sabato 28 marzo 2020

LUIGI BELOTTI - Falck Unione - Sesto San Giovanni (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Dall'oratorio alla fabbrica. Il sindacato bianco nella Stalingrado d’Italia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Sono nato a Gandosso, in provincia di Bergamo, il 29.3.1929. Ho frequentato la quarta elementare, la quinta l’ho completata dopo il 1948 e  con le 150 ore ho preso la licenza media a Sesto San Giovanni.
Ho iniziato a lavorare come dipendente stagionale a 18 anni, nel 1947, in una fornace in provincia di Milano, a Solaro. Prima avevo lavorato in campagna, in estate, facendo mestieri vari. Sono stato in fornace tre stagioni, spostandomi in altre zone, fino a quando, prima del servizio militare, sono stato assunto alla Snam, a fare scavi per le tubature del metano. Siamo partiti da Cremona e siamo arrivati a Vicenza. Dopo il servizio di leva ho lavorato alla Snam ancora per un anno, quindi sono tornato in fornace fino a quando, nel 1955, sono entrato in Falck, in acciaieria. I primi nove mesi ero dipendente di una cooperativa, poi mi hanno assunto. Ero addetto alle siviere. Ho fatto quel lavoro per 13 anni, su tre turni, fino al 1968. Come conseguenza dell’impegno sindacale, sono passato al turno giornaliero e sono stato distaccato nel consiglio di fabbrica per 12 anni. Sono rimasto in Falck  fino a fine 1979. Nel 1980 sono uscito come sindacalista a tempo pieno occupandomi dei salariati agricoli.

Ho iniziato a impegnarmi nel sindacato nel 1947, nella Cgil unitaria. E’ stato mentre lavoravo nelle fornaci. Ogni tanto arrivava un operatore sindacale e parlavamo dei nostri problemi. Così abbiamo scoperto che non ci erano state pagate delle festività e lui ha scritto all'azienda per chiederne il pagamento. Ricevuta la lettera, è venuto in fornace il proprietario chiedendo cosa ci fosse che non andava. I lavoratori avevano paura del padrone e sono spariti tutti, così mi sono ritrovato da solo. Parlando tra di noi, sembrava lo volessero uccidere, ma di fronte a lui avevano perso ogni coraggio. Io ho parlato con il titolare, mi ha fatto andare in ufficio e abbiamo risolto il problema. Così sono diventato il loro delegato. Ogni tanto, la domenica, partecipavo alle riunioni sindacali alla sede di Porta Vittoria. 
Passando alla Snam non ho più rinnovato la tessera, anche perché si cambiava sempre posto di lavoro, da una provincia all'altra.
Quando ho ripreso a lavorare in fornace mi sono iscritto alla Cgil nel momento in cui, a fine stagione, abbiamo fatto una vertenza. Esisteva già la Cisl, ma non da noi e piuttosto che essere senza tessera del sindacato ho preso quella della Cgil. Anche in quell'occasione mi sono trovato ad essere il punto di riferimento. Io dicevo la mia e gli altri mi lasciavano andare avanti. All'apertura della vertenza eravamo in 26, il giorno dopo siamo rimasti in quattro, ma abbiamo vinto. Quella è stata la prima volta che sono andato in Assolombarda, ma in quell'occasione il proprietario della fornace aveva segnalato il mio nome come agitatore sindacale. L’anno successivo, avevo trovato un posto di lavoro a Bovisio, ma quasi subito in fornace è arrivato un impiegato e mi ha detto che non potevo restarci perché non ero gradito e ho dovuto andarmene.
Anche in Falck conoscevano il mio nome come attivista sindacale, ma il capo del personale sapeva che ero segretario della Dc del mio paese e venivo da una famiglia cattolica. Li probabilmente mi hanno tenuto per quello.
Appena entrato ho cercato il rappresentante della Cisl per iscrivermi e da allora ho cominciato a pagare i bollini mensili per la tessera.
Ogni anno si tenevano le elezioni della commissione interna e in vista delle votazioni si facevano delle riunioni. Io avevo una posizione critica e sostenevo che si dovesse lottare per ridurre l’orario di lavoro e non lavorare la domenica per ottenere degli aumenti. Il lunedì ci riunivamo con il segretario della Fim di Milano, Pietro Seveso, e io intervenivo e portavo avanti le mie richieste, così mi hanno proposto di entrare in commissione interna. Mi hanno messo in lista e nel 1959 sono stato eletto.

Un giorno, come Fim del mio reparto, abbiamo dichiarato lo sciopero per chiedere che non si lavorasse la domenica, perché sostenevamo che si potessero tenere i forni accesi senza fare produzione. Ne avevo parlato con l’operatore della Cisl di Sesto, avevamo preparato un volantino e l’avevamo distribuito nei giorni precedenti. A quei tempi quando la Cgil dichiarava gli scioperi faceva i picchetti per non fare entrare i lavoratori. Così il sabato venni chiamato dal direttore del reparto che mi chiese se l’indomani avremmo organizzato i picchetti e io risposi che sarei andato a messa. “Io lotto anche perché la domenica voglio andare a messa”. Non è entrato nessuno, è stato uno sciopero generalizzato cui hanno partecipato tutti.
Visto il successo, siamo stati chiamati in direzione, abbiamo iniziato a trattare e abbiamo ottenuto dodici domeniche di riposo oltre a un corrispettivo per il lavoro festivo. L’anno successivo, al rinnovo della commissione, ho preso più voti di tutti.
Ho avuto parecchie discussioni con i capi e la direzione e una volta mi hanno anche minacciato di licenziamento, ma tutto si è risolto per il meglio e da allora ho sempre avuto un rapporto corretto con la direzione della Falck. Quando andavo in ufficio a porre dei problemi venivo ascoltato.
Io mi sono sentito un protagonista alla Falck. Per ogni problema venivano da me, anche se non erano questioni del mio reparto. Partecipavo a tutte le trattative, anche in Assolombarda. Sapevo come negoziare. In una trattativa per l’acciaieria ho chiesto che fossero presenti anche gli operai. Sono venuti in duecento e il confronto si è svolta davanti a loro. A mezzogiorno abbiamo fatto l’accordo.
La Falck è stata un’azienda magari inflessibile, ma sempre corretta. Lo dicevano anche quelli della Cgil. Se si faceva un accordo, veniva rispettato. Un comportamento mantenuto a lungo: fino a quando noi siamo stati corretti l’azienda ha fatto altrettanto. Poi, nel ’69, sono subentrati comportamenti diversi da parte nostra. Si firmavano accordi e il giorno dopo si buttavano all'aria. Allora anche l’azienda è cambiata.
Da commissario sono stato eletto delegato. Ero un carnitiano e tutto ciò che andava nell'interesse dei lavoratori lo condividevo. L’unità la sentivo. L’idea era che mettendosi insieme avremmo ottenuto di più. La mia scelta è sempre stata una: non andrò mai dalla parte dei padroni.
Abbiamo fatto scioperi molto duri, tra fine anni ’60 e inizio ’70, fermandoci un giorno si e l’altro no. La busta paga era leggera, ma sopportavamo perché ci credevamo, anche se qualche volta i padri di famiglia, come ero anch'io, non riuscivano a portare a casa i soldi per mantenere la famiglia. L’unità sull'aspetto rivendicativo funzionava. Da questo punto di vista non c’è mai stato problema, era quando subentrava la politica che sorgevano i problemi.
C’è stato un periodo in cui si facevano gli scioperi articolati, l’azienda decise di pagare solo le ore di lavoro che facevamo effettivamente, così abbiamo preso il 20 per cento della paga. C’era gente che non ce la faceva più ad andare avanti in quel modo e anch'io ero in quelle condizioni. A un certo punto ho chiamato il segretario della Fim, che mi disse che erano tre mesi che cercava di aprire una trattativa con la Falck, ma la direzione non rispondeva. Gli ho proposto di dare a me il compito di contattare l’azienda e lui mi autorizzò a fare quel che ritenevo meglio. Ho telefonato a un dirigente per verificare la possibilità di un incontro, questi ne ha parlato con il direttore generale della Fack e poco dopo, erano le sei di sera, mi hanno chiamato dal reparto. Al direttore ho detto: “La sua situazione è diversa dalla nostra, di persone che hanno famiglia. Noi siamo preoccupati perché non sappiamo come andare avanti, lei invece sta godendo della nostra situazione e non ci permette nemmeno di avere un incontro”. “Lo chieda ai suoi sindacalisti il perché”, rispose. E io, di rimando: “Lo chiederò anche a loro, ma prima lo chiedo a lei”. Il giorno dopo ci siamo trovati in un bar a Milano, in piazza Castello. Ho preso un cappuccino. “Cosa mi da, per avere l’incontro?”. “Niente le do, solo una cosa le devo dire. Se partirà la trattativa, l’incontro andrà avanti fino a quando non avremo trovato un’intesa, perché io prenderò le chiavi e chiuderò tutti dentro la sala delle riunioni”. La trattativa è partita il giorno dopo, è durata 36 ore continuative, ma abbiamo fatto l’accordo. Nessuno ha mai saputo del nostro appuntamento.
Durante il periodo delle lotte degli anni ’70, quando si faceva sciopero d’inverno, si accendevano i fuochi davanti ai cancelli, si bruciavano i copertoni dei camion che facevano un gran fumo. L’ufficio del direttore dello stabilimento era proprio li sopra e qualcuno ha lanciato dei sassi rompendo il vetro della finestra e le stanze si sono riempite di fumo. In seguito a questo fatto ci hanno comunicato che avrebbero denunciato alla Procura di Monza tutti i delegati presenti. Prima ci hanno convocato in direzione e ci hanno mostrato la lettera che stavano per spedire al magistrato. Qualcuno ha iniziato a dire che i delegati non c’entravano niente con il lancio delle pietre. E’ stato un momento di grande tensione, poi finalmente siamo riusciti a tranquillizzare gli animi. A quel punto, rivolto al direttore, ho detto: “Mi dia quella lettera”. “E cosa ne fa?”, chiese. “La straccio”. Altre persone della direzione si sono scatenate contro di me: “Ma cosa pretende? Chi crede di essere?”. Il direttore, però, mi ha dato la lettera e io l’ho stracciata. L’avevo detto ai miei compagni che avrei fatto quel gesto, ma ho anche detto che noi avremmo dovuto cambiare comportamento.
Dopo due mesi, ero in mensa in acciaieria, è venuto da me il direttore e mi ha detto: “La devo ringraziare”. C’era una gran confusione in quel periodo e poteva capitare di tutto. Fortunatamente le cose si sono risolte nel migliore dei modi e non si sono più verificati episodi di vandalismo.

Per me è stato facile fare il sindacalista alla Falck. Perché la Fiom era più propensa a fare quello che diceva il Partito comunista. Quando facevamo delle proposte per raggiungere delle intese loro non erano mai d’accordo. Noi firmavamo gli accordi, loro li firmavano dopo un anno, però li firmavano. In questo modo noi abbiamo conquistato più consenso.
Quando sono entrato in Falck si diceva che ci fosse un certo connubio tra Cisl e azienda, che l’azienda parteggiasse per i sindacalisti della Cisl e le intese sindacali venissero decise tra l’azienda e la Fim, ma io ho dato un taglio a questa impostazione, perché il sindacato è il sindacato e i padroni sono i padroni. Quando nelle prime trattativa mi sono accorto che qualche dirigente dell’azienda tentava in qualche modo di mostrarsi vicino alla Cisl, sono intervenuto dicendo che avremmo messo uno sbarramento tra le parti, che non dovevano confondersi. Noi facciamo  il nostro mestiere e voi fate il vostro.
In Falck pian piano abbiamo raggiunto lo stesso numero di iscritti della Fiom e se non ci fosse stato il tesseramento unitario della Flm probabilmente li avremmo superati. Quando sono entrato in fabbrica la Fiom aveva forse più dell’80% degli iscritti, nel ‘65, ‘66 siamo riusciti ad avere lo stesso numero di tesserati e gli stessi voti. Noi ci siamo spesi fino in fondo, non mi sono mai arreso e non mi sono mai preoccupato perché di fronte a me c’erano persone più preparate che potevano accusarmi di non capire niente. Io mi sono sempre sentito un protagonista.  A quei tempi sembrava che fosse solo la sinistra a difendere i lavoratori e io dicevo, perché noi non possiamo fare come loro e meglio di loro? Me lo sono chiesto già quando avevo 18, 19 anni, e mi sono sempre impegnato per questo.

Il rapporto tra Fim e Fiom è sempre stato teso. La calunnia della Cgil era tremenda, addirittura dicevano delle cose che non avevo fatto o si attribuivano dei meriti per cose che facevo io. Io gli dicevo: “Se voi riuscite a mettere in croce un cislino, vi danno una medaglia. Se noi raccontiamo bugie dobbiamo andare a confessarci”. Nel mio reparto, però, i rapporti tra Fim e Fiom erano corretti. Sulle questioni generali, invece, il confronto era aspro. Fuori dalla fabbrica, quando ci si trovava a discutere, le discussioni erano sempre tese, ognuno sosteneva le sue posizioni, ma non ci sono mai stati scontri fisici.
Intorno al 1962, ‘63, c’era una trattativa a livello di gruppo e in quell'occasione la Fiom che trattava era favorevole alla firma dell’accordo, ma la Cgil non voleva, così alla fine abbiamo firmato solo noi. A quel punto la Fiom ha dichiarato uno sciopero  in acciaieria contro l’intesa che noi avevamo sostenuto. E’ stata brutta. Quando entravo in fabbrica mi minacciavano pesantemente: “Ti bruciamo, ti buttiamo nel forno”. Ho avuto anche un esaurimento per quella vicenda. Un giorno, dopo avere fermato il reparto, numerosi iscritti alla Fiom ci hanno circondato minacciosamente. Eravamo io e un impiegato iscritto alla Cisl. C’era un operaio della Fiom, membro della commissione interna, che inveiva contro di noi e poco distante le guardie dell’azienda che temevano potesse succedere qualcosa di grave. Ci ha salvati il capo del reparto dove lavorava il commissario, che è intervenuto con decisione a bloccarlo. Lo ha preso per lo stomaco e gli ha detto che era un delinquente per quello che stava facendo contro di noi. Quella volta abbiamo davvero rischiato. Io ho resisto alle pressioni e minacce che sono andate avanti per parecchio tempo, ma dopo alcuni giorni sono crollato e mi hanno portato all'ospedale. Questo è stato l’unico episodio violento. Io, però, non ho mai mollato. 
Non avevo paura, perché in cuor mio pensavo che non avrebbero mai attuato le minacce verbali nei miei confronti. Un lavoratore, padre di 4 figli, non lo avrebbero mai buttato nel forno. Per questo a volte li sfidavo. Una volta, durante un comizio fuori dallo stabilimento, è nata una discussione con un operaio Fiom, attivista di Lotta continua, per le canzoni che si facevano suonare prima dell’inizio. Io ho detto che dovevano mettere l’inno dei lavoratori e loro hanno fatto suonare “Bandiera rossa”. Allora ho tolto il disco dal giradischi e l’ho buttato via. Sul momento non è successo nulla, ma al rientro in reparto sono stato avvicinato da uno che mi ha minacciato: “Ma cosa credi di fare? Io ti distruggo”. Io l’ho contrastato con durezza, dicendo che non avevo paura di lui, e la vicenda è finita così. 
Nel periodo delle Brigate rosse non ho mai conosciuto nessuno che ne facesse parte e non ho mai avuto sospetti. C’erano dei gruppi di lavoratori che erano d’accordo con loro. In assemblea si scagliavano contro le iniziative sindacali, non volevano che si facessero accordi con l’azienda, parlavano di anticapitalismo, ma non hanno mai usato modi violenti.
In fabbrica le cellule del Pci non intervenivano sulle questioni interne allo stabilimento. Anche perché avevano dei commissari che erano capaci di fare i sindacalisti. C’erano molti che erano consiglieri comunali e uno è stato anche candidato al Parlamento.
Sul finire degli anni ‘60 c’erano più contrasti all'interno della Fiom che tra noi e loro. Qualcuno nella Fiom voleva assumere posizioni diverse ma il partito non lo ha mai concesso.

Problemi ne ho avuti anche in casa Cisl e nel mio ambiente cattolico. Mentre ero vice sindaco al mio paese e delegato, ci fu chi in Cisl mi diceva che per l’incompatibilità avrei dovuto dimettermi da una parte o dall'altra. Allora ho telefonato a Carniti per spiegargli che facevo il vice sindaco perché avevano bisogno di me e che siccome a Sesto c’erano già molti attivisti della Cisl, avrei lasciato il sindacato per impegnarmi al mio paese. Lui mi ha detto di non preoccuparmi e di continuare così. Il mio partito non guardava di buon grado i sindacalisti, li rispettava, ma il clima non era particolarmente favorevole. Sono stato anche messo un po’ da parte nella Dc, ma non mi è mai piaciuto confondere il mio impegno sindacale con la politica.
Non ho avuto rapporti con il mondo cattolico sestese. A Sesto, prevosto era mons. Tarcisio Ferraroni. Non ho mai incontrato nessun sacerdote in tanti anni, anche se la mia è sempre stata una famiglia di credenti. Noi ci riunivamo al circolo San Clemente, anche gli amici con cui ci si trovava erano credenti, ma le riunioni erano della Cisl. Agli incontri in Via Fiorani, presso la sede della Cisl, partecipavano lavoratori di altre fabbriche: Lorenzo Cantù, Paolino Riva. Erano persone con una grande fede, si vedeva, ma non ci siamo mai confrontati su questo, anche se parlavamo di tante questioni, non solo di sindacato.