Intervista al segretario generale della Cisl di Milano Maria Grazia Fabrizio. Seconda parte. Pubblicata nel volume "Il patto di Milano. Un patto per la persona", Edizioni Lavoro, Roma, 2000
Quindi il 28 luglio gli allegati non c’erano già più. E allora perché è nata ed è proseguita per lungo tempo questa storia?
Perché la Cgil ha continuato a far credere - ma secondo me a forza di dirlo ha pensato che fosse vero - che noi, chissà perché, nella notte avessimo deciso di discutere quei testi che, invece, già dalla mattina del 28 non c’erano più. Quel giorno si è parlato d’altro, si è puntato a firmare l’intesa per aprire il tavolo del confronto e quindi discutere del Patto vero e proprio. Gli allegati distribuiti dalla Cgil a piene mani, sia alla stampa che alle strutture sindacali in tutta Italia, erano presenti solo nella prima proposta del Comune e mai in nessun momento del confronto sono stati materia di discussione.
Quindi c’è stata malafede?
Ma all’inizio dell’incontro la Cgil c’era, perciò ha avuto tra le mani un nuovo testo senza allegati.
Evidentemente la Cgil deve aver pensato che appena via loro noi avessimo consentito al Comune di ripresentare gli allegati. Non c’è altra spiegazione. Sarebbe bastata una telefonata e avremmo sciolto ogni dubbio. Comunque sia, il risultato certo è che il testo che è stato sottoscritto non ha in sé niente di quegli allegati e neppure nulla che gli assomigli. Il che conferma che sono state fatte delle illazioni di cattivo gusto e dannose per le relazioni sindacali. Giudicare la capacità negoziale delle altre componenti sindacali mi sembra un po’ troppo. Non credo che qualcuno possa ritenere che in assenza di un’organizzazione, le altre due facciano accordi sottobanco con le controparti, perché questo è il peggio della contrattazione. Non fa parte della cultura e della tradizione di Cgil, Cisl e Uil di Milano.
Però qualcuno questa storia degli allegati l’ha alimentata.
Probabilmente perché, non avendo altri argomenti di contestazione, si sono aggrappati alla favola degli allegati. Ripeto, una storia veramente inventata. Chiunque abbia fatto parte di quel tavolo può tranquillamente dirlo. I famosi allegati non sono stati materia di confronto.
Chi c’è alle spalle del Patto, dal punto di vista tecnico? Quali sono i consulenti che ci hanno lavorato, sia per conto del Comune che di parte sindacale?
L’unico consulente esterno che ha partecipato ai lavori è stato il professor Marco Biagi. Ognuno in casa propria ha utilizzato le normali conoscenze di carattere tecnico di cui dispone. Però al tavolo è stato ammesso solo l’esperto del Comune, che poi è diventato un po’ il consulente del Patto, anche se è arrivato solo nelle fasi finali. Prima ha dato la sua disponibilità, anche con pareri scritti. C’è un parere prò veritate rispetto alla validità di un accordo sottoscritto solo da due organizzazioni sindacali e sulla legittimità del ricorso ai contratti a tempo determinato con causale soggettiva. La sua posizione è stata molto neutrale e non faziosa. Ha sempre cercato di difendere lo strumento del Patto, mettendoci a disposizione motivazioni di carattere giuridico e legale che ci consentissero di andare avanti nella discussione, scegliendo il testo che si prestasse il meno possibile a successive interpretazioni sbagliate.
La stesura del Patto non ha dunque avuto bisogno di supporti tecnici?
Trattandosi di materie che sono normalmente patrimonio delle organizzazioni sindacali e degli imprenditori, il linguaggio era molto comune. Si poteva essere su posizioni diverse rispetto all’utilizzo degli strumenti, ma sul senso e sul contenuto tecnico non ci sono mai stati problemi. Gli unici problemi che abbiamo avuto, e che il professor Biagi ha approfondito, sono stati quelli legati alla stesura formale del Patto.
Se non lo è il professor Biagi, c’è un padre del Patto?
No, direi che è un Patto con tante mamme e tanti papà. Ognuno ci ha messo qualcosa. Le stesse modalità con cui è stato costruito sono veramente nuove. Ad ogni incontro ci dicevamo che cosa avremmo dovuto discutere la volta successiva e ogni volta ciascuno si impegnava a portare la propria proposta. Quando abbiamo scelto di dare vita ai quattro tavoli specifici sui diversi temi, non c’era nessuno che li governava. Ognuno portava il suo pezzo d’intervento e lo metteva a disposizione degli altri. Tanto è vero che solo nelle ultime settimane il Comune ha cominciato a scrivere un testo. Fino a quel punto c’erano solo le proposte delle parti ed erano i diversi attori che cercavano di selezionare quelle su cui si poteva convenire. Con grandissima disponibilità anche a rinunciare a proprie idee pur di raggiungere il risultato. Questo è il meccanismo che ha accompagnato tutto il Patto.
Parliamo dei soggetti del Patto, cioè delle persone che sono destinatarie di questa proposta. Che consapevolezza hanno avuto fino ad ora rispetto ai contenuti e alle opportunità offerte dal Patto? Sono stati in qualche modo partecipi oppure sono solo i destinatari designati?
L’individuazione dei soggetti è stata fatta un po’ d’autorità, nel senso che li abbiamo scelti sulla base di una considerazione che noi speriamo oggettiva e cioè cercando di guardare quali fossero le figure che non riuscivano a entrare nel mercato del lavoro milanese. Da lì l’individuazione degli immigrati, dei giovani dell’area del disagio sociale e degli espulsi dal mercato del lavoro. Sono queste tre le categorie che abbiamo verificato essere quelle con le maggiori difficoltà di inserimento. La scelta dei soggetti, pertanto, è stata fatta sulla base della presunzione frutto dei dati del mercato del lavoro, anche perché riuscire a contattare queste persone, che non sono lavoratori, non è semplicissimo. L’unica iniziativa che abbiamo fatto, come Cisl, in questa direzione è stata un’assemblea, per i lavoratori e le lavoratrici straniere, dove abbiamo chiesto un mandato ad andare avanti in un percorso che in qualche modo li vedeva protagonisti. In quell’occasione abbiamo spiegato i contenuti del Patto e abbiamo verificato con loro se l’ipotesi che stavamo valutando li potesse agevolare. La proposta li ha interessati moltissimo, hanno manifestato la loro disponibilità ad essere occupati anche in maniera flessibile, addirittura con retribuzioni diverse rispetto ai lavoratori italiani. Anche da questo abbiamo capito che la loro tutela è una necessità, perché se per lavorare sono disponibili a qualunque forma di rapporto, significa che c’è disperazione. Il mandato che ci hanno dato era pieno e totale ad andare avanti. Oggi mi rendo conto, invece, dopo aver firmato il Patto, che i più interessati sono i lavoratori con oltre quarant’anni, espulsi dal mercato del lavoro. Sono costoro che si stanno rivolgendo alle nostre sedi, perché vedono nelle opportunità offerte dal Patto una speranza.
Come avete contattato gli extracomunitari? Chi sono i vostri interlocutori?
Attivando la struttura organizzativa del Cesil, che vanta un’esperienza pluriennale in questo ambito, che credo a Milano sia la più antica, riusciamo ad avere un rapporto diretto con i lavoratori. Questo è importantissimo con gli stranieri, perché il passaggio tramite le loro organizzazioni, che sono quasi sempre associazioni di paesi singoli, che difficilmente comunicano tra di loro, non funziona. La mediazione con le associazioni è utile, ma può essere anche un handicap perché, essendo organizzazioni chiuse, metterle insieme è complicato. Avere un rapporto diretto aiuta tantissimo.
Per quanto riguarda gli ultraquarantenni con chi avete collaborato?
Con le categorie sindacali, ma soprattutto utilizzando i contatti che abbiamo con i lavoratori iscritti alle liste di mobilità, in quanto il nostro Centro per il lavoro ha una delega da parte della Provincia a gestire le liste insieme alle aziende. Abbiamo una conoscenza e una frequentazione ormai pluriennale e possiamo intervenire direttamente sui lavoratori, anche offrendo loro opportunità di lavoro.
E come si farà per informare le persone interessate?
Il problema, semmai, è come fare a limitarle perché, sia per quanto riguarda gli stranieri che per gli over 40, esiste un intenso passaparola. Hanno una capacità di collegarsi fra loro che nemmeno immaginiamo. Con i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro basterà la comunicazione attraverso gli uffici del collocamento o gli uffici sindacali che di queste cose si occupano. Mentre per gli extracomunitari bisognerà fare un’operazione di col- legamento con tutte le associazioni che, a vario titolo, incontrano i lavoratori immigrati. Non a caso, infatti, dopo la firma del Patto, il Comune ha coinvolto, con un impegno sottoscritto, tutte le associazioni di volontariato milanese. Sono queste associazioni, le cooperative, le parrocchie e tutti coloro che operano in situazioni marginali che hanno una frequentazione più diretta con l’area del disagio. L’informazione dovrà avvenire con le classiche forme della comunicazione: volantini e quant’altro nei luoghi frequentati da queste persone. Ma non sarà un problema perché si informeranno da soli.
Allora, al contrario, ci sarà una selezione da fare?
Infatti, il problema non è come informarli, tutt’al più occorrerà cercare di rendere la comunicazione più equilibrata, perché non ci sia chi ne ha troppa e chi nessuna. Il problema sarà la selezione.
Avete previsto dei parametri?
In convenzione con la Provincia si creerà uno Sportello unico, il quale avrà il compito di decidere quali sono i parametri, le priorità e l’interesse. In prima istanza si tratta di capire quali sono le disponibilità. L’ipotesi che si sta facendo è che per ognuna di queste persone vengano individuati dei requisiti o, comunque, una storia di carattere personale. È certo che non possono essere i parametri ordinari degli uffici di collocamento, perché con queste persone non c’entrano niente. Bisognerà identificare la storia di ognuno, le capacità possedute, l’interesse ad acquisire nuove conoscenze e la disponibilità ad operare in alcune attività. Questo sarà il criterio prioritario per capire se le persone sono disponibili ad inserirsi in un circuito che non è semplice distribuzione di lavoro. È offerta di occupazione e quindi di un reddito, ma con l’impegno ad aumentare la propria professionalità. Non tutti avranno le stesse opportunità; quelli che lo vorranno, però, le dovranno avere.
Per concretizzare un simile progetto non basteranno certo gli strumenti tradizionali di accesso al mercato del lavoro. Si utilizzeranno canali alternativi?
Sì, alternativi e innovativi. Anche questo è un aspetto interessante del Patto. Partendo dalla costruzione non di una normale banca dati, ma di un archivio delle disponibilità delle persone a mettersi in gioco, svolgendo un ruolo attivo, non solo aspettando che qualcuno le chiami.
Il percorso per giungere alla firma del Patto è stato contrassegnato da manifestazioni contrapposte. Un primo avvertimento lo si è avuto quando la Cisl, avendo promosso il tradizionale convegno di Loano e avendo invitato Sergio Cofferati ha ricevuto un rifiuto, mentre in contemporanea la Cgil organizzava un direttivo a Milano con il suo leader.
Cofferati si è rifiutato di venire a Loano con una lettera in cui affermava che non avrebbe mai partecipato ad una manifestazione promossa da un sindacato che aveva fatto un accordo separato. Affermazione quanto mai scorretta, perché a luglio io non ho fatto un accordo separato, ho firmato con chi c’era.
Dopo pochi giorni, a Milano, sempre agli inizi di settembre, la Cisl ha convocato un ’assemblea con la partecipazione del segretario generale Sergio D'Antoni. Poi c’è stato un momento di pausa fino a metà febbraio di quest’anno.
I mesi tra settembre 1999 e gennaio 2000 sono stati un periodo in cui si è cercato di individuare un minimo di percorso unitario, tanto è vero che la Cgil, pur senza essere firmataria della preintesa ed avendo sostenuto che non avrebbe mai firmato, ha partecipato a tutti i confronti, nessuno escluso. Sia Cisl che Uil hanno reputato opportuno non escludere la Cgil dalla discussione sul Patto vero e proprio e il ruolo che la Cgil ha potuto giocare in questo periodo è stato paritario rispetto alle altre due organizzazioni sindacali. Forse per questo non ci sono state iniziative divergenti, se non qualche schermaglia giornalistica. Niente più di questo, ma era di merito, quindi assolutamente legittima e importante. Il culmine della trattativa ha invece nuovamente evidenziato la divisione che si era creata sulla concezione del Patto e la sua impostazione. Lì si è capito che, tutto sommato, era normale che la Cgil non avesse firmato neppure la preintesa, perché i suoi contenuti sono lontani dal loro dibattito.
E’ la prima volta che si fanno manifestazioni contrapposte a Milano?
Che io ricordi, sì. Quella dell’11 febbraio è stata una manifestazione contro un Patto sottoscritto da altre organizzazioni sindacali e, quindi, è logico pensare che sia anche contro chi lo ha firmato. Non ricordo che tra Cgil, Cisl e Uil si sia mai giunti a manifestazioni pubbliche contro posizioni che sono state assunte da una delle confederazioni.
Perché siete arrivati a questo punto?
Credo che ci sia un problema di merito rispetto ai contenuti del Patto. Mi sono, però, resa conto che è quasi impraticabile per la Cgil un confronto con amministrazioni di destra. Per la Cgil questo è ancora un problema mentre, per quanto ci riguarda, molto più semplicemente vuol dire cercare di portare anche un’amministrazione del Polo a ragionare in termini sociali, sulla base di un’impostazione condivisibile anche dal sindacato. Questo per la Cgil è impossibile.
Qual è stato dunque l’elemento scatenante? Da quanto lei afferma sembra più un problema di schieramento politico che non di merito rispetto alla flessibilità.
L’elemento scatenante, che è poi quello che ha fatto intervenire direttamente Sergio Cofferati sul «Corriere della Sera», alla vigilia dell’incontro decisivo per la firma della preintesa, si annida nella mentalità della Cgil, per la quale esistono ancora barriere di carattere ideologico che rendono impossibile arrivare ad un accordo con una giunta del Polo. Tra l’altro, mentre con questa giunta avevamo sottoscritto unitariamente un protocollo d’intenti, fa specie che nel momento in cui si deve costruire qualcosa di concreto la Cgil si tiri indietro. A meno che non ci sia, e qui sì do un’interpretazione un po’ maligna, una non disponibilità a riconoscere un risultato positivo a una giunta di destra. Un protocollo d’intenti sappiamo che vale come tale, una decisione operativa, che si vede, è un risultato. Mi rendo conto che fare un accordo di questo tipo con una giunta del Polo significa non essere neutrali, perché questo è un successo per Albertini. Però, se è un successo per la giunta milanese, lo è anche per noi averla costretta su un terreno sul quale assolutamente non avrebbe mai voluto scendere. Avrei preferito che il giorno dopo la firma della preintesa si potesse uscire unitariamente dicendo «abbiamo costretto la giunta del Polo a occuparsi dei temi dell’emarginazione sociale». Invece, così, mi tocca semplicemente riconoscere che il Polo è arrivato su un terreno che è tipicamente nostro.
Siete stati accusati di avere accettato con il Patto ciò che la Corte costituzionale ha respinto non ammettendo i referendum radicali sui contratti a termine.
Onestamente questa polemica non riesco a seguirla, ne capirla. La storia è storia. Noi abbiamo cominciato a parlare del Patto quando i referendum non erano nemmeno nella testa di Pannella e della Bonino. Mai le cose sono state fatte sulla base di condizionamenti esterni. Escludo nella maniera più assoluta che le flessibilità di cui si stava parlando fossero indotte da un dibattito legato ai referendum. Sono i referendum che si sono inseriti su un confronto che stavamo facendo a Milano. Mi fa specie che oggi la Cgil affermi che, essendo stato respinto il referendum sui contratti a tempo determinato, noi avremmo fatto un regalo al Polo e ad Assolombarda. Il referendum Pannella-Bonino cancellava le regole dei Contratti a tempo determinato noi ne abbiamo aggiunte delle altre, che prevedono il controllo del sindacato sui singoli contratti a tempo determinato. È un Patto di tutela per i lavoratori che saranno occupati, mentre Pannella voleva esattamente il contrario, nessuna tutela, nessuna regola e assoluta disponibilità della flessibilità per i datori di lavoro. Noi stiamo costringendo i datori di lavoro a discutere di ogni singolo contratto di lavoro a tempo determinato che dovrà essere attuato, per di più con l’impegno - che Assolombarda non voleva assolutamente sottoscrivere - alla stabilizzazione dei posti di lavoro. Quindi, flessibilità controllata in cambio di una migliore occupabilità delle persone e un impegno delle associazioni delle imprese, che predispongono i progetti che andranno a buon fine, a trasformare i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.
Per tutti?
Nel limite del possibile, ovviamente. Ma intanto, se sono stati fatti dei percorsi formativi e lavorativi, si acquisisce un credito.
Il responsabile di un sindacato confederale come vive personalmente il conflitto con un’altra organizzazione?
Con enorme imbarazzo. Contrariamente a quello che si può pensare, non c’è stata la ricerca della rottura, semmai abbiamo cercato un terreno unitario su cui poter lavorare. Anche nelle fasi finali si sono tenuti numerosi incontri, addirittura con i tre segretari generali confederali. Non ci siamo mai esibiti in forzature che potessero in qualche modo creare la rottura. Quello che è risultato evidente man mano che il processo andava avanti è che era quasi impossibile far combaciare i ragionamenti. Oggi quello che si prova è sicuramente imbarazzo, ma con la consapevolezza che si è scritta una pagina nuova nel sindacalismo milanese.
Che cosa è veramente accaduto a Milano?
È successo che è finito il diritto di veto di una delle confederazioni sindacali sulle altre due. Un fatto nuovo, forse negativo, ma che può trasformarsi in un fattore positivo se c’è la volontà delle tre organizzazioni sindacali a rimettersi a disposizione per un dibattito più sereno sul come arrivare alle decisioni insieme. Non c’è nessuna voglia di creare una separazione netta tra un sindacato più vicino al Polo e uno più vicino alla sinistra, non è questo il problema. Cgil, Cisl, Uil hanno delle affinità elettive che non sono assolutamente cancellabili, c’è una storia, delle radici e un patrimonio comune. Ma ora è tempo di discutere su una nuova forma di unità, che veda le tre organizzazioni sindacali con la stessa possibilità di interloquire con le altre due e con i soggetti esterni.
Che ruolo hanno giocato i leader nazionali e perché è Stato necessario il loro intervento?
Sulla preintesa l’intervento di Sergio Cofferati è stato invasivo, non era giustificato per una dinamica che fino quel punto era rimasta di carattere territoriale. Insieme all’intervista di D’Antoni, a pochi giorni di distanza da quella di Cofferati, sullo stesso organo di stampa, ci sono state prese di posizione d’organizzazione. Una negativa, l’altra positiva. Se non ci fosse stata l’intervista di Cofferati, non ci sarebbe stata neppure quella di D’Antoni. L’invasione di campo da parte del segretario generale della Cgil in tutta questa vicenda è stata pesante e, a mio modo di vedere, negativa, anche dal punto di viltà delle relazioni di carattere locale. Non è il primo caso in cui i rapporti tra Cisl e Cgil di Milano vivono momenti di difficoltà, ma in precedenza avevamo sempre risolto i problemi tra di noi, trovando la formula per uscirne in modo costruttivo. Nel momento in cui è sceso in campo Cofferati il confronto ha assunto una dimensione decisamente diversa da quella che doveva avere, vero che stiamo parlando di Milano, però, se non si riconosce l'autonomia ai sindacati territoriali di identificare progetti e azioni a carattere locale si rischia di averi una sovrapposizione di interventi che non aiuta il sindacato ad andare avanti. O queste nostre organizzazioni decidono di affidare responsabilmente ruoli e funzioni ai livelli decentrati, o diversamente ogni caso che riguarda situazioni minimamente significative diventa elemento di scontro. Ciò che si vede a Milano è diverso da quello che si immagina a Roma. Nella fase di chiusura dell’accordo, poi, c’è stata una chiamata in causa, questa volta da parte della Uil, della segreteria nazionale. Probabilmente la Uil viveva con maggiore difficoltà un contenzioso con la Cgil a livello milanese e ha chiesto a Pietro Larizza di tentare una mediazione di carattere nazionale, o quantomeno un’apertura di dibattito a quel livello.
Quello è stato il primo vero tentativo di mediazione?
Sicuramente sì. Fino a quel momento c’erano state prese di posizione di organizzazione. In questo caso c’è stato, invece, l’affidamento al livello nazionale di un ruolo di mediazione. Noi abbiamo accettato la disponibilità di Larizza a giocare questo ruolo, anche se effettivamente si è ulteriormente corso il rischio di trasformare un problema di carattere locale in una questione nazionale, perché quando scendono in campo i tre segretari generali è di tutta evidenza che ogni vicenda assume una dimensione differente. Il ruolo che hanno avuto i tre segretari generali in quell’incontro è stato rispettoso delle nostre scelte. Si è trattato, più che altro, di un confronto per cercare di capire se esistevano margini per identificare una proposta di carattere unitario. Anche la scelta, a conclusione dell’incontro, di affidare proprio al segretario della Camera del lavoro di Milano il compito di riscrivere l’articolo su cui era maturata la divisione è stata condivisa da tutti. Tant’è vero che abbiamo aspettato il nuovo testo con un atteggiamento autenticamente positivo. Il ruolo affidato a Panzeri poteva avere una valenza costruttiva, ma alla fine ne ha avuta un’altra perché, invece della riscrittura di un articolo, ci è stata proposta una modifica sostanziale del senso del Patto difficile da accettare.
Quindi un intervento nazionale poco utile?
Non è servito e ha rischiato di complicare tutto. Per fortuna bisogna dire che, fatto l’incontro a Roma, per quanto mi riguarda, non ho ricevuto nessun altro tipo di interferenza. Per la verità non ne ho ricevuto mai in nessun momento. Sergio D’Antoni mi ha assegnato un ruolo fiduciario in questa vicenda. Sono io che l’ho cercato nei momenti in cui ritenevo opportuno che lui sapesse che cosa stava succedendo, ma mai c’è stato un intervento del segretario generale della Cisl teso a interferire nelle decisioni. Sono sempre stata io, di fronte alle iniziative di Cofferati o Larizza, a chiedergli il suo punto di vista. Spesso abbiamo convenuto insieme che cosa fare.
A livello milanese, com’erano i rapporti con Cgil e Uil prima del Patto?
Sono arrivata alla segreteria della Cisl in un momento in cui le relazioni unitarie erano decisamente più intense di quanto non lo siano oggi. Ho verificato nel corso degli anni una difficoltà estrema nell’entrare in relazione rispetto al merito delle cose, non tanto nella gestione delle iniziative. Tutto ciò che aveva un impatto esterno, come manifestazioni e scioperi, veniva gestito unitariamente, però i ragionamenti di merito, di prospettiva, non è mai stato possibile farli in maniera compiuta. Nel periodo in cui sono stata eletta segretaria dell’Unione ogni tanto si tenevano segreterie unitarie. Abbiamo provato a continuare su quella strada, ma non è stato possibile perché non erano efficaci, essendo più forti le posizioni d’organizzazione. Per cui, nella gestione quotidiana, il rapporto unitario è andato via via affievolendosi.