domenica 26 aprile 2020

EGIDIO BRESCIANINI - Marzoli Spa – Palazzolo sull'Oglio (Bs)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Sono il 28.3.47 a Pontoglio e abito lì. Ho studiato fino alla quinta elementare e dopo ho frequentato l’avviamento serale. Sono stato assunto alla Marzoli a 15 anni. Appena entrato in azienda ho fatto poco più di un anno di apprendistato, poi sono stato scelto insieme ad un gruppo di persone per partecipare ad un corso interno di elettromeccanica per le macchine tessili guidato da un ingegnere e un perito. Ho imparato a capire gli schemi elettrici, il disegno meccanico, le regole della pneumatica.

Il primo anno il corso è durato quattro mesi. Eravamo in dodici, poi è stata fatta una selezione e siamo rimasti in otto e alla fine siamo rimasti in sei. A conclusione del corso ci hanno mandati a lavorare al montaggio. Alla fine dello stesso anno mi hanno fatto partecipare ad un nuovo corso di tre mesi, poi di nuovo a lavorare, e poi di nuovo un corso di altri tre mesi. A quel punto avevo vent’anni, era il ’68, e mi hanno mandato in Spagna. In precedenza avevo già fatto alcune trasferte a Sondrio e Vercelli. In Spagna, a Saragozza, era nata una grande azienda tessile che aveva acquistato i nostri impianti e ci sono stato otto mesi, senza mai venire a casa, per installare e avviare le macchine. Io mi sono trovato bene. Eravamo dei tecnici apprezzati, non degli immigrati. In Spagna in quegli anni c’era la dittatura e c’era ancora povertà, anche se si vedeva che anche lì qualcosa si stava muovendo. Sono stato uno dei primi ad arrivare nella nuova azienda, poi è arrivato un bel gruppetto di miei colleghi. L’azienda, la Fibra Esso, era una società internazionale e ci lavoravano ditte francesi, tedesche, inglesi oltre che italiane. 
La Marzoli produceva macchine di filatura per il cotone, poi il mercato aveva rallentato e allora siamo passati a fare macchine per i filati sintetici. Era una bella azienda e quando ho iniziato aveva 1300 dipendenti. Quello è stato il mio primo e unico lavoro e sono andato in pensione lì.
Dopo l’esperienza spagnola ho fatto ancora un paio di trasferte, intanto avevo trovato la ragazza e a venticinque anni mi sono sposato. Sono andato in giro ancora un anno, poi è arrivato un figlio e mia moglie ha spinto perché non facessi più trasferte. In azienda il mio compito era quello di fare gli impianti elettrici delle macchine.

La fabbrica era molto politicizzata con una forte presenza comunista. Appena entrato c’era un uomo abbastanza anziano che senza lasciarmi troppo tempo per discutere mi ha iscritto alla Fiom. 
Nel ’73 mi sono iscritto alla Dc al mio paese e sono sempre stato impegnato politicamente. Sono stato segretario del partito, eletto in consiglio comunale. Il mio impegno è sempre stato fuori dall’azienda, ma chi mi conosceva spingeva perché facessi il delegato. Io ero un po’ restio perché c’era un atteggiamento della Fiom che non amava molto i democristiani. Io ho avuto anche degli insulti. In occasione di una manifestazione sindacale a Milano un gruppo di lavoratori della Breda di Sesto San Giovanni mi ha strappato la bandiera della Fim. Nonostante tutto, alla fine ho accettato, in particolare perché me lo ha chiesto un mio amico che diceva che avevano bisogno di una mano. Era ormai il 1982/84, sono stato eletto e ho preso anche una bella percentuale di voti. Ho detto: proviamo. Con i miei superiori in fabbrica avevo un ottimo rapporto che è continuato anche dopo la mia elezione. Sono sempre stato un moderato, ma le mie idee le ho sempre difese con forza. Appena eletto, però, mi sono trovato un po’ in difficoltà. Anche se prima di fare il delegato avevo sempre partecipato alle battaglie sindacali, perché abbiamo dovuto conquistarci la quattordicesima, la mensa, il premio di produzione. Ho fatto scioperi e partecipato a manifestazioni. Ho anche contestato certe scelte che non condividevo, non partecipando alle iniziative che consideravo sbagliate.
Eravamo sette o otto delegati Fim e tra di noi discutevamo. Inizialmente con me c’erano delegati che avevano maggiore responsabilità, ma nel giro di poco tempo sono diventato il leader della Fim della fabbrica. Questo ha creato un certo attrito con i vecchi della Fim, in particolare un delegato non accettava che io emergessi così in poco tempo. Lui cercava in ogni modo di trovare un’intesa con la Fiom, mentre io se c’era da scontrarsi non mi tiravo indietro. A volte non si andava d’accordo con altri delegati Fim per cui erano necessari dei chiarimenti in fabbrica e, qualche volta, anche con l’intervento della segreteria
Sono sempre stato trasparente nella mia attività. Gestivamo anche una cassa con cui davamo i rimborsi a coloro che sostenevano delle spese per partecipare alle diverse iniziative. Per chi andava a Brescia ad una riunione con la propria automobile il rimborso era di 15mila lire. Sono entrato nei direttivi della Fim provinciale e regionale. Mi sono trovato bene. Ho sempre partecipato attivamente alla vita della Fim, intervenendo, dicendo la mia e schierandomi se era necessario.
Quando si è sciolta la Flm la Fiom era in netta maggioranza, ma in breve tempo, caratterizzandoci maggiormente, la situazione è cambiata e siamo arrivati a 53/54% loro e 46/47% noi.
Quando si facevano le assemblee era come un convegno, con oltre mille persone. L’impegno cresceva sempre più e riuscivo sempre meno a seguire il mio lavoro e a quel punto ho dovuto far crescere un’altra persona che potesse sostituirmi mentre facevo attività sindacale.
In quei momenti l’azienda andava benissimo, faceva dei grossi ricavi, ma questo ha fatto nascere dei contrasti tra fratelli e parenti e ha innescato i primi problemi nella gestione che hanno portato alla vendita degli impianti e al cambio della proprietà. Contrasti tra i proprietari, problemi finanziari, intervento delle banche e cambi ripetuti degli amministratori, nuovi proprietari, vendita delle centrali idroelettriche: dopo il periodo del boom sono stati alla base delle difficoltà che ha vissuto l’azienda, oltre a quelle di mercato che sono seguite alla fase di crescita. Fino a quando è intervenuta l’attuale proprietà che ha ridato una direzione organica all’azienda.

Il settore ha sempre avuto degli alti e bassi e la produzione di macchinari ne risentiva. In una di queste fasi, sul finire degli anni ’70, come gruppo di lavoratori democristiani ci eravamo adoperati, riuscendo nell’intento, attraverso un sottosegretario bresciano, per fare avere un finanziamento all’azienda e l’amministratore delegato mi scrisse una lettera per ringraziarmi per il mio impegno.
La crisi è iniziata sul finire degli anni ’80. Il lavoro è calato drasticamente e l’azienda ha avuto un tracollo. Non ci sono più state assunzioni e il turn over è stato bloccato. Quando me ne sono andato nel ’98 i dipendenti erano più che dimezzati a circa seicento. Il calo è proseguito negli anni successivi e attualmente sono circa la metà.
Sono stati fatti più di tre anni di cassa integrazione, ma non ci sono stati licenziamenti. Siamo andati due volte al ministero dell’Industria per cercare di difendere il maggior numero di posti di lavoro, ma non abbiamo ottenuto nessuna garanzia. Eravamo però coscienti che con le innovazioni tecnologiche che erano state introdotte era naturale un certo ridimensionamento del personale. Inoltre si vedeva che il mercato era cambiato. La Marzoli partecipava sempre alle grandi fiere internazionali del settore e si capiva immediatamente quando il mercato era fermo.

Tutta la fase di crisi e di riduzione del personale è stata gestita unitariamente, ma in periodo in cui c’era stata un piccola ripresa sono sorti forti contrasti tra noi e la Fiom. Grazie ad una nuova macchina nel ’93, ’94 erano arrivati un certo numero di ordini e si doveva darci dentro per assicurare la fornitura. L’azienda chiese diciannove sabati lavorativi di 6 ore e la Fiom non era d’accordo sul farli. Il segretario della Fim non voleva rompere con la Fiom e puntava ad un accordo unitario. Io, viste le difficoltà iniziali, mi dichiarai subito disposto a farlo a livello aziendale se non si fosse arrivati ad un’intesa. I tempi si allungavano e la direzione chiedeva una riposta perché doveva dare il via alla commessa. Allora abbiamo fatto un’assemblea dove la Fiom avanzò la proposta di alcune assunzione temporanee per evadere l’ordine ma non si arrivò ad una conclusione. L’azienda rispose che il personale andava formato e non c’era più tempo e ci mise di fronte ad una scelta definitiva: o mi date la vostra disponibilità oppure non mi resta che decentrare ad altri la produzione oppure rinunciare all’ordine con le conseguenze negative sul futuro dello stabilimento già in crisi.  In quell'occasione a me parve di cogliere una certa disponibilità da parte dei lavoratori a lavorare il sabato. Sugli ottocento dipendenti di quel periodo erano interessati ai sabati lavorativi il sessanta per cento circa delle persone, tra cui anche alcuni impiegati. Abbiamo convocato una riunione del consiglio di fabbrica e lì si è verificata una rottura tra noi e la Fiom. A quel punto anche la segreteria della Fim era d’accordo con me e noi abbiamo dichiarato la nostra disponibilità a fare i diciannove sabati con un accordo che assicurava tra straordinari e premio un 73% in più della normale paga oraria. Ogni sabato si prendevano 110 mila lire lordi. La Fiom organizzò i picchettaggi e insultavano tutti coloro che entravano a lavorare, a me urlavano venduto, ma gli operai accettarono di buon grado di lavorare.  Dopo tre sabati la Fiom fu costretta a lasciar perdere perché anche gli iscritti alla Fiom avevano visto che i soldi promessi cominciavano ad arrivare e anche loro hanno deciso di entrare a lavorare. Alcuni mesi dopo la conclusione di questa vicenda ci fu il rinnovo del consiglio di fabbrica e la Fiom perse oltre il cinque per cento dei propri voti, la Fim guadagnò qualche iscritto.
Non si poteva dire di no ad un’azienda in quelle condizioni. Infatti, dopo sette o otto mesi, chiusa la commessa, ripartì la cassa integrazione.

Il giorno di Piazza della Loggia ero in sciopero, ma non ero andato in manifestazione. Ero uscito di casa per andare a comperare il giornale e mi ero fermato a chiacchierare con un collega che aveva avviato una attività in proprio e abbiamo sentito quello che era successo.

Nel 1984 sul referendum della scala mobile ci fu discussione anche tra di noi delegati, qualcuno era d’accordo, altri no. C’è stata anche la reazione negativa di alcuni iscritti che hanno disdetto la tessera perché non condividevano le scelte della Cisl. Un gruppetto è rimasto per un anno senza tessera, ma poi si sono iscritti nuovamente. Io ho dovuto fare un po’ il mediatore tra le diverse posizioni e tenere sotto controllo la situazione. Ma le tensioni sono durate pochi mesi, poi tutto è rientrato. Abbiamo fatto due o tre riunioni provinciali sulla questione del referendum, perché si è vissuto un periodo abbastanza difficile, di tensioni. Ci furono riunioni tempestose anche in casa Dc. Io mi ero schierato con Landi e gli autoconvocati, ma senza particolare passione e al referendum mi sono astenuto e ho votato scheda bianca. Dopo questo breve periodo i contrasti con la Fiom sono ripresi come sempre.

Alla Marzoli c’era un delegato della Fiom che ad un certo punto è passato alla Fim perché si era stancato di un metodo che tendeva e vedere dietro ogni fatto chissà quale disegno, mentre non si prendevano mai per quello che effettivamente erano. In occasione di un rinnovo del consiglio di fabbrica si è ripresentato con la Fim, è stato rieletto e ha portato con sé venti nuovi iscritti anche loro passati dalla Cgil alla Cisl.
Alla Marzoli non sono mai stati denunciati atti di violenza, ma c’erano persone che non facevano il loro dovere e sabotavano il lavoro. Ho avuto più volte discussioni con coloro che non spingevano come avrebbero dovuto, ma ho avuto discussioni anche con nostri iscritti che si tesseravano al sindacato come fosse un’assicurazione in grado di garantire ogni cosa, senza impegnarsi direttamente.

Una volta, in azienda, mi è giunta una mezza soffiata che in qualche modo volevano che smettessi il mio impegno sindacale. Però, il direttore dello stabilimento era un uomo politicizzato, anche lui democristiano, ed ho capito che sotto sotto condivideva le mie scelte.

Quando me ne sono andato ho dovuto dei riconoscimenti per il mio lavoro da parte dell’organizzazione e questo mi ha dato soddisfazione, indipendentemente dal valore degli oggetti avuti in dono: targa, orologio. Il gesto per me è stato importante.
La Camera di commercio mi ha premiato con una medaglia d’ora  e una pergamena dietro segnalazione dell’azienda quando sono andato in pensione, ma il giorno prima di ritirare il premio il figlio ha avuto un incidente con trauma cranico, fortunatamente superato.
Sono sempre al corrente della situazione aziendale e so che in questo momento stanno lavorando. Tutti  gli anni l’azienda organizza una festa e invita gli ex dipendenti. Hanno creato un museo interno dove sono esposte tutte le produzioni a partire dagli anni ’60.
Avrei potuto rimanere ancora a lavorare, ma i rischi di continuo allungamento dell’età pensionabile mi preoccupavano e poi che senso aveva restare quando si faceva continuamente cassa integrazione, e così me ne sono andato. Anche dal punto di vista sociale mi sembrava giusto fare questa scelta e sono andato in pensione. Però, poi, mi sono pentito. Nel primi mesi mi sentivo libero e dicevo che bello, ma poi è subentrata un po’ di paranoia, mi mancava l’ambiente di lavoro, ho fatto un po’ di volontariato, poi ho avuto problemi con mio fratello che è stato investito da un’automobile, anche mio figlio ha avuto un incidente, e io sono stato operato.
Non mi sono mai fermato e il mio impegno sociale e politico è sempre continuato, nonostante i problemi.
In particolare, mi sono impegnato a trasportare gli anziani che avevano bisogno di essere accompagnati dal medico, in ospedale o altrove, ma non l’ho fatto per molto perché mi facevano tenerezza. Io sono un chiacchierone ma sono anche emotivo e di fronte a queste situazioni non ho un gran coraggio.

Mia moglie non ha mai condiviso il mio impegno politico e sociale. Spesso, quando rincasavo tardi, dopo delle riunioni, dovevo prendere un tranquillante e lei si arrabbiava per questo e mi diceva di smetterla. Ma ora che non faccio politica tutto questo mi manca. Ho avuto due figli maschi. 
Mia mamma ci teneva, era quasi orgogliosa dell’impegno del figlio, i miei fratelli no. Cinque anni fa sono stato candidato alle elezioni provinciali con i Democratici prendendo un buon numero di preferenze.