giovedì 12 novembre 2020

Maria Grazia Fabrizio - Il patto di Milano 2

Intervista al segretario generale della Cisl di Milano Maria Grazia Fabrizio. Seconda parte. Pubblicata nel volume "Il patto di Milano. Un patto per la persona", Edizioni Lavoro, Roma, 2000 

Quindi il 28 luglio gli allegati non c’erano già più. E al­lora perché è nata ed è proseguita per lungo tempo que­sta storia? 

Perché la Cgil ha continuato a far credere - ma secon­do me a forza di dirlo ha pensato che fosse vero - che noi, chissà perché, nella notte avessimo deciso di discu­tere quei testi che, invece, già dalla mattina del 28 non c’erano più. Quel giorno si è parlato d’altro, si è punta­to a firmare l’intesa per aprire il tavolo del confronto e quindi discutere del Patto vero e proprio. Gli allegati di­stribuiti dalla Cgil a piene mani, sia alla stampa che al­le strutture sindacali in tutta Italia, erano presenti solo nella prima proposta del Comune e mai in nessun mo­mento del confronto sono stati materia di discussione. 

Quindi c’è stata malafede? 

Non posso parlare di malafede rispetto a chi non era presente il 28. 
Ma all’inizio dell’incontro la Cgil c’era, perciò ha avu­to tra le mani un nuovo testo senza allegati. 

Evidentemente la Cgil deve aver pensato che appena via loro noi avessimo consentito al Comune di ripresen­tare gli allegati. Non c’è altra spiegazione. Sarebbe ba­stata una telefonata e avremmo sciolto ogni dubbio. Co­munque sia, il risultato certo è che il testo che è stato sottoscritto non ha in sé niente di quegli allegati e nep­pure nulla che gli assomigli. Il che conferma che sono state fatte delle illazioni di cattivo gusto e dannose per le relazioni sindacali. Giudicare la capacità negoziale delle altre componenti sindacali mi sembra un po’ trop­po. Non credo che qualcuno possa ritenere che in assen­za di un’organizzazione, le altre due facciano accordi sottobanco con le controparti, perché questo è il peggio della contrattazione. Non fa parte della cultura e della tradizione di Cgil, Cisl e Uil di Milano. 

Però qualcuno questa storia degli allegati l’ha alimen­tata. 

Probabilmente perché, non avendo altri argomenti di contestazione, si sono aggrappati alla favola degli alle­gati. Ripeto, una storia veramente inventata. Chiunque abbia fatto parte di quel tavolo può tranquillamente dir­lo. I famosi allegati non sono stati materia di confronto. 

Chi c’è alle spalle del Patto, dal punto di vista tecnico? Quali sono i consulenti che ci hanno lavorato, sia per conto del Comune che di parte sindacale? 

L’unico consulente esterno che ha partecipato ai lavori è stato il professor Marco Biagi. Ognuno in casa propria ha utilizzato le normali conoscenze di carattere tecnico di cui dispone. Però al tavolo è stato ammesso solo l’e­sperto del Comune, che poi è diventato un po’ il consu­lente del Patto, anche se è arrivato solo nelle fasi finali. Prima ha dato la sua disponibilità, anche con pareri scritti. C’è un parere prò veritate rispetto alla validità di un accordo sottoscritto solo da due organizzazioni sin­dacali e sulla legittimità del ricorso ai contratti a tempo determinato con causale soggettiva. La sua posizione è stata molto neutrale e non faziosa. Ha sempre cercato di difendere lo strumento del Patto, mettendoci a disposi­zione motivazioni di carattere giuridico e legale che ci consentissero di andare avanti nella discussione, sce­gliendo il testo che si prestasse il meno possibile a suc­cessive interpretazioni sbagliate. 

La stesura del Patto non ha dunque avuto bisogno di supporti tecnici? 

Trattandosi di materie che sono normalmente patrimo­nio delle organizzazioni sindacali e degli imprenditori, il linguaggio era molto comune. Si poteva essere su po­sizioni diverse rispetto all’utilizzo degli strumenti, ma sul senso e sul contenuto tecnico non ci sono mai stati problemi. Gli unici problemi che abbiamo avuto, e che il professor Biagi ha approfondito, sono stati quelli le­gati alla stesura formale del Patto. 

Se non lo è il professor Biagi, c’è un padre del Patto? 

No, direi che è un Patto con tante mamme e tanti papà. Ognuno ci ha messo qualcosa. Le stesse modalità con cui è stato costruito sono veramente nuove. Ad ogni in­contro ci dicevamo che cosa avremmo dovuto discutere la volta successiva e ogni volta ciascuno si impegnava a portare la propria proposta. Quando abbiamo scelto di dare vita ai quattro tavoli specifici sui diversi temi, non c’era nessuno che li governava. Ognuno portava il suo pezzo d’intervento e lo metteva a disposizione degli al­tri. Tanto è vero che solo nelle ultime settimane il Co­mune ha cominciato a scrivere un testo. Fino a quel punto c’erano solo le proposte delle parti ed erano i di­versi attori che cercavano di selezionare quelle su cui si poteva convenire. Con grandissima disponibilità anche a rinunciare a proprie idee pur di raggiungere il risulta­to. Questo è il meccanismo che ha accompagnato tutto il Patto. 

Parliamo dei soggetti del Patto, cioè delle persone che sono destinatarie di questa proposta. Che consapevo­lezza hanno avuto fino ad ora rispetto ai contenuti e al­le opportunità offerte dal Patto? Sono stati in qualche modo partecipi oppure sono solo i destinatari designa­ti? 

L’individuazione dei soggetti è stata fatta un po’ d’auto­rità, nel senso che li abbiamo scelti sulla base di una considerazione che noi speriamo oggettiva e cioè cer­cando di guardare quali fossero le figure che non riusci­vano a entrare nel mercato del lavoro milanese. Da lì l’individuazione degli immigrati, dei giovani dell’area del disagio sociale e degli espulsi dal mercato del lavo­ro. Sono queste tre le categorie che abbiamo verificato essere quelle con le maggiori difficoltà di inserimento. La scelta dei soggetti, pertanto, è stata fatta sulla base della presunzione frutto dei dati del mercato del lavoro, anche perché riuscire a contattare queste persone, che non sono lavoratori, non è semplicissimo. L’unica ini­ziativa che abbiamo fatto, come Cisl, in questa direzio­ne è stata un’assemblea, per i lavoratori e le lavoratrici straniere, dove abbiamo chiesto un mandato ad andare avanti in un percorso che in qualche modo li vedeva protagonisti. In quell’occasione abbiamo spiegato i contenuti del Patto e abbiamo verificato con loro se l’i­potesi che stavamo valutando li potesse agevolare. La proposta li ha interessati moltissimo, hanno manifestato la loro disponibilità ad essere occupati anche in manie­ra flessibile, addirittura con retribuzioni diverse rispetto ai lavoratori italiani. Anche da questo abbiamo capito che la loro tutela è una necessità, perché se per lavorare sono disponibili a qualunque forma di rapporto, signifi­ca che c’è disperazione. Il mandato che ci hanno dato era pieno e totale ad andare avanti. Oggi mi rendo conto, invece, dopo aver firmato il Patto, che i più interessati sono i lavoratori con oltre quarant’anni, espulsi dal mer­cato del lavoro. Sono costoro che si stanno rivolgendo alle nostre sedi, perché vedono nelle opportunità offerte dal Patto una speranza. 

Come avete contattato gli extracomunitari? Chi sono i vostri interlocutori? 

Attivando la struttura organizzativa del Cesil, che van­ta un’esperienza pluriennale in questo ambito, che cre­do a Milano sia la più antica, riusciamo ad avere un rap­porto diretto con i lavoratori. Questo è importantissimo con gli stranieri, perché il passaggio tramite le loro or­ganizzazioni, che sono quasi sempre associazioni di paesi singoli, che difficilmente comunicano tra di loro, non funziona. La mediazione con le associazioni è utile, ma può essere anche un handicap perché, essendo orga­nizzazioni chiuse, metterle insieme è complicato. Avere un rapporto diretto aiuta tantissimo. 

Per quanto riguarda gli ultraquarantenni con chi avete collaborato? 

Con le categorie sindacali, ma soprattutto utilizzando i contatti che abbiamo con i lavoratori iscritti alle liste di mobilità, in quanto il nostro Centro per il lavoro ha una delega da parte della Provincia a gestire le liste insieme alle aziende. Abbiamo una conoscenza e una frequenta­zione ormai pluriennale e possiamo intervenire direttamente sui lavoratori, anche offrendo loro opportunità di lavoro. 

E come si farà per informare le persone interessate? 

Il problema, semmai, è come fare a limitarle perché, sia per quanto riguarda gli stranieri che per gli over 40, esi­ste un intenso passaparola. Hanno una capacità di colle­garsi fra loro che nemmeno immaginiamo. Con i lavo­ratori espulsi dal mercato del lavoro basterà la comuni­cazione attraverso gli uffici del collocamento o gli uffi­ci sindacali che di queste cose si occupano. Mentre per gli extracomunitari bisognerà fare un’operazione di col- legamento con tutte le associazioni che, a vario titolo, incontrano i lavoratori immigrati. Non a caso, infatti, dopo la firma del Patto, il Comune ha coinvolto, con un impegno sottoscritto, tutte le associazioni di volontaria­to milanese. Sono queste associazioni, le cooperative, le parrocchie e tutti coloro che operano in situazioni margi­nali che hanno una frequentazione più diretta con l’area del disagio. L’informazione dovrà avvenire con le classi­che forme della comunicazione: volantini e quant’altro nei luoghi frequentati da queste persone. Ma non sarà un problema perché si informeranno da soli. 

Allora, al contrario, ci sarà una selezione da fare? 

Infatti, il problema non è come informarli, tutt’al più occorrerà cercare di rendere la comunicazione più equi­librata, perché non ci sia chi ne ha troppa e chi nessuna. Il problema sarà la selezione. 

Avete previsto dei parametri? 

In convenzione con la Provincia si creerà uno Sportello unico, il quale avrà il compito di decidere quali sono i parametri, le priorità e l’interesse. In prima istanza si tratta di capire quali sono le disponibilità. L’ipotesi che si sta facendo è che per ognuna di queste persone ven­gano individuati dei requisiti o, comunque, una storia di carattere personale. È certo che non possono essere i pa­rametri ordinari degli uffici di collocamento, perché con queste persone non c’entrano niente. Bisognerà identifi­care la storia di ognuno, le capacità possedute, l’interesse ad acquisire nuove conoscenze e la disponibilità ad operare in alcune attività. Questo sarà il criterio priori­tario per capire se le persone sono disponibili ad inserir­si in un circuito che non è semplice distribuzione di la­voro. È offerta di occupazione e quindi di un reddito, ma con l’impegno ad aumentare la propria professiona­lità. Non tutti avranno le stesse opportunità; quelli che lo vorranno, però, le dovranno avere. 

Per concretizzare un simile progetto non basteranno certo gli strumenti tradizionali di accesso al mercato del lavoro. Si utilizzeranno canali alternativi? 

Sì, alternativi e innovativi. Anche questo è un aspetto interessante del Patto. Partendo dalla costruzione non di una normale banca dati, ma di un archivio delle dispo­nibilità delle persone a mettersi in gioco, svolgendo un ruolo attivo, non solo aspettando che qualcuno le chia­mi. 

Il percorso per giungere alla firma del Patto è stato contrassegnato da manifestazioni contrapposte. Un pri­mo avvertimento lo si è avuto quando la Cisl, avendo promosso il tradizionale convegno di Loano e avendo invitato Sergio Cofferati ha ricevuto un rifiuto, mentre in contemporanea la Cgil organizzava un direttivo a Milano con il suo leader. 

Cofferati si è rifiutato di venire a Loano con una lettera in cui affermava che non avrebbe mai partecipato ad una manifestazione promossa da un sindacato che aveva fatto un accordo separato. Affermazione quanto mai scorretta, perché a luglio io non ho fatto un accordo se­parato, ho firmato con chi c’era. 

Dopo pochi giorni, a Milano, sempre agli inizi di settembre, la Cisl ha convocato un ’assemblea con la partecipazione del segretario generale Sergio D'Antoni. Poi c’è stato un momento di pausa fino a metà febbraio di quest’anno. 

I mesi tra settembre 1999 e gennaio 2000 sono stati un periodo in cui si è cercato di individuare un minimo di percorso unitario, tanto è vero che la Cgil, pur senza essere firmataria della preintesa ed avendo sostenuto che non avrebbe mai firmato, ha partecipato a tutti i confronti, nessuno escluso. Sia Cisl che Uil hanno reputato opportuno non escludere la Cgil dalla discussione sul Patto vero e proprio e il ruolo che la Cgil ha potuto giocare in questo periodo è stato paritario rispetto alle altre due organizzazioni sindacali. Forse per questo non ci sono state iniziative divergenti, se non qualche scher­maglia giornalistica. Niente più di questo, ma era di merito, quindi assolutamente legittima e importante. Il culmine della trattativa ha invece nuovamente evidenziato la divisione che si era creata sulla concezione del Patto e la sua impostazione. Lì si è capito che, tutto sommato, era normale che la Cgil non avesse firmato neppure la preintesa, perché i suoi contenuti sono lontani dal loro dibattito. 

E’ la prima volta che si fanno manifestazioni contrapposte a Milano? 

Che io ricordi, sì. Quella dell’11 febbraio è stata una manifestazione contro un Patto sottoscritto da altre organizzazioni sindacali e, quindi, è logico pensare che sia anche contro chi lo ha firmato. Non ricordo che tra Cgil, Cisl e Uil si sia mai giunti a manifestazioni pub­bliche contro posizioni che sono state assunte da una delle confederazioni. 

Perché siete arrivati a questo punto? 

Credo che ci sia un problema di merito rispetto ai con­tenuti del Patto. Mi sono, però, resa conto che è quasi impraticabile per la Cgil un confronto con amministra­zioni di destra. Per la Cgil questo è ancora un problema mentre, per quanto ci riguarda, molto più semplicemen­te vuol dire cercare di portare anche un’amministrazio­ne del Polo a ragionare in termini sociali, sulla base di un’impostazione condivisibile anche dal sindacato. Que­sto per la Cgil è impossibile. 

Qual è stato dunque l’elemento scatenante? Da quanto lei afferma sembra più un problema di schieramento politico che non di merito rispetto alla flessibilità. 

L’elemento scatenante, che è poi quello che ha fatto intervenire direttamente Sergio Cofferati sul «Corriere della Sera», alla vigilia dell’incontro decisivo per la fir­ma della preintesa, si annida nella mentalità della Cgil, per la quale esistono ancora barriere di carattere ideolo­gico che rendono impossibile arrivare ad un accordo con una giunta del Polo. Tra l’altro, mentre con questa giunta avevamo sottoscritto unitariamente un protocollo d’intenti, fa specie che nel momento in cui si deve co­struire qualcosa di concreto la Cgil si tiri indietro. A meno che non ci sia, e qui sì do un’interpretazione un po’ maligna, una non disponibilità a riconoscere un ri­sultato positivo a una giunta di destra. Un protocollo d’intenti sappiamo che vale come tale, una decisione operativa, che si vede, è un risultato. Mi rendo conto che fare un accordo di questo tipo con una giunta del Polo significa non essere neutrali, perché questo è un successo per Albertini. Però, se è un successo per la giunta mi­lanese, lo è anche per noi averla costretta su un terreno sul quale assolutamente non avrebbe mai voluto scen­dere. Avrei preferito che il giorno dopo la firma della preintesa si potesse uscire unitariamente dicendo «abbiamo costretto la giunta del Polo a occuparsi dei temi dell’emarginazione sociale». Invece, così, mi tocca semplicemente riconoscere che il Polo è arrivato su un terreno che è tipicamente nostro. 

Siete stati accusati di avere accettato con il Patto ciò che la Corte costituzionale ha respinto non ammettendo i referendum radicali sui contratti a termine. 

Onestamente questa polemica non riesco a seguirla, ne capirla. La storia è storia. Noi abbiamo cominciato a parlare del Patto quando i referendum non erano nemmeno nella testa di Pannella e della Bonino. Mai le cose sono state fatte sulla base di condizionamenti esterni. Escludo nella maniera più assoluta che le flessibilità di cui si stava parlando fossero indotte da un dibattito legato ai referendum. Sono i referendum che si sono inseriti su un confronto che stavamo facendo a Milano. Mi fa specie che oggi la Cgil affermi che, essendo stato re­spinto il referendum sui contratti a tempo determinato, noi avremmo fatto un regalo al Polo e ad Assolombarda. Il referendum Pannella-Bonino cancellava le regole dei Contratti a tempo determinato noi ne abbiamo aggiunte delle altre, che prevedono il controllo del sindacato sui singoli contratti a tempo determinato. È un Patto di tu­tela per i lavoratori che saranno occupati, mentre Pannella voleva esattamente il contrario, nessuna tutela, nessuna regola e assoluta disponibilità della flessibilità per i datori di lavoro. Noi stiamo costringendo i datori di lavoro a discutere di ogni singolo contratto di lavoro a tempo determinato che dovrà essere attuato, per di più con l’impegno - che Assolombarda non voleva assolu­tamente sottoscrivere - alla stabilizzazione dei posti di lavoro. Quindi, flessibilità controllata in cambio di una migliore occupabilità delle persone e un impegno delle associazioni delle imprese, che predispongono i progetti che andranno a buon fine, a trasformare i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. 

Per tutti? 

Nel limite del possibile, ovviamente. Ma intanto, se so­no stati fatti dei percorsi formativi e lavorativi, si acqui­sisce un credito. 

Il responsabile di un sindacato confederale come vive personalmente il conflitto con un’altra organizzazione? 

Con enorme imbarazzo. Contrariamente a quello che si può pensare, non c’è stata la ricerca della rottura, sem­mai abbiamo cercato un terreno unitario su cui poter la­vorare. Anche nelle fasi finali si sono tenuti numerosi incontri, addirittura con i tre segretari generali confede­rali. Non ci siamo mai esibiti in forzature che potessero in qualche modo creare la rottura. Quello che è risultato evidente man mano che il processo andava avanti è che era quasi impossibile far combaciare i ragionamenti. Oggi quello che si prova è sicuramente imbarazzo, ma con la consapevolezza che si è scritta una pagina nuova nel sindacalismo milanese. 

Che cosa è veramente accaduto a Milano? 

È successo che è finito il diritto di veto di una delle con­federazioni sindacali sulle altre due. Un fatto nuovo, forse negativo, ma che può trasformarsi in un fattore positivo se c’è la volontà delle tre organizzazioni sinda­cali a rimettersi a disposizione per un dibattito più sere­no sul come arrivare alle decisioni insieme. Non c’è nessuna voglia di creare una separazione netta tra un sindacato più vicino al Polo e uno più vicino alla sini­stra, non è questo il problema. Cgil, Cisl, Uil hanno delle affinità elettive che non sono assolutamente can­cellabili, c’è una storia, delle radici e un patrimonio comune. Ma ora è tempo di discutere su una nuova forma di unità, che veda le tre organizzazioni sindacali con la stessa possibilità di interloquire con le altre due e con i soggetti esterni. 

Che ruolo hanno giocato i leader nazionali e perché è Stato necessario il loro intervento? 

Sulla preintesa l’intervento di Sergio Cofferati è stato invasivo, non era giustificato per una dinamica che fino quel punto era rimasta di carattere territoriale. Insieme all’intervista di D’Antoni, a pochi giorni di distanza da quella di Cofferati, sullo stesso organo di stampa, ci sono state prese di posizione d’organizzazione. Una negati­va, l’altra positiva. Se non ci fosse stata l’intervista di Cofferati, non ci sarebbe stata neppure quella di D’An­toni. L’invasione di campo da parte del segretario gene­rale della Cgil in tutta questa vicenda è stata pesante e, a mio modo di vedere, negativa, anche dal punto di vi­ltà delle relazioni di carattere locale. Non è il primo caso in cui i rapporti tra Cisl e Cgil di Milano vivono mo­menti di difficoltà, ma in precedenza avevamo sempre risolto i problemi tra di noi, trovando la formula per uscirne in modo costruttivo. Nel momento in cui è sceso in campo Cofferati il confronto ha assunto una dimensione decisamente diversa da quella che doveva avere, vero che stiamo parlando di Milano, però, se non si riconosce l'autonomia ai sindacati territoriali di identifi­care progetti e azioni a carattere locale si rischia di ave­ri una sovrapposizione di interventi che non aiuta il sin­dacato ad andare avanti. O queste nostre organizzazioni decidono di affidare responsabilmente ruoli e funzioni ai livelli decentrati, o diversamente ogni caso che ri­guarda situazioni minimamente significative diventa elemento di scontro. Ciò che si vede a Milano è diverso da quello che si immagina a Roma. Nella fase di chiu­sura dell’accordo, poi, c’è stata una chiamata in causa, questa volta da parte della Uil, della segreteria naziona­le. Probabilmente la Uil viveva con maggiore difficoltà un contenzioso con la Cgil a livello milanese e ha chie­sto a Pietro Larizza di tentare una mediazione di carat­tere nazionale, o quantomeno un’apertura di dibattito a quel livello. 

Quello è stato il primo vero tentativo di mediazione? 

Sicuramente sì. Fino a quel momento c’erano state pre­se di posizione di organizzazione. In questo caso c’è stato, invece, l’affidamento al livello nazionale di un ruolo di mediazione. Noi abbiamo accettato la disponi­bilità di Larizza a giocare questo ruolo, anche se effetti­vamente si è ulteriormente corso il rischio di trasforma­re un problema di carattere locale in una questione na­zionale, perché quando scendono in campo i tre segreta­ri generali è di tutta evidenza che ogni vicenda assume una dimensione differente. Il ruolo che hanno avuto i tre segretari generali in quell’incontro è stato rispettoso delle nostre scelte. Si è trattato, più che altro, di un con­fronto per cercare di capire se esistevano margini per identificare una proposta di carattere unitario. Anche la scelta, a conclusione dell’incontro, di affidare proprio al segretario della Camera del lavoro di Milano il compito di riscrivere l’articolo su cui era maturata la divisione è stata condivisa da tutti. Tant’è vero che abbiamo aspet­tato il nuovo testo con un atteggiamento autenticamente positivo. Il ruolo affidato a Panzeri poteva avere una va­lenza costruttiva, ma alla fine ne ha avuta un’altra per­ché, invece della riscrittura di un articolo, ci è stata pro­posta una modifica sostanziale del senso del Patto diffi­cile da accettare. 

Quindi un intervento nazionale poco utile? 

Non è servito e ha rischiato di complicare tutto. Per fortuna bisogna dire che, fatto l’incontro a Roma, per quan­to mi riguarda, non ho ricevuto nessun altro tipo di interferenza. Per la verità non ne ho ricevuto mai in nes­sun momento. Sergio D’Antoni mi ha assegnato un ruo­lo fiduciario in questa vicenda. Sono io che l’ho cercato nei momenti in cui ritenevo opportuno che lui sapesse che cosa stava succedendo, ma mai c’è stato un intervento del segretario generale della Cisl teso a interferire nelle decisioni. Sono sempre stata io, di fronte alle iniziative di Cofferati o Larizza, a chiedergli il suo punto di vista. Spesso abbiamo convenuto insieme che cosa fare. 

A livello milanese, com’erano i rapporti con Cgil e Uil prima del Patto? 

Sono arrivata alla segreteria della Cisl in un momento in cui le relazioni unitarie erano decisamente più intense di quanto non lo siano oggi. Ho verificato nel corso degli anni una difficoltà estrema nell’entrare in relazione rispetto al merito delle cose, non tanto nella gestione delle iniziative. Tutto ciò che aveva un impatto esterno, come manifestazioni e scioperi, veniva gestito unitariamente, però i ragionamenti di merito, di prospettiva, non è mai stato possibile farli in maniera compiuta. Nel periodo in cui sono stata eletta segretaria dell’Unione ogni tanto si tenevano segreterie unitarie. Abbiamo provato a continuare su quella strada, ma non è stato possibile perché non erano efficaci, essendo più forti le posizioni d’organizzazione. Per cui, nella ge­stione quotidiana, il rapporto unitario è andato via via affievolendosi.