ne è andato mi ha detto di non mollare. Per me è stata dura e se l’avessi saputo prima non avrei fatto quelle scelte.
Per sostituire Gitti mi proposero uno di Cremona. Io avevo delle perplessità. A Roma i miei punti di riferimento erano Macario e Idolo Marcone e mi consigliavo un po’ con loro. Ero d’accordo che arrivasse qualcuno da fuori, ma volevo uno che ci aiutasse. E loro mi indicarono Melino Pillitteri. Sono andato con loro a Rovigo e ci sono rimasto un paio di giorni, ci siamo conosciuti e abbiamo trovato l’accordo. Era il 1961 quando è avvenuto il cambio. Al congresso dell’anno successivo Gitti chiese di fare l’aggiunto, al che Pillitteri voleva rinunciare, ma è intervenuta di nuovo la confederazione e ha dovuto lasciare.

Il contratto del 1966
Per noi a Brescia la situazione è cambiata radicalmente. Tutti erano sulla stessa linea, dall’Unione alle categorie. Pillitteri ha capito subito da che parte stare. Nel suo primo intervento ha detto: <<viva i metalmeccanici, dobbiamo diventare tutti come loro, questa è la linea, così si vince>>. Non abbiamo più avuto contrasti né con l’Unione né nei luoghi di lavoro.
Qualche problema, semmai, è iniziato a sorgere all’interno della Fim. Io ero stato definito “la destra della sinistra”. In una provincia bianca come Brescia dovevo tenere presente che i lavoratori erano cattolici per i quali la voce del vescovo contava. L’ho detto anche in un consiglio generale della Fim, in occasione del primo scontro che abbiamo avuto quando si trattò di rinnovare il contratto di lavoro.
Per predisporre la piattaforma Macario ha convocato a Desenzano uno dei primi consigli generali dopo il congresso nazionale del 1965 che si era tenuto a Brescia. Questa venne portata avanti con alcune proposte radicali che io non potevo sostenere, perché la realtà bresciana me lo impediva. Ed erano contrarie alla mia cultura e alle mie idee. Ci sono stati alcuni momenti di tensione.
Negli interventi tutti chiedevano di tutto, ma nessuno fino a quel giorno aveva mai fatto niente, soprattutto non facevano gli scioperi, che allora era l’unico argomento che noi avevamo. La realtà era di emarginazione totale dei lavoratori, che non contavano né nella società né nelle fabbriche. Quello che eravamo riusciti a fare noi aveva richiesto dei prezzi da pagare, occorreva una certa coerenza nei comportamenti. Sono intervenuto sostenendo che avanzare quelle richieste voleva dire essere disposti a fare scioperi e lotte lunghe. Per di più,  per conquistare cose che Brescia aveva già. <<Io capisco che c’è un problema di solidarietà, che una volta che tutti avranno raggiunto lo stesso potere saremo anche noi meno soggetti ad attacchi continui, saremo più forti. Però voglio che ci si assuma l’impegno ad andare fino in fondo. Altrimenti che cosa dico alla mia gente, se partiamo con degli scioperi per obiettivi che hanno già conquistato?>>. Tutti hanno affermato che senz’altro saremmo andati avanti fino in fondo. Io, che conoscevo un po’ l’Italia perché l’avevo girata prima per l’attività formativa e dopo come segretario nazionale, dubitavo fortemente che nel centro sud e anche in parti del nord avrebbero sostenuto lotte dure a lungo. A me stava bene lottare tutti insieme per raggiungere gli stessi obiettivi, ma non bisognava cedere. Invece, dopo 10, 15 giorni di scioperi molti cominciarono a dire che bisognava chiudere. La Fiom protestava contro di noi e voleva continuare nella lotta.
Le trattative si facevano a Piazza Venezia. Per la Cisl partecipava sempre Dionigi Coppo, per la Cgil c’era Luciano Lama. Si cominciava nel salone grande, dove ci stanno cinquecento persone e tutti fanno il loro comizio, alla fine si arrivava al sancta sanctorum in due per organizzazione. Per la Fim eravamo Macario ed io. Intanto in molte parti non si scioperava più. Ci fu una riunione al Cnel tra la segreteria della Fiom e quella della Fim, senza la Uilm, e in quell’incontro emerse che anche la Fiom voleva chiudere. <<Dobbiamo tenere conto della realtà>> si giustificarono e io a dire che la realtà avrebbero dovuto conoscerla anche prima. Fui incaricato di guidare la trattativa. Un giorno ho perso l’aereo e sono arrivato a Roma con tre ore di ritardo. Nel frattempo avevano firmato il contratto. Ho capito le ragioni di quella scelta, che la Fim ha dovuto in parte subire, ma per me è stata difficile da accettare.
A spiegare ai lavoratori bresciani le ragioni della firma e il perché delle scelte della Fim ho chiesto che venisse qualcuno da Roma, perché avevo garantito ai miei che avevamo una segreteria che se dava una parola la manteneva. A presiedere il consiglio generale è arrivato Nino Pagani. I bresciani non sono bravi oratori, ma gente concreta e gli interventi sono stati molto franchi. Io ho fatto le conclusioni: <<caro Pagani, mi dispiace, ma tu sei un cardinale di curia io invece sono un cardinale con diocesi e devo rispondere del mio operato. E’ vero quello che ti hanno detto. A Desenzano io ero stato definito la destra della sinistra per le preoccupazioni che avevo espresso, ma poi ho tenuto le posizioni assunte e la gente ha creduto a quello che dicevo>>.
Dopo quanto successo sono uscito dalla segreteria della Fim nazionale, i bresciani hanno lasciato l’esecutivo nazionale e siamo stati fuori per tre, quattro anni.

Lo scontro con l’Om
Quelle vicende nazionali in qualche modo sono state anche causa dell’inizio dei contrasti bresciani, in particolare con la Om, che cominciò a criticare la Fim nazionale, sostenendo che non ci si poteva più fidare di quelle persone, e chiedendo che si facesse la guerra contro di loro. Ma io non ero d’accordo.
All’inizio Giovanni Landi era stato uno dei miei grandi sostenitori, seppure fosse ancora un ragazzino. Lui era delle Acli e anche le Acli sostennero la mia battaglia. Col tempo il gruppo della Om si era organizzato, riuscendo ad avere un certo peso nella Dc e dando vita alla corrente di Donat-Cattin, cui partecipavo anch’io. Le riunioni si facevano a casa di Michele Capra, leader dei lavoratori cattolici in Om, ma era Landi che decideva tutto. Io dicevo: <<lasciatemi fuori, perché se devo venire qui a sentire che cosa devo fare, mi dispiace, ma non mi sta bene, perché credo che il sindacato debba avere la sua autonomia. Così come non accetto il principio che, siccome tu sei un esponente del sindacato, sia tu a rappresentare il sindacato con la Dc>>.
Quando si decise di dare vita alla Flm, ero piuttosto restio, anche perché come segretario della Fiom c’era Sabattini. A Bologna non lo volevano più perché era troppo esasperato e l’avevano mandato a Brescia, dove la Fiom era in minoranza, con l’obiettivo di spaccare la Fim. All’inizio degli anni ’70 avevamo 26 operatori, lui tutti i giorni se ne prendeva uno e gli parlava ore e ore, e ha stretto un patto con il gruppo della Om. Ma la vicenda è più complessa, perché Landi fuori dalla Om mi accusava di essere fascista, ma dentro la fabbrica diceva che ero comunista. Tutto questo evidentemente non giovava all’unità. Io ero preoccupato perché l’Om era importante.
Al congresso del 1973 il gruppo Om chiese di avere due rappresentanti in segreteria. Io indicai Landi e un altro, ma Landi non volle accettare. Alla fine si trovò l’accordo su Luigi Gaffurini e Francesco Maffetti. All’inizio siamo andati abbastanza bene, ma loro partecipavano prima alla riunione della corrente Dc, decidevano la linea e la portavano in segreteria. E a me questo non stava bene.
Fino a quando, durante una vertenza con la Lucchini, che era aperta da due anni e per la quale avevamo fatto tantissimi giorni di sciopero, accadde un fatto abbastanza grave. Ero impegnato personalmente, perché con Lucchini non avevamo mai vinto una vertenza, non era iscritto all’associazione industriali, faceva ciò che voleva. Non ammetteva che il sindacato entrasse nella sua azienda. Io ero deciso a sfondare. Avevo scatenato anche un’azione di propaganda continua. Un giorno mi chiama il sindaco Bruno Boni, che era molto amico di Lucchini, ma con noi si era sempre comportato correttamente. Boni, però, non era un uomo di Landi, perché era di una corrente Dc diversa dalla sua, così dicevano che io lo preferivo, che volevo valorizzarlo. In realtà erano problemi interni alla Dc, tra noi c’era solo un rapporto basato sulla stima reciproca.
Il nodo principale della vertenza era la volontà di Lucchini di licenziare tutto il consiglio di fabbrica. Dopo due anni di lotta e un tentativo da parte del prefetto, Boni ci convocò e, sentite le nostre proposte, disse che su quelle basi avrebbe potuto chiudere la vertenza. Anche Sabattini era contento. Boni chiese solamente il massimo riserbo. Il giorno dopo, però, il Giornale di Brescia titolava “Lucchini è stato finalmente battuto”. La responsabilità era di un operatore della Fim, uomo di Landi. Ho convocato la segreteria e deciso di spostarlo in un’altra zona.. Loro non volevano accettare la decisione, ma alla fine ci è andato, seppure continuando a mantenere comportamenti fuori dalle regole. Ad un certo punto sono venuto a sapere che Gaffurini aveva partecipato ad una riunione unitaria dei consigli di fabbrica della zona di Lumezzane condannando l’accordo “fatto di nascosto” con Lucchini. Ho convocato subito la segreteria: <<fino a quando io sono segretario – ho detto - la segreteria discute, ma quando ha preso una posizione tutti la sostengono>>.
C’era già stato un precedente grave in un consiglio generale unitario nel quale, dovendo fare lui la relazione introduttiva, aveva spiegato che il compromesso storico era la strada per la costruzione dell’unità sindacale e quindi il sindacato doveva sostenerlo. Io ho subito preso Sabattini e gli ho detto che non ero d’accordo e che, se quella era la linea, avrei spaccato la Flm. Ho immediatamente chiamato Roma per informare di quella situazione e abbiamo deciso di riconvocare la riunione unitaria. L’ho aperto io con una relazione che, messa ai voti, è stata approvata.
Dopo questo fatto e quello di Lumezzane, ho convocato il consiglio generale della Fim, presente Franco Bentivogli, e ho chiesto che si votasse la sfiducia a Gaffurini. Furono tutti d’accordo, esclusi quelli della Om e di Lumezzane.
In quel momento il Pci andava d’accordo con la Dc nella prospettiva del compromesso storico e loro cercavano sostegno al di fuori del sindacato. Io ero d’accordo che i lavoratori scegliessero il compromesso storico, ma il sindacato doveva restare autonomo.
Alla Lucchini, alla fine, l’accordo l’abbiamo fatto, ma a Brescia ha firmato solo la Fim, dopo di che siamo andati a Roma, dove per la Fiom ha firmato la segreteria nazionale.

Piazza della Loggia
Il 28 maggio del 1974 avviene l’attentato di Piazza della Loggia. Io stavo parlando dal palco quando è esplosa la bomba. In quei giorni c’era un clima di tensione enorme, c’erano già stati diversi attentati, per fortuna senza morti. L’ultimo è stato alla sede della Cisl ed è questa la ragione per cui è toccato a me intervenire. Tre giorni prima ce n’era stato uno alla sede del sindacato unitario di Lumezzane. Da mesi si ripetevano gesti simili. Erano tutte azioni rivolte contro il sindacato. Gli industriali del tondino, soprattutto quelli di Nave e di Odolo, attraverso il sindacato fascista della Cisnal avevano fatto arrivare degli operai, che lavoravano nelle loro fabbriche in occasione degli scioperi. Si parlava anche di un incontro degli industriali della zona con Almirante, che in una cena avrebbero detto che non si poteva più tollerare un sindacato così forte.
Ho scoperto io i candelotti di tritolo che avevano messo all’ingresso della Cisl, in via Zadei. Erano tra alcune casse di materiali depositate all’esterno. La miccia era stata accesa, ma fortunatamente si era spenta perché era rimasta schiacciata. Se fossero scoppiati quegli otto candelotti sarebbe saltato in aria tutto il palazzo. Non ero segretario della Cisl, ma Pillitteri era in ospedale e lo sostituivo io. Ho telefonato subito al segretario del Comitato unitario antifascista, abbiamo deciso la manifestazione e sono stato incaricato di fare il comizio in rappresentanza del sindacato. Era un clima pesante, anche se non pensavo che si potesse arrivare a tanto.
Quella mattina mi sono alzato alle quattro per scrivere il mio intervento. Era una giornata piovosa, abbiamo iniziato alle dieci in punto, i cortei stavano ancora arrivando e io desideravo che i lavoratori sentissero quello che avevo da dire e quindi tiravo un po’ in lungo. Ho aperto il comizio denunciando tutti gli attentati che avevano creato quel clima. Stavo parlando da circa dieci minuti, spiegando le ragioni della nostra manifestazione. Ero rivolto verso il luogo dell’attentato. Ricordo che ad un certo momento ho visto come una nuvoletta bianca, poi ho sentito un grande botto. Erano le 10 e 12. Quello che mi ha spaventato davvero è stato vedere volare le bandiere, gli striscioni e la gente per terra.
E’ stata una tragedia. Tra i feriti c’era un mio fratello, l’ho soccorso io. In piazza c’erano anche i miei tre figli. C’era confusione, perché ognuno prendeva le iniziative che gli sembravano più giuste e io ho cercato di gestire un po’ il tutto. Arrivavano telefonate da tutta Italia, dai luoghi di lavoro. Bruno Trentin, da Roma, voleva sapere che cosa era successo. Ad un certo punto ho temuto che si trattasse di qualcosa di più grave, che non ci si limitasse ad un attentato, ma che fosse l’inizio di un colpo di stato.
Più tardi ho avuto una grande urlata con il vice questore perché ha chiamato i pompieri e fatto lavare il luogo dell’attentato, perdendo così dei reperti importanti. In quel momento è arrivato Bruno Storti, che stava tenendo il consiglio generale della Cisl Lombardia a Desenzano. Veniva dall’ospedale e mi ha detto che mio fratello era fuori pericolo. Sono sempre stato in piazza, dall’ospedale giungevano in continuazione aggiornamenti su morti e feriti.
Ad un certo momento abbiamo fatto una riunione del Comitato antifascista con un sacco di altre persone. Ho proposto l’occupazione delle fabbriche, perché bisognava tenere insieme la gente.
I lavoratori che erano rimasti si erano riuniti in Piazza Vittoria. Abbiamo collegato alcuni altoparlanti sulle automobili e sono sceso a parlare. Ho detto che bisognava tornare in fabbrica e occuparle, anche di notte, che bisognava stare insieme e non dividersi. Da Roma sono arrivati dirigenti e funzionari per aiutarci, perché in ogni stabilimento ci fosse qualcuno del sindacato sempre presente.

Fatto fuori
Sono stato segretario generale della Fim fino al 1977, quando al congresso di Lumezzane si è chiuso lo scontro con il gruppo della Om e non uno di loro è stato eletto. Dopo il congresso me ne sono andato. Carniti pensava che con tanti anni passati in quel ruolo fosse giusto cambiare e mi ha proposto di passare a fare il segretario della Fim regionale. Avevo 55 anni e ho detto di no. Allora ha deciso di mandare Pillitteri a fare il segretario generale della Cisl in Lombardia e io sono diventato segretario generale della Cisl di Brescia. Incarico che ho ricoperto per tre anni, fino al 1980.
Appena arrivato in Cisl ho cominciato ad avere dei problemi con le altre categorie, che avevano un modo diverso di intendere il sindacato. Ho voluto mettere in ordine le cose e in questa battaglia ho avuto di nuovo con me il gruppo della Om.
Arrivato al congresso sono stato fatto fuori. Qualche tempo prima mi era giunta voce che c’erano state delle riunioni in cui avrebbero deciso di sostituirmi. Allora ho telefonato a Carniti e gli ho raccontato come stavano le cose. Carniti ha organizzato un incontro della nostra segreteria con Mario Colombo, che si è svolto durante un’assemblea nazionale che si teneva a San Pellegrino. Tutti riconfermarono la loro fiducia nei miei confronti e, a una precisa domanda di Colombo se ci fossero dei problemi, tutti risposero di no.
Nonostante questo, le voci continuavano. Allora ho annunciato alla segreteria che mi sarei presentato al congresso dimissionario, senza ricandidarmi. Ancora una volta tutti mi hanno riconfermato la loro fiducia. A quel punto ho proposto che avrei lasciato a metà mandato, ma anche questa venne respinto sdegnosamente. Così sono andato in congresso con ogni assicurazione. Dieci giorni prima ho preparato e distribuito alla segreteria la relazione ottenendo consensi unanimi. Aldo Gregorelli mi chiese di cambiare tre aggettivi, cosa che ho fatto senza alcun problema. Ancora alla vigilia del congresso qualcuno venne a riferirmi del progetto di estromettermi, ma a quel punto mi fidavo di ciò che più volte mi avevano confermato i miei colleghi di segreteria. Ho preparato anche la mozione finale che venne approvata da tutti.
Il congresso si svolse tranquillamente, senza critiche ne problemi. Io, come sempre, non mi sono occupato degli aspetti organizzativi e, finita la mia parte, stanco, sono andato a casa a dormire. Alle due di notte è arrivato mio figlio con due componenti della segreteria annunciandomi che avevo raggiunto appena il 50% dei voti. Mi sono alzato, sono andato nel mio studio e ho scritto tre righe con le quali mi sono dimesso e ho ritirato la mia disponibilità alla candidatura a segretario. Se avessi avuto un congresso combattuto, sarei rimasto anche nel caso avessi perso, avrei fatto l’opposizione, ma in quel modo non potevo rimanere.
Ho mandato quella lettera e non ho più visto la sede della Cisl.