giovedì 12 settembre 2024

Recuperi. Lavoro al cinema: manca la speranza

 Il supplemento "è lavoro" del quotidiano Avvenire pubblica un editoriale di Costantino Corbari sul rapporto tra cinema e lavoro.

Supplemento ad Avvenire, Anno 4, Numero 23 - 11 giugno 2008


Il lavoro é tornato al cinema. In un'epoca in cui gli operai sono sostanzialmente assenti dai mezzi di comunicazione e strappano un po' di spazio solo quando perdono il lavoro per la chiusura di una fabbrica oppure perdono la vita per un grave incidente, è importante registrare questo ritorno di attenzione. Dopo quasi vent'anni di silenzio, segnali interessanti sono giunti prima dall'estero, in particolare attraverso le storie raccontate da Ken Loach, i fratelli Dardenne, Aid Kaurismaki e, più recentemente, anche dal cinema italiano che ha proposto una serie di lungometraggi di sicuro rilievo. La maggior parte di queste pellicole, però, ha evidenziato la difficoltà di molti autori ad uscire da certi stereotipi ideologici che caratterizzano la cultura del lavoro nel nostro Paese. 

Da "Mi piace lavorare" di Francesca Comencini a "Il vangelo secondo Precario" di Stefano Obino, a "Tutta la vita davanti" di Paolo Virzì, solo per citarne alcuni, abbiamo visto pellicole che propongono un'immagine negativa e opprimente del lavoro. Un messaggio senza speranza, che affossa e deprime qualsiasi desiderio di emancipazione giovani che si affacciano sul mercato del lavoro. Le difficoltà dell'oggi, di un'occupazione precaria e poco gratificante, sono ben presenti. È la capacità di offrire risposte che scarseggia. Spesso si tratta di pellicole che sembrano negare il valore del lavoro in sè, come esperienza centrale della persona, attraverso cui realizzare le proprie aspirazioni. Come luogo del riscatto e della riaffermazione del valore di ogni individuo. 

Voglia di riscatto che troviamo invece, ad esempio, in film come "Full Monthy", pellicola del '97 di Peter Cattaneo, che narra la vicenda di un gruppo di operai disoccupati capaci di rimettersi in gioco e riqualificarsi anche se in un'improbabile attività di strip-tease. La leggerezza del racconto e il successo finale dell'impresa rappresentano una novità nei lungometraggi che si occupano di lavoro. Non perché si debba pretendere un lieto fine a tutti i costi, ma perché l'autore ha saputo costruire speranza per persone all'apparenza sconfitte. La condizione operaia, il modo di produrre, la situazione sociale che circonda la fabbrica avevano impresso un segno significativo alla cinematografia fino a tutti gli anni Settanta. 

Valga per tutti l'ormai classico "la classe operaia va in paradiso" di Elio Petti. Poi lo scenario è profondamente cambiato. Abbiamo assistito alla scomposizione dei processi produttivi e alla frantumazione della classe operaia della fabbrica fordista. Il cinema ha immediatamente registrato la marginalizzazione del lavoro nella società, cancellandolo per lungo tempo dalle sceneggiature. È cambiata anche l'idea individuale e collettiva del lavoro. Fino a qualche anno fa lavorare significava riconoscersi in una precisa classe sociale e partecipare alla vita pubblica attraverso il sindacato. Ora il mondo del lavoro appare diviso, incerto, poco solidale al proprio intemo. Così gli autori hanno puntato sulla precarietà, l'insicurezza, la globalizzazione, la solitudine. Sui temi del lavoro il cinema può svolgere un importante ruolo sociale. Occorrono però nuovi autori capaci di arricchire il panorama delle proposte: non fermandosi alla superficie della realtà, spesso generalizzando un po' troppo, ma facendone emergere tutte le sfaccettature senza chiudere a priori gli orizzonti.