Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Sono nato a Gardone Val Trompia il 26.12 del 1930,
vivo ancora a Gardone. La mia famiglia è una famiglia storica del posto. Si
ricorda Nazareno Cominassi del 1500/1600. Sono sposato con due figli, un
maschio e una femmina. La femmina è sposata e ho una nipotina. Il figlio no, è
un insegnante di matematica, è ancora in casa, si avvicina ai 40 e pare non se
ne voglia andare, visto che si trova bene con noi.
Mi sono diplomato alle magistrali nel 1950, ma sono un
maestro che non ha mai insegnato. Ai tempi i maestri facevano un po’ la fame e
allora mi sono dato da fare per trovare un altro lavoro e sono finito a fare
l’operatore sindacale per la Cisl.. Ho terminato le scuole a giugno e a ottobre
dello stesso anno l’onorevole Gitti, che era di Gardone, mi ha chiamato a
Brescia. E’ stato un salto un po’ brusco perché non avevo nessuna esperienza.
In verità facevo un po’ il postino. C’erano le miniere in alta valle, io andavo
su due o tre volte alla settimana, parlavo con i lavoratori, raccoglievo le
pratiche e le portavo in sede, praticamente facevo un po’ come l’odierno Inas.
Era un impegno che non mi piaceva, facevo il fattorino non il sindacalista. Ero
alle dipendenze della Cisl e mi davano 20mila lire al mese. Da allora sono
sempre stato iscritto. La sede era in via Matteotti, in un vecchio palazzo in
centro città. Poi siamo andati in viale Italia, quindi in via Zadei e ora nella
nuova sede in via Altipiani d'Asiago. Non è stata una bella esperienza, noi ci
lamentavamo con i nostri deputati, chiedevamo di essere mandati al Centro studi
di Firenze, per imparare a fare il sindacalisti, ma non c’è stato niente da
fare. Ma allora la Cisl – diciamolo a bassa voce – era piuttosto filo
padronale, più attenta a conciliare le esigenze delle aziende che quelle dei
lavoratori. C’era, è vero, il problema della guerra fredda e l’opposizione dei
comunisti. Ho un brutto ricordo di quel periodo, tanto è vero che ho smesso
quasi di colpo, perché non si vedevano prospettive, non crescevo, facevo il
portaborse. L’ambiente non era stimolante, si preferiva il quieto vivere.
Allora nel 1954 ho fatto domanda alla Beretta. Mi
hanno fatto fare un esame psico attitudinale che è andato molto bene e mi hanno
assunto come impiegato nell’ufficio paghe, dove facevo un lavoro da ragioniere.
Poi ho avuto un intermezzo alla mutua interna. Per finanziarla si trattenevano
i contributi sulle buste paga e le aziende ci tenevano perché erano interessate
alla disponibilità di quei soldi. Ho fatto l’impiegato della mutua fino al 67,
poi sono tornato all’ufficio paghe. Sono stato subito eletto commissario di
fabbrica, unico tra gli impiegati. I miei colleghi mi stimavano sul piano
personale per il mio impegno, però ero solo e avevo rapporti con gli operai,
perché loro non si muovevano. Da questo punto di vista è stata un’esperienza un
po’ dura. La proposta di entrare in commissione interna mi è stata fatta dal
gruppo dei democristiani di fabbrica che avevano capito che ero una persona che
poteva impegnarsi, ma poi venni lasciato solo.
Avevo frequentato dei corsi di formazione delle Acli,
ero presidente dell’Azione cattolica e tutte le settimane c’era l’adunanza, il
curato faceva una lezione e poi si discuteva. Così ho iniziato ad interessarmi
dei temi sociali, ma mi sono deciso quando i metalmeccanici della Cisl con
Castrezzati hanno iniziato a farsi sentire. Era il 1959. Castrezzati era un
uomo rigoroso, rigido.
Noi rimproveravamo a Pastore, Storti e alla dirigenza
Cisl di fare dei bei documenti che però venivano lasciati nel cassetto. Allora
ci siamo messi a cercare di realizzarli, facendo anche scioperi e rimostranze,
e la gente ci seguiva di più. Notavo che anche nell'attività politica, dove
c’erano grosse aziende e la Cisl faceva sindacato come si deve, anche la Dc,
cui la Cisl faceva riferimento, riscuoteva consenso. Allora c’era un diffuso
anticomunismo, forse un po’ meno antifascismo, anche tra i lavoratori
rappresentati dalla Cisl. Il rinnovamento nazionale dei metalmeccanici della
Fim è partito da Brescia.
Sono stato in segreteria con Castrezzati. E’ stata
anche questa un’esperienza non particolarmente positiva. C’era il gruppo Om che
faceva sempre da opposizione interna. Landi era il capo, lui operava però molto
anche nel partito, nella corrente di Pastore, e a mio giudizio lui voleva
contare nel partito in quanto dirigente sindacale. E voleva contare nel
sindacato perché aveva agganci nel partito di maggioranza. Poi nacque il
problema dell’autonomia e dell’incompatibilità e ci sono stati dei bei scontri
con quelli della Om. In Beretta da questo punto di vista non ci furono
problemi. Noi siamo sempre stati uniti alla segreteria, senza mai grandi
contrasti.
Ci fu una polemica con le Acli perché ci accusavano di
essere troppo rigidi, con Castrezzati picchiavamo un po’ troppo, facevamo gli
scioperi con una certa facilità e duri anche. Siccome ero iscritto anche alle
Acli, scrissi una lettera dicendo che se ci fosse stata una rottura tra le Acli
e la Cisl, io avrei scelto la Cisl. Le mie posizioni erano nette e convinte.
Una volta venne a trovarci il professor Guido Baglioni, che è di Gardone, del
1928, e anche quelli delle Acli, ma la Fim confermò le proprie posizioni. Se ho
avuto degli screzi, li ho avuti con il partito, mai con il sindacato. Per me il
sindacato veniva per primo.
Sono entrato in segreteria nel ’70, ero membro del
direttivo provinciale della Fim. In quel periodo c’è stata una guerra interna
tra Castrezzati e i suoi due colleghi di segreteria Braghini e Compagnoni.
Castrezzati si era ammalato ed era ricoverato e Compagnoni mi diceva addirittura
guai se vai a trovarlo, ma io andavo lo stesso. Venne convocato un Consiglio
generale e i due sono caduti in minoranza e sono andati via dai metalmeccanici
finendo in categorie diverse. In quel momento segretario della Cisl era Melino
Pillitteri. La segreteria Fim era sguarnita e allora mi hanno proposto di
entrare. Ci sono stato tre mesi a tempo pieno, con permesso sindacale
dell’azienda. Io non ero un gran parlatore, non c’erano ancora le assemblee di
fabbrica, si doveva andare a trovare gli operai nell’intervallo di mezzogiorno
o alla sera all’uscita dalla fabbrica o dopo cena. Si andava a casa a
mezzanotte o all’una. Io non ce l'ho fatta. Dopo tre mesi di segreteria ho
capito che era un impegno che non faceva per me e ho deciso di rientrare in fabbrica.
Penso di essere stato uno dei pochi.
Poi sono stato un’altra volta in segreteria, ma da
esterno. C’erano tre componenti a tempo pieno e due, io della Beretta, e
Manenti della Om, come esterni. Lavoravamo in fabbrica e andavamo in sede per
le riunioni di segreteria. Però ben presto abbiamo capito che noi eravamo
tagliati fuori, non eravamo informati e quindi non l'esperimento non ha
funzionato, anche se è durato per un intero mandato. Alla fine abbiamo deciso
che si doveva cambiare: o a tempo pieno o niente. E io sono tornato in
fabbrica, perché stare in segreteria voleva dire sacrificare la famiglia.
Nel 1957 ci fu un problema di ristrutturazione. La
Beretta aveva 1400/1550 dipendenti e doveva lasciarne a casa due/trecento. Era
venuto il segretario provinciale di allora che era Lucchese a dirci che si
doveva tenere duro, guai a licenziare. Ma dopo qualche settimana, stranamente,
i licenziamenti andavano bene. Aveva avuto dei contatti con Aib e aveva
cambiato idea. Poi le cose cambiarono con l’arrivo di Castrezzati. Però Beretta
non ha mai fatto attività antisindacale.
La raccolta delle iscrizioni è sempre stata difficile.
Negli anni cinquanta c’erano i collettori, ma facevano una grande fatica e
quando facevo l’operatore in zona li portavano a me. Con gli impiegati era
ancora più dura. Mi ricordo quando nel 1959/60 facemmo il primo contratto
nazionale in cui si decise che l’azienda metteva in busta un assegno di mille
lire al portatore. In portineria, prima dell’uscita, c’erano delle cassettine
dove i lavoratori mettevano questi assegni. Da quel momento il sindacato ha
cominciato ad avere un po’ di risorse. Prima, quando si veniva al direttivo
unitario la domenica, il viaggio dovevamo pagarlo con i nostri soldi. Ma allora
ci sembrava giusto così.
Alla Beretta nella Fim c’era un gruppo di 4 o 5
delegati che tirava tutti quanti. Quando la Cisl ha lanciato la politica della
contrattazione aziendale la Fiom all’inizio era piuttosto fredda, anche in
Beretta. Dicevano che in questo modo si voleva rompere l’unità dei lavoratori,
poi invece cambiarono atteggiamento. La Cisl sosteneva che il contratto
nazionale dovesse fissare solo i minimi salariali, perché ci sono aziende che
vanno bene e altre che invece hanno dei problemi, quindi bisogna vedere la
produttività di ogni azienda. Di conseguenza, dove c'era la possibilità si
chiedeva qualcosa di più e si facevano le vertenze. La Cisl spingeva in questa
direzione. Ci mandava anche dei tecnici, degli esperti per studiare come
contrattare i cottimi, i premi di produzione, la produttività e sostenerci
nelle trattative. Però facevamo gli scioperi per farli ammettere. L’azienda ci
convocava in Aib, ma prima di farli ricevere ci voleva una bella battaglia
perché non voleva riconoscerli. Abbiamo fatto dei buoni accordi, ma sempre con
la mediazione politica: con il sindaco Boni, con Padula.
Con la Fiom, anche durante i periodi di maggior
contrasto esterno come nel 1984, all’interno siamo sempre riusciti a lavorare
unitariamente. Anche se la Fiom aveva sempre fretta di aprire le vertenze e non
aveva mai fretta di chiuderle.
I rapporti con gli operai erano buoni, anche se io ero
rigido sulle questioni che riguardavano la linea sindacale e quindi qualche
volta le discussioni si facevano più aspre. Nell’ultimo periodo le vertenze
erano diventate più dure. L’azienda metteva in primo piano questioni di
principio, ma la realtà era che non voleva tirare fuori i soldi, e questo gli
amici della Fiom faticavano a capirlo. Ci hanno costretto ad andare a Roma per
chiudere le vertenze e la cosa faceva sorridere, perché di solito al ministero
ci andavano le aziende in crisi. La Beretta invece è sempre andata bene, si
autofinanziava, e ci costringeva ad andare a Roma semplicemente per concedere
un po’ meno di quanto si chiedeva. Sulle armi aveva un buon margine, vedevamo i
bilanci e lo si capiva bene.
Una volta, dopo un paio d’anni dal rinnovo del
contratto nazionale si doveva aprire la vertenza aziendale. Io proposi, prima
di aprire la vertenza, di fare un questionario tra tutti i lavoratori per
conoscere che cosa si doveva domandare. Tra le varie domande, proposi di
inserire: “Vuoi aprire la vertenza”. La Fiom era contraria, perché aveva paura
che la maggioranza rispondesse di no. Su questo abbiamo litigato per quasi
venti giorni, poi la domanda è stata inserita e la gente ha risposto
positivamente. Questi erano i rapporti con la Fiom, ma fratture non ce ne sono
mai state e tantomeno accordi separati. A volte si aveva l’impressione che
fossero più antagonisti nei confronti della Fim che non nei confronti
dell’azienda. Avevamo anche fiutato che ci fosse un filo rosso tra il capo del
personale e la Fiom, ma nulla di eclatante.
In occasione del referendum sulla contingenza nelle
assemblee ci furono contrasti molto duri con la Fiom. Ricordo che in una
assemblea con alcuni reparti al mattino aveva vinto la Fiom, ma il pomeriggio
nell'assemblea con gli altri lavoratori aveva vinto la Fim. Io avevo parlato
abbastanza duramente, ma alla Fiom sembrava di aver perso la guerra per come
aveva reagito, in verità ci aveva aiutato il voto degli impiegati.
Con l’azienda non ho mai avuto problemi, perché mi
sono sempre difeso sul piano professionale e la direzione mi ha sempre
rispettato, anche se non è che abbia potuto fare grandi cose, e l’azienda ha
sempre gestito gli impiegati come ha voluto. Io ho sempre partecipato alle
lotte, ma a quelle degli operai. Di riflesso andava qualcosa anche agli
impiegati, ma loro in occasione degli scioperi o entravano in azienda o si
mettevano in ferie. Il mio atteggiamento è sempre stato quello di risolvere i
problemi, non complicarli. In azienda, anche durante le vertenze più dure, che
sono durate anche tre, quattro mesi, non ho mai litigato con il capo del
personale, che probabilmente mi stimava.
I miei compagni di lavoro mi rispettavano perché ci
mettevo la faccia, apprezzavano il mio impegno e le mie posizioni. Scrivevo
anche degli articoli sul giornalino provinciale “Impegno sindacale”, però loro
non si esponevano. In occasione delle elezioni mi davano quasi tutti il loro
voto, ma poi se ne stavano in disparte. Gli ultimi anni, su duecento impiegati
saranno stati otto o dieci che facevano gli scioperi.
Quando sono nati i consigli di fabbrica sono sempre
stato eletto delegato, sempre nell’ufficio paghe. Col tempo ho acquisito
esperienza, facevo in fretta il mio lavoro e mi rimaneva tempo per andare a
girare nei reparti, andavo a trovare gli operai. La direzione me lo lasciava
fare e non ricordo che la Beretta abbia mai avuto un atteggiamento
antisindacale o minacciato rappresaglie. Certo non ho fatto carriera, non sono
mai diventato capo ufficio. Ma non ho vissuto male questo fatto, perché ero
convinto di ciò che facevo.
Mia moglie non si lamentava del mio impegno. L’ho
conosciuta in fabbrica. Lei era operaia e siccome io giravo tanto nei reparti
l’ho incontrata così. Era iscritta alla Fim e la scintilla è scattata in un
corso di formazione a Desenzano, dove c'era un bel centro delle Acli. Si
facevano al sabato e alla domenica. In quegli anni si discuteva di premi di
produttività, cottimi, questioni anche tecniche, cui partecipavano anche gli
iscritti, e si faceva formazione riferita alle questioni aziendali.
Ho partecipato anche a numerosi incontri di formazione
per dirigenti. Sono stato anche al Centro studi di Firenze, proprio nel periodo
in cui era direttore il professor Baglioni.
Sono rimasto in azienda fino all’85. Appena andato in
pensione sono venuto all’ufficio vertenze della Fim. C’era una signora molto
brava che faceva l’ufficio vertenze, era rimasta disoccupata perché era fallita
la sua aziendina, ha fatto il concorso alle Poste e avendolo vinto se n'è
andata. Il segretario provinciale Armando Scotuzzi mi disse che c’era l’ufficio
sguarnito. Io conoscevo le tematiche delle retribuzioni perché lavoravo
all’ufficio paghe. Mi ha chiamato e sono venuto qui a tempo pieno e sono
rimasto per circa dieci anni.
Adesso sono impegnato con i pensionati. Faccio il
coordinatore di zona della Val Trompia, anche se si fanno solo servizi e non
attività sindacale. Gite e feste. Non fanno mai assemblee. Stiamo cercando di
recuperare, inserendo gente nuova. I metalmeccanici che vanno in pensione non
trovano spazio perché o si fa il 730, il patronato oppure non ti vogliono, io
sto cercando di cambiare. Nella zona mi hanno sostenuto tutti, ma i miei amici
che mi conoscono bene non mi volevano, perché sanno che io non sto fermo e
anche i pensionati devono fare sindacato e non limitarsi ai servizi e trovarsi
ogni tanto.
Sono stato presidente della Casa di riposo di Gardone,
poi quella casa di risposo è diventata un ospedale e sono stato il primo
presidente dell’ospedale di Gardone. Lo sono stato per cinque anni, dal 72 al
77, nel momento in cui ero molto impegnato anche nel sindacato. Fortunatamente
avevo un buon segretario, fedele al presidente. All’inizio facevamo fatica a
trovare il personale. Avevamo bisogno di infermieri professionali, di
ostetriche, ma la gente non si fidava tanto di un ospedale nuovo.
In quel periodo ho trovato comprensione nel sindacato
per quel mio impegno e comunque la segreteria provinciale era informata.
Sono stato iscritto alla Dc, membro dei direttivo locale, ma non mi sono
mai impegnato attivamente. All’epoca del referendum sul divorzio ho preso
posizione con Scoppola e i cattolici democratici a favore del divorzio e il mio
sindaco, con cui ci davamo del tu, non mi salutava più, ma poi ci siamo
riconciliati, anche perché accettando la carica di presidente dell’ospedale
l'ho aiutato ad uscire dai litigi che si erano accesi tra chi aspirava a quel
posto. Evidentemente ero stimato in paese.