lunedì 27 aprile 2020

MARCO COMINASSI - Armi Beretta – Gardone Val Trompia (Bs)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Sono nato a Gardone Val Trompia il 26.12 del 1930, vivo ancora a Gardone. La mia famiglia è una famiglia storica del posto. Si ricorda Nazareno Cominassi del 1500/1600. Sono sposato con due figli, un maschio e una femmina. La femmina è sposata e ho una nipotina. Il figlio no, è un insegnante di matematica, è ancora in casa, si avvicina ai 40 e pare non se ne voglia andare, visto che si trova bene con noi.

Mi sono diplomato alle magistrali nel 1950, ma sono un maestro che non ha mai insegnato. Ai tempi i maestri facevano un po’ la fame e allora mi sono dato da fare per trovare un altro lavoro e sono finito a fare l’operatore sindacale per la Cisl.. Ho terminato le scuole a giugno e a ottobre dello stesso anno l’onorevole Gitti, che era di Gardone, mi ha chiamato a Brescia. E’ stato un salto un po’ brusco perché non avevo nessuna esperienza. In verità facevo un po’ il postino. C’erano le miniere in alta valle, io andavo su due o tre volte alla settimana, parlavo con i lavoratori, raccoglievo le pratiche e le portavo in sede, praticamente facevo un po’ come l’odierno Inas. Era un impegno che non mi piaceva, facevo il fattorino non il sindacalista. Ero alle dipendenze della Cisl e mi davano 20mila lire al mese. Da allora sono sempre stato iscritto. La sede era in via Matteotti, in un vecchio palazzo in centro città. Poi siamo andati in viale Italia, quindi in via Zadei e ora nella nuova sede in via Altipiani d'Asiago. Non è stata una bella esperienza, noi ci lamentavamo con i nostri deputati, chiedevamo di essere mandati al Centro studi di Firenze, per imparare a fare il sindacalisti, ma non c’è stato niente da fare. Ma allora la Cisl – diciamolo a bassa voce – era piuttosto filo padronale, più attenta a conciliare le esigenze delle aziende che quelle dei lavoratori. C’era, è vero, il problema della guerra fredda e l’opposizione dei comunisti. Ho un brutto ricordo di quel periodo, tanto è vero che ho smesso quasi di colpo, perché non si vedevano prospettive, non crescevo, facevo il portaborse. L’ambiente non era stimolante, si preferiva il quieto vivere.

Allora nel 1954 ho fatto domanda alla Beretta. Mi hanno fatto fare un esame psico attitudinale che è andato molto bene e mi hanno assunto come impiegato nell’ufficio paghe, dove facevo un lavoro da ragioniere. Poi ho avuto un intermezzo alla mutua interna. Per finanziarla si trattenevano i contributi sulle buste paga e le aziende ci tenevano perché erano interessate alla disponibilità di quei soldi. Ho fatto l’impiegato della mutua fino al 67, poi sono tornato all’ufficio paghe. Sono stato subito eletto commissario di fabbrica, unico tra gli impiegati. I miei colleghi mi stimavano sul piano personale per il mio impegno, però ero solo e avevo rapporti con gli operai, perché loro non si muovevano. Da questo punto di vista è stata un’esperienza un po’ dura. La proposta di entrare in commissione interna mi è stata fatta dal gruppo dei democristiani di fabbrica che avevano capito che ero una persona che poteva impegnarsi, ma poi venni lasciato solo.

Avevo frequentato dei corsi di formazione delle Acli, ero presidente dell’Azione cattolica e tutte le settimane c’era l’adunanza, il curato faceva una lezione e poi si discuteva. Così ho iniziato ad interessarmi dei temi sociali, ma mi sono deciso quando i metalmeccanici della Cisl con Castrezzati hanno iniziato a farsi sentire. Era il 1959. Castrezzati era un uomo rigoroso, rigido.
Noi rimproveravamo a Pastore, Storti e alla dirigenza Cisl di fare dei bei documenti che però venivano lasciati nel cassetto. Allora ci siamo messi a cercare di realizzarli, facendo anche scioperi e rimostranze, e la gente ci seguiva di più. Notavo che anche nell'attività politica, dove c’erano grosse aziende e la Cisl faceva sindacato come si deve, anche la Dc, cui la Cisl faceva riferimento, riscuoteva consenso. Allora c’era un diffuso anticomunismo, forse un po’ meno antifascismo, anche tra i lavoratori rappresentati dalla Cisl. Il rinnovamento nazionale dei metalmeccanici della Fim è partito da Brescia.

Sono stato in segreteria con Castrezzati. E’ stata anche questa un’esperienza non particolarmente positiva. C’era il gruppo Om che faceva sempre da opposizione interna. Landi era il capo, lui operava però molto anche nel partito, nella corrente di Pastore, e a mio giudizio lui voleva contare nel partito in quanto dirigente sindacale. E voleva contare nel sindacato perché aveva agganci nel partito di maggioranza. Poi nacque il problema dell’autonomia e dell’incompatibilità e ci sono stati dei bei scontri con quelli della Om. In Beretta da questo punto di vista non ci furono problemi. Noi siamo sempre stati uniti alla segreteria, senza mai grandi contrasti.
Ci fu una polemica con le Acli perché ci accusavano di essere troppo rigidi, con Castrezzati picchiavamo un po’ troppo, facevamo gli scioperi con una certa facilità e duri anche. Siccome ero iscritto anche alle Acli, scrissi una lettera dicendo che se ci fosse stata una rottura tra le Acli e la Cisl, io avrei scelto la Cisl. Le mie posizioni erano nette e convinte. Una volta venne a trovarci il professor Guido Baglioni, che è di Gardone, del 1928, e anche quelli delle Acli, ma la Fim confermò le proprie posizioni. Se ho avuto degli screzi, li ho avuti con il partito, mai con il sindacato. Per me il sindacato veniva per primo.
Sono entrato in segreteria nel ’70, ero membro del direttivo provinciale della Fim. In quel periodo c’è stata una guerra interna tra Castrezzati e i suoi due colleghi di segreteria Braghini e Compagnoni. Castrezzati si era ammalato ed era ricoverato e Compagnoni mi diceva addirittura guai se vai a trovarlo, ma io andavo lo stesso. Venne convocato un Consiglio generale e i due sono caduti in minoranza e sono andati via dai metalmeccanici finendo in categorie diverse. In quel momento segretario della Cisl era Melino Pillitteri. La segreteria Fim era sguarnita e allora mi hanno proposto di entrare. Ci sono stato tre mesi a tempo pieno, con permesso sindacale dell’azienda. Io non ero un gran parlatore, non c’erano ancora le assemblee di fabbrica, si doveva andare a trovare gli operai nell’intervallo di mezzogiorno o alla sera all’uscita dalla fabbrica o dopo cena. Si andava a casa a mezzanotte o all’una. Io non ce l'ho fatta. Dopo tre mesi di segreteria ho capito che era un impegno che non faceva per me e ho deciso di rientrare in fabbrica. Penso di essere stato uno dei pochi.
Poi sono stato un’altra volta in segreteria, ma da esterno. C’erano tre componenti a tempo pieno e due, io della Beretta, e Manenti della Om, come esterni. Lavoravamo in fabbrica e andavamo in sede per le riunioni di segreteria. Però ben presto abbiamo capito che noi eravamo tagliati fuori, non eravamo informati e quindi non l'esperimento non ha funzionato, anche se è durato per un intero mandato. Alla fine abbiamo deciso che si doveva cambiare: o a tempo pieno o niente. E io sono tornato in fabbrica, perché stare in segreteria voleva dire sacrificare la famiglia.

Nel 1957 ci fu un problema di ristrutturazione. La Beretta aveva 1400/1550 dipendenti e doveva lasciarne a casa due/trecento. Era venuto il segretario provinciale di allora che era Lucchese a dirci che si doveva tenere duro, guai a licenziare. Ma dopo qualche settimana, stranamente, i licenziamenti andavano bene. Aveva avuto dei contatti con Aib e aveva cambiato idea. Poi le cose cambiarono con l’arrivo di Castrezzati. Però Beretta non ha mai fatto attività antisindacale.
La raccolta delle iscrizioni è sempre stata difficile. Negli anni cinquanta c’erano i collettori, ma facevano una grande fatica e quando facevo l’operatore in zona li portavano a me. Con gli impiegati era ancora più dura. Mi ricordo quando nel 1959/60 facemmo il primo contratto nazionale in cui si decise che l’azienda metteva in busta un assegno di mille lire al portatore. In portineria, prima dell’uscita, c’erano delle cassettine dove i lavoratori mettevano questi assegni. Da quel momento il sindacato ha cominciato ad avere un po’ di risorse. Prima, quando si veniva al direttivo unitario la domenica, il viaggio dovevamo pagarlo con i nostri soldi. Ma allora ci sembrava giusto così.
Alla Beretta nella Fim c’era un gruppo di 4 o 5 delegati che tirava tutti quanti. Quando la Cisl ha lanciato la politica della contrattazione aziendale la Fiom all’inizio era piuttosto fredda, anche in Beretta. Dicevano che in questo modo si voleva rompere l’unità dei lavoratori, poi invece cambiarono atteggiamento. La Cisl sosteneva che il contratto nazionale dovesse fissare solo i minimi salariali, perché ci sono aziende che vanno bene e altre che invece hanno dei problemi, quindi bisogna vedere la produttività di ogni azienda. Di conseguenza, dove c'era la possibilità si chiedeva qualcosa di più e si facevano le vertenze. La Cisl spingeva in questa direzione. Ci mandava anche dei tecnici, degli esperti per studiare come contrattare i cottimi, i premi di produzione, la produttività e sostenerci nelle trattative. Però facevamo gli scioperi per farli ammettere. L’azienda ci convocava in Aib, ma prima di farli ricevere ci voleva una bella battaglia perché non voleva riconoscerli. Abbiamo fatto dei buoni accordi, ma sempre con la mediazione politica: con il sindaco Boni, con Padula.
Con la Fiom, anche durante i periodi di maggior contrasto esterno come nel 1984, all’interno siamo sempre riusciti a lavorare unitariamente. Anche se la Fiom aveva sempre fretta di aprire le vertenze e non aveva mai fretta di chiuderle.
I rapporti con gli operai erano buoni, anche se io ero rigido sulle questioni che riguardavano la linea sindacale e quindi qualche volta le discussioni si facevano più aspre. Nell’ultimo periodo le vertenze erano diventate più dure. L’azienda metteva in primo piano questioni di principio, ma la realtà era che non voleva tirare fuori i soldi, e questo gli amici della Fiom faticavano a capirlo. Ci hanno costretto ad andare a Roma per chiudere le vertenze e la cosa faceva sorridere, perché di solito al ministero ci andavano le aziende in crisi. La Beretta invece è sempre andata bene, si autofinanziava, e ci costringeva ad andare a Roma semplicemente per concedere un po’ meno di quanto si chiedeva. Sulle armi aveva un buon margine, vedevamo i bilanci e lo si capiva bene.
Una volta, dopo un paio d’anni dal rinnovo del contratto nazionale si doveva aprire la vertenza aziendale. Io proposi, prima di aprire la vertenza, di fare un questionario tra tutti i lavoratori per conoscere che cosa si doveva domandare. Tra le varie domande, proposi di inserire: “Vuoi aprire la vertenza”. La Fiom era contraria, perché aveva paura che la maggioranza rispondesse di no. Su questo abbiamo litigato per quasi venti giorni, poi la domanda è stata inserita e la gente ha risposto positivamente. Questi erano i rapporti con la Fiom, ma fratture non ce ne sono mai state e tantomeno accordi separati. A volte si aveva l’impressione che fossero più antagonisti nei confronti della Fim che non nei confronti dell’azienda. Avevamo anche fiutato che ci fosse un filo rosso tra il capo del personale e la Fiom, ma nulla di eclatante.
In occasione del referendum sulla contingenza nelle assemblee ci furono contrasti molto duri con la Fiom. Ricordo che in una assemblea con alcuni reparti al mattino aveva vinto la Fiom, ma il pomeriggio nell'assemblea con gli altri lavoratori aveva vinto la Fim. Io avevo parlato abbastanza duramente, ma alla Fiom sembrava di aver perso la guerra per come aveva reagito, in verità ci aveva aiutato il voto degli impiegati.
Con l’azienda non ho mai avuto problemi, perché mi sono sempre difeso sul piano professionale e la direzione mi ha sempre rispettato, anche se non è che abbia potuto fare grandi cose, e l’azienda ha sempre gestito gli impiegati come ha voluto. Io ho sempre partecipato alle lotte, ma a quelle degli operai. Di riflesso andava qualcosa anche agli impiegati, ma loro in occasione degli scioperi o entravano in azienda o si mettevano in ferie. Il mio atteggiamento è sempre stato quello di risolvere i problemi, non complicarli. In azienda, anche durante le vertenze più dure, che sono durate anche tre, quattro mesi, non ho mai litigato con il capo del personale, che probabilmente mi stimava.
I miei compagni di lavoro mi rispettavano perché ci mettevo la faccia, apprezzavano il mio impegno e le mie posizioni. Scrivevo anche degli articoli sul giornalino provinciale “Impegno sindacale”, però loro non si esponevano. In occasione delle elezioni mi davano quasi tutti il loro voto, ma poi se ne stavano in disparte. Gli ultimi anni, su duecento impiegati saranno stati otto o dieci che facevano gli scioperi.
Quando sono nati i consigli di fabbrica sono sempre stato eletto delegato, sempre nell’ufficio paghe. Col tempo ho acquisito esperienza, facevo in fretta il mio lavoro e mi rimaneva tempo per andare a girare nei reparti, andavo a trovare gli operai. La direzione me lo lasciava fare e non ricordo che la Beretta abbia mai avuto un atteggiamento antisindacale o minacciato rappresaglie. Certo non ho fatto carriera, non sono mai diventato capo ufficio. Ma non ho vissuto male questo fatto, perché ero convinto di ciò che facevo.

Mia moglie non si lamentava del mio impegno. L’ho conosciuta in fabbrica. Lei era operaia e siccome io giravo tanto nei reparti l’ho incontrata così. Era iscritta alla Fim e la scintilla è scattata in un corso di formazione a Desenzano, dove c'era un bel centro delle Acli. Si facevano al sabato e alla domenica. In quegli anni si discuteva di premi di produttività, cottimi, questioni anche tecniche, cui partecipavano anche gli iscritti, e si faceva formazione riferita alle questioni aziendali.
Ho partecipato anche a numerosi incontri di formazione per dirigenti. Sono stato anche al Centro studi di Firenze, proprio nel periodo in cui era direttore il professor Baglioni.

Sono rimasto in azienda fino all’85. Appena andato in pensione sono venuto all’ufficio vertenze della Fim. C’era una signora molto brava che faceva l’ufficio vertenze, era rimasta disoccupata perché era fallita la sua aziendina, ha fatto il concorso alle Poste e avendolo vinto se n'è andata. Il segretario provinciale Armando Scotuzzi mi disse che c’era l’ufficio sguarnito. Io conoscevo le tematiche delle retribuzioni perché lavoravo all’ufficio paghe. Mi ha chiamato e sono venuto qui a tempo pieno e sono rimasto per circa dieci anni.
Adesso sono impegnato con i pensionati. Faccio il coordinatore di zona della Val Trompia, anche se si fanno solo servizi e non attività sindacale. Gite e feste. Non fanno mai assemblee. Stiamo cercando di recuperare, inserendo gente nuova. I metalmeccanici che vanno in pensione non trovano spazio perché o si fa il 730, il patronato oppure non ti vogliono, io sto cercando di cambiare. Nella zona mi hanno sostenuto tutti, ma i miei amici che mi conoscono bene non mi volevano, perché sanno che io non sto fermo e anche i pensionati devono fare sindacato e non limitarsi ai servizi e trovarsi ogni tanto.

Sono stato presidente della Casa di riposo di Gardone, poi quella casa di risposo è diventata un ospedale e sono stato il primo presidente dell’ospedale di Gardone. Lo sono stato per cinque anni, dal 72 al 77, nel momento in cui ero molto impegnato anche nel sindacato. Fortunatamente avevo un buon segretario, fedele al presidente. All’inizio facevamo fatica a trovare il personale. Avevamo bisogno di infermieri professionali, di ostetriche, ma la gente non si fidava tanto di un ospedale nuovo.
In quel periodo ho trovato comprensione nel sindacato per quel mio impegno e comunque la segreteria provinciale era informata.
Sono stato iscritto alla Dc, membro dei direttivo locale, ma non mi sono mai impegnato attivamente. All’epoca del referendum sul divorzio ho preso posizione con Scoppola e i cattolici democratici a favore del divorzio e il mio sindaco, con cui ci davamo del tu, non mi salutava più, ma poi ci siamo riconciliati, anche perché accettando la carica di presidente dell’ospedale l'ho aiutato ad uscire dai litigi che si erano accesi tra chi aspirava a quel posto. Evidentemente ero stimato in paese.