lunedì 9 novembre 2020

Maria Grazia Fabrizio - Il patto di Milano 1

Intervista al segretario generale della Cisl di Milano Maria Grazia Fabrizio. Prima parte. Pubblicata nel volume "Il patto di Milano. Un patto per la persona", Edizioni Lavoro, Roma, 2000 

I sindacalisti sono abituati a trattative lunghe, confronti spesso aspri, riunioni notturne che non finiscono mai. Ma al termine di questi strani rituali, non sempre com­prensibili per chi non li conosce da vicino, solitamente ci sono risultati concreti, accordi che influiscono sulle condizioni di vita e di lavoro di molte persone. Il Patto di Milano è tutto questo e molto di più. 
In dodici mesi nella metropoli lombarda si è consu­mata una vicenda destinata a lasciare il segno, non solo nella vita cittadina, ma anche, e forse soprattutto, nelle relazioni sindacali dei prossimi anni. Tra accuse, pole­miche e giudizi preconcetti, ottimismi ed esagerazioni, al termine di una vicenda così complessa si corre il ri­schio di non comprendere le ragioni profonde di deter­minate scelte. 
Maria Grazia Fabrizio, segretario generale della Cisl milanese, è una delle figure chiave di questo cammino. A lei, dunque, il compito di spiegare ragioni, contenuti e dubbi del Patto di Milano. 

Perché il Patto? Come mai ad un certo punto a Milano si è deciso di imboccare questa strada? 

Il Patto è nato dall’ipotesi, fatta dal sindaco di Milano alla vigilia della manifestazione sindacale del 13 feb­braio 1999, di costruire un Contratto d’area per gli immigrati. All’origine della proposta c’erano i noti fatti criminosi che avevano interessato la città di Milano e a cui si cercava di dare una valenza di carattere assoluta- mente razzista. Il sindacato decise la manifestazione na­zionale a Milano per colmare uno iato di carattere etico che si stava creando nella città, dove l’equazione immi­grati uguale delinquenti stava andando per la maggiore. Alla vigilia della manifestazione Albertini fece perveni­re alle segreterie Cgil, Cisl, Uil cittadine la proposta di contratto d’area, esclusivamente per gli extracomunita­ri e con una formula abbastanza preoccupante che pre­vedeva salari ridotti per le prestazioni degli stranieri. Ovviamente, a questa che noi abbiamo ritenuto unitaria­mente una provocazione, abbiamo risposto un no pun­tuale e deciso. È il sindaco che ha provocato, con un’i­dea che era insostenibile. 

Che cosa è accaduto quindi, al punto da spingervi su posizioni così divergenti, vista l’iniziale risposta unita­ria? 

Nei mesi di marzo e aprile, mentre Cisl e Uil hanno iniziato un percorso di avvicinamento a quella che sem­brava poter essere un’opportunità, la Cgil ha mantenu­to una posizione di assoluta chiusura rispetto a qualun­que ipotesi di confronto su questa materia. Lì è iniziata la separazione dei comportamenti. Noi abbiamo tentato di capire se si poteva sfruttare la pro­vocazione, portando l’Amministrazione comunale su un terreno che fosse più congruente rispetto alla natura delle relazioni che il sindacato deve avere in ambito ter­ritoriale. La Cisl ha avuto un’intuizione felice e ha lan­ciato l’ipotesi di un contratto sociale, cioè di una tratta­tiva da aprire non solo con l’Amministrazione comuna­le, ma anche con altre forze e abbiamo organizzato un convegno per cominciare ad andare in questa direzione. Abbiamo avviato un dialogo con le associazioni imprenditoriali e abbiamo trovato immediata rispondenza. Da lì è nata la convinzione di chiedere all’Amministra­zione comunale di lavorare non in un ambito circoscrit­to agli immigrati, ma in quello più ampio dell’emargi­nazione conseguenza della disoccupazione. Da questa nostra proposta è nata poi l’idea di un Patto che fosse complessivo e quindi chiamasse in causa tutti gli inte­ressi della città. Ecco perché il Patto ed ecco perché quegli interlocutori. 

Quando il sindaco Gabriele Albertini ha proposto il Contratto d’area a chi si è rivolto? Chi erano i suoi in­terlocutori? Soltanto i sindacati o anche le associazioni industriali e altri soggetti? 

Albertini ha rivolto la sua proposta in prima istanza ai tre segretari di Cgil, Cisl, Uil. È ovvio che lo stesso contratto d’area immaginato dal sindaco prevedeva un impegno da parte degli imprenditori, perché toccava a loro assumere gli immigrati a bassi costi. L’idea del sin­daco era un vero e proprio scambio. Il sindacato avreb­be dovuto concedere flessibilità, in cambio gli impren­ditori avrebbero dovuto dare un lavoro agli immigrati. 

Perché avete scelto la forma del Patto? Altri ammini­stratori locali stanno seguendo strade diverse, modelli differenti. Perché questo strumento? 

Innanzitutto a Milano non è mai stato realizzato un ta­volo vasto dove potessero sedere industriali, sindacati e amministrazione. Qui è la prima volta che si fa concer­tazione. Fino ad ora avevamo fatto contratti di carattere bilaterale. Avevamo concordato ottimi impegni con le singole organizzazioni imprenditoriali. Era stato firma­to anche un protocollo d’intenti tra Cgil, Cisl, Uil e il Comune e un altro con la Camera di commercio, ma a Milano non c’era mai stato un accordo che puntasse a far sedere contemporaneamente tutti i soggetti intorno ad un unico tavolo. Ecco perché è difficile poter pensa­re a qualcosa di diverso rispetto ad un Patto, che in so­stanza non è né un contratto, perché altrimenti sarebbe un livello di contrattazione anomalo rispetto a quelli che sono consentiti attualmente, e neppure un protocollo d’intenti, perché l’obiettivo era un accordo che consen­tisse di assumere delle persone. Si trattava di trovare una formula che fosse una via di mezzo tra un contratto di carattere territoriale e una semplice dichiarazione di buona volontà. Il risultato è qualcosa di meno di un con­tratto territoriale, ma molto di più di una semplice di­chiarazione d’intenti. 

Vi sono esperienze simili in altre città d’Italia? Vi siete rifatti a qualche altro modello? 

È un modello che abbiamo inventato noi e nessuno ave­va in mente esattamente dove saremmo andati a finire. Una delle caratteristiche di questa vicenda è che cammin facendo abbiamo individuato le formule che pote­vano trovare l’assenso di tutti. Di volta in volta si è cer­cato di fare dei passi in avanti. Alla fine ne è scaturito un prodotto assolutamente innovativo, perché credo che mai in nessun accordo si siano impegnate direttamente le associazioni imprenditoriali all’assunzione di lavora­tori e alla presentazione di progetti per creare nuova oc­cupazione. Alcune organizzazioni, in modo particolare quelle artigiane e quelle delle piccole imprese, hanno elaborato in prima persona progetti per l’inserimento la­vorativo di soggetti appartenenti alle fasce deboli che abbiamo individuato. Credo che questa sia la prima esperienza in Italia, perché solitamente i protocolli d’in­tenti demandano poi alle singole aziende affiliate alle associazioni il compito di interpretarli. Qui sono scese in campo direttamente le associazioni. 

Quali sono le idee e gli strumenti che dovrebbero con­sentire di creare concretamente posti di lavoro? 

Le idee forti sono tre. Innanzitutto, le associazioni delle imprese devono costruire dei progetti in grado di creare occupazione aggiuntiva e innovativa. Non possono es­sere progetti che vanno a sovrapporsi o a sostituire atti­vità già presenti nel panorama milanese. La seconda idea forte è che per questi progetti devono essere impie­gati i soggetti marginali nel mercato del lavoro milane­se. La terza idea è che, proprio perché sono soggetti mar­ginali, bisogna costruire dei percorsi di inserimento che siano assolutamente nuovi rispetto a ciò che prevede l’at­tuale sistema di assunzione. In questo senso è importan­tissimo lo Sportello unico di incontro domanda-offerta di lavoro collegato al sistema formativo, perché si rico­nosce alla formazione un ruolo prioritario nella rimo­zione delle cause che impediscono a queste categorie marginali di essere inserite nell’attività lavorativa. 

I critici del Patto sostengono che con questo modello si sia andati a intaccare i livelli di tutela individuale, crean­do condizioni di disparità tra i lavoratori. 

A prima vista, effettivamente, può sembrare che si crei­no delle condizioni di disparità. Quando si vanno ad identificare delle fasce precise di disoccupati o comun­que di inoccupati, delle persone che sono state espulse dal mercato del lavoro, creando per loro delle forme di assunzione particolari, può sembrare discriminante. In realtà, il problema vero è che non si può trattare da uguali persone diverse e, quindi, se si vuole arrivare ad un risultato omogeneo, bisogna usare strumenti diversi. Se l’obiettivo è creare maggiori opportunità per persone che non ne hanno si devono individuare strumenti diffe­renti. Noi abbiamo scelto meccanismi di assunzione per queste persone non nuovi, già utilizzati nella stragrande maggioranza dei casi, ma che oggi possono essere ap­plicati in maniera più flessibile, proprio perché accom­pagnati da percorsi formativi. In sostanza si colma una diversità, una discriminazione, utilizzando strumenti di flessibilità per arrivare al risultato dell’occupazione sta­bile. Non è scandaloso che si impieghino forme diffe­renti per arrivare allo stesso risultato. Lo scandalo, sem­mai, è lasciare che le persone rimangano nel nero, nel sommerso o peggio ancora che non arrivino mai all’oc­cupazione. Questa è la vera discriminazione a cui noi assistiamo. 

Quanti posti di lavoro si dovrebbero creare con i pro­getti presentati? 

I progetti finora presentati prevedono assunzioni per circa un migliaio di posti. Sono le piccole imprese, gli artigiani e le cooperative, oltre che il Comune, ad aver­li già predisposti. Anche Assolombarda ha presentato suoi progetti e ce ne potranno essere altri ancora. 

Quindi i posti di lavoro potranno essere più di mille? 

Se si riesce a mandare a compimento un primo blocco di progetti può essere che questi facciano da volano per al­tri. In fondo le attività di cui Milano ha bisogno sono incredibilmente numerose, perché è una città che necessi­ta di manutenzione, di interventi di carattere sociale, di azioni innovative. Se le associazioni impareranno ad utilizzare le flessibilità consentite dal Patto per creare oc­cupazione è chiaro che avranno un interesse maggiore nella presentazione dei progetti. Se se ne vede l’utilità, il Patto nel quadriennio può tranquillamente dare occu­pazione per svariate migliaia di persone. 

Non è un eccesso di ottimismo? 

Io lo credo veramente, perché la città ha bisogno di interventi. 

Quali sono le mansioni in cui saranno occupati i soggetti interessati? 

I progetti presentati finora sono interessanti per alcuni versi e un po’ rischiosi per altri. Quello che si stacca più decisamente dalle attuali forme di occupazione riguarda i custodi di strada, ed è forse l’interpretazione autentica del senso del Patto. Ci sono anche interventi di supporto all’attività di alcune municipalizzate, che sono soprattutto di agevolazione dei cittadini nell’utilizzo dei mez­zi o delle strutture oggi esistenti, che potrebbero sicura­mente aumentare nel giro di brevissimo tempo. Inoltre, ci sono tutta una serie di attività che riguardano in mo­do particolare gli artigiani e le piccole imprese, che possono creare tantissime opportunità. Milano ha sempre avuto una fantasia incredibile nel realizzare nuovi spazi occupazionali. Si è fermata negli ultimi due decenni. È da vent’anni, da quando è iniziato il tracollo della gran­de industria, che la città non riesce più ad esprimere una sua personalità, una vocazione precisa. Dato che ormai Milano si sta orientando, come quasi tutte le metropoli europee, nei servizi alle imprese e alla persona, questo comporta l’individuazione di giacimenti occupazionali assolutamente nuovi. Giacimenti occupazionali da esplorare, che possono essere riferiti all’area di supporto alle attività della città, oltre che di supporto alla perso­na. Sono servizi che non ci sono e che il Comune non è in grado di offrire. Il primo pensiero è che li debba fare il Comune, ma l’amministrazione pubblica non può ge­stire in proprio tutte le necessità di una città come que­sta. Per cui è ovvio che debbano intervenire nuove im­prese. Su questo aspetto credo che le imprese sociali abbiano molte cose da dire. La domanda di tutta la sfera dei servizi alla persona è esageratamente alta, addirittu­ra fa paura. Ci troviamo di fronte ad una metropoli con una quantità enorme di persone anziane, mentre chi ci lavora vive fuori da suoi confini. 

A quando le prime assunzioni? 

Il meccanismo dovrebbe essere questo. Innanzitutto si procederà alla costituzione della Commissione di concertazione, che ha trenta giorni per insediarsi. Altri tren­ta giorni saranno destinati alla definizione del regolamento, che dovrà essere votato all’unanimità. Poi la Commissione comincerà a vagliare i progetti e a dare il definitivo via libera. È logico supporre che ad aprile sa­ranno in dirittura d’arrivo. A quel punto dovrebbe ini­ziare la ricerca delle persone e, quindi, potrebbero parti­re i primi avviamenti al lavoro. 

Come sarà organizzata la Commissione e chi ne farà parte? 

La Commissione di concertazione è una commissione paritetica tra rappresentanti dei datori di lavoro e rap­presentanti dei sindacati, con la presenza delle Ammini­strazioni comunale e provinciale di Milano. Suo compi­to è quello di valutare i progetti e verificarne la con­gruità rispetto agli obiettivi di innovazione e occupazio­ne aggiuntiva e, quindi, di convalidarli e dare il via libe­ra, verificando con particolare attenzione il corretto uti­lizzo degli strumenti individuati. Questi sono i contratti a tempo determinato, le collaborazioni coordinate e continuative e le diverse forme di assunzione che già esistono e non devono essere modificate. La Commissio­ne di concertazione dura in carica per tutto il periodo di validità del Patto, cioè per quattro anni. Avrà la possibilità di ricevere non solo i progetti finora presentati, ma anche ulteriori progetti che potranno essere presentati in futuro. 

Quando il confronto è entrato nel merito delle questio­ni e si è arrivati alla stesura di un testo organico del Patto? 

A luglio dello scorso anno. Il 13 del mese c’è stata la prima convocazione, da parte del Comune, delle asso­ciazioni imprenditoriali e delle organizzazioni sindaca­li. Prima si sono svolti incontri separati, perché il Co­mune ha voluto fare una marcia di avvicinamento mol­to lenta. È stato un percorso faticoso durante il quale l’Amministrazione si è assunta il ruolo di gestire diret­tamente, ma in modo bilaterale, le relazioni. Si è arriva­ti così alla fine di luglio con riunioni in contemporanea, ma sempre con tavoli separati, e i rappresentanti di Albertini a fare da trade union. Quando c’è stato il passag­gio finale, che ha portato alla sottoscrizione della prein­tesa, a un piano di Palazzo Marino c’era il sindacato e ad un altro gli imprenditori. Questa situazione anomala è andata avanti fino alle due di notte, poi abbiamo chie­sto la riunione del tavolo complessivo e, come si dice in sindacalese, abbiamo «raggiunto il tavolo». In effetti non poteva che essere così, perché la posizione del Co­mune a quel punto risultava assolutamente anomala: nessuno gli aveva assegnato il compito di mediare tra le posizioni dei datori di lavoro e quelle dei sindacati. Da quel momento si è iniziato a ragionare insieme, su un ta­volo unico. 

Chi erano gli attori seduti intorno al tavolo? 

Oltre a Cisl e Uil c’erano il Comune e tutte le associa­zioni dei datori di lavoro, dalle piccole imprese alle associazioni artigiane, ad Assolombarda, alle tre centrali cooperative. Il Comune ha sempre convocato tutti, a prescindere dalle appartenenze. Il 28 luglio ha scelto di invitare coloro che avevano firmato a Roma il Patto per il lavoro nazionale del Natale 1988. Lo schema è stato quello, poi alcune associazioni non hanno risposto, co­me ad esempio I’Abi e Aniap, perché non interessate ad un progetto di carattere locale. 

Con la firma della preintesa si chiude una prima fase e si consuma la rottura da parte della Cgil, che non ac­cetta il testo e abbandona il confronto. 

La separazione si è consumata nella giornata del 28 lu­glio. Dopo un tentativo di formulare una posizione sin­dacale unitaria e avendo ricevuto dal Comune una ri­sposta che richiedeva una mediazione lunga e comples­sa, la Cgil ha scelto di non partecipare alla trattativa e dal pomeriggio del 28 ha deciso di uscire dal confronto. Prima ancora che si arrivasse alla firma di una preinte­sa. Dal primo testo che ci è stato sottoposto il 13 luglio al testo che è stato sottoscritto nella notte tra il 28 e il 29 c’è una differenza abissale. Ci sono addirittura 7 docu­menti intermedi, che venivano predisposti dal Comune sulla base del confronto, ora con il tavolo dei sindacati, ora con il tavolo degli imprenditori. Ad ogni testo veni­vano fatte delle modifiche e il Comune doveva rivedere le proprie posizioni sulla base delle proposte presentate dalle parti. Soltanto dopo che si è dato vita ad un tavolo congiunto si è arrivati ad un’ipotesi di testo che potesse andar bene sia ai datori di lavoro che ai sindacati. A quel punto, però, la Cgil era già via da dieci ore. Uno dei motivi per cui sono state diffuse notizie non esatte è do­vuto proprio al fatto che la Cgil, uscendo dal confronto, aveva in mano un testo che poi non è quello su cui si è lavorato, perché alla fine si è tenuta in considerazione molto di più la bozza sindacale che non quella del Comune, ma a sostenere l’impostazione di Cgil, Cisl, Uil erano rimaste solo Cisl e Uil. Dopo che la Cgil si era allontanata dalla trattativa abbiamo individuato un testo che potesse funzionare, ma lo stesso non abbiamo sottoscritto immediatamente la preintesa. Cisl e Uil hanno, infatti, abbandonato il confronto perché c’era stata un’in­comprensione sostanziale con Assolombarda rispetto ai livelli di contrattazione. Gli industriali alle due di notte avevano espresso la preoccupazione che la preintesa, così come era stata identificata, potesse in qualche mo­do essere interpretata come un ulteriore stadio di con­trattazione. Su questa incomprensione ci siamo lasciati in malo modo, ma con l’impegno a cercare di costruire le condizioni per arrivare alla firma. Nelle ore successi­ve c’è stata una fitta serie di contatti tra Cisl, Uil, As­solombarda e Comune che ha portato alla definizione di una dichiarazione a verbale congiunta che chiariva che non si sarebbe mai dovuto intendere l’intesa come un li­vello di contrattazione aggiuntivo. Così, nella giornata del 29, tutti hanno sottoscritto la preintesa, ma la Cgil, pur avendo avuto diverse ore di tempo per verificare l’effettiva portata del testo, ha ritenuto di non poter fir­mare. 

Avete sì o no sottoscritto degli allegati? Cosa c’era o avrebbe dovuto esserci lì dentro? 

I famosi allegati di cui tanto si è parlato accompagnava­no il testo che venne consegnato a Cgil, Cisl, Uil il 13 luglio. Il Comune quel giorno presentò una bozza di in­tesa e numerosi allegati che non erano condivisibili. Ma quella era una proposta del Comune, che nessuno ha sottoscritto e nemmeno è stata materia di confronto nel­la notte tra il 28 e il 29 di luglio, perché in quella sede si è chiarito che qualunque strumento di flessibilità si fos­se ritenuto opportuno inserire nel Patto, questo non avrebbe potuto scardinare l’assetto contrattuale esistente. 
Con questa precisazione gli allegati che ci erano stati presentati il giorno 13 sono automaticamente spariti dal tavolo del confronto e si è ripartiti sostanzialmente da zero.