martedì 27 ottobre 2020

Gli anni caldi della Cisl in Lombardia 1

Pubblicazione realizzata in occasione dell'Assemblea programmatica e organizzativa della Fnp Cisl Lombardia, 20.21 ottobre 2015. Materiali preparatori del volume "Impegno e passione", Bibliolavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016. In questa parte 1 (di 6): Fedeli alla Cisl, Coloro che hanno fatto la Cisl. 

Fedeli alla Cisl

"Non ero convinto, ma se l'organizzazione aveva deciso io sostenevo la scelta della Cisl". "Non ero d'accordo sul percorso di scioglimento della Fim che si stava realizzando per co­struire il sindacato unitario. Però non ho mai contestato questa scelta perché la mia lealtà nei confronti del gruppo e della cordata era assoluta". "Quando l'organizzazione nazionale proclama uno sciopero noi possiamo avere tante idee nella nostra testa, ma quello deve essere sostenuto, poi eventualmente si possono contestare le scelte ed esprimere le nostre ragioni". 
Fedeli alla Cisl, all'organizzazione, alle sue scelte, anche quando non sono capite o condivise. Una fedeltà da non confondere, però, con l'opportunistico schierarsi dietro i gruppi dirigenti. Siamo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, gli anni caldi del sindacato italiano. La discus­sione dentro la Cisl è forte e certo non si sottraggono al confronto gli operatori e i dirigenti delle unioni e delle categorie della Lombardia. Una partecipazione viva, intensa grazie alla quale la Cisl cresce e consolida la sua presenza tra i lavoratori. 
In campo ci sono più generazioni di sindacalisti cislini. Con storie e percorsi assai differenti. Ci sono coloro che sono stati artefici della costruzione del sindacato nuovo negli anni più difficili del conflitto con le imprese, con poche risorse e scarse tutele, oltre che del duro confronto ideologico con la Cgil. Coloro che con la loro azione hanno creato le condizioni per la grande crescita del movimento dei lavoratori, l'esplodere dell'autunno caldo e il consolidamento della presenza sindacale. E ci sono quelli che, proprio grazie a quanto costruito in quegli anni duri, scelgono l'impegno nella Cisl perché luogo di libertà, autonomia e partecipazione. Por­tando nuove energie e nuove idee dentro il sindacato. Con una caratteristica che li accomu­na a chi li ha preceduti: sono giovani, ma pronti ad assumersi importanti responsabilità alla guida dell'organizzazione. Non mancheranno i contrasti, ma sui grandi temi dell'autonomia e dell'incompatibilità, dell'unità sindacale e dell'unità della Cisl i sindacalisti lombardi si trove­ranno sempre, con poche eccezioni, dalla stessa parte. Le testimonianze raccolte ne danno precisa conferma. 

Coloro che hanno fatto la Cisl 

"Il segretario della Cisl a Rovigo era un'autorità, io avevo 25 anni. La prima volta che sono andato dal prefetto mi ha detto: "Mi scusi, ma lei è il figlio del segretario della Cisl?" "No, sono io". (Pillitteri) 

"Sono entrato in segreteria provinciale nel 1981 e nel 1985 sono diventato segretario generale lombardo, avevo 29 anni". (Guerinoni) 

Giambattista Cavazzuti a trent’anni è segretario regionale della Valle d'Aosta. Daniele Corbari a soli diciannove anni lascia la fabbrica per diventare operatore del sindacato tessile a Milano insieme ad un gruppo di ragazzi allievi dì don Milani, provenienti dalla scuola di Barbiana. Una caratteristica, quella della giovane età dei dirigenti cislini, ben sottolineata da Pierangelo Farina: 

"Negli anni Settanta eravamo noi che trascinavamo tutto il movimento sindacale, basta guardare l'età dei dirigenti della Fim rispetto a quelli della Fiom, o della Cisl rispetto alla Cgil"

Il sindacato nuovo recluta energie fresche, con tanta voglia di imparare e il desiderio di cam­biare il mondo del lavoro e la società. Ma dove trovare le risorse necessarie a sostenere il cammino di cambiamento dell'esperienza sindacale italiana immaginato da Giulio Pastore e Mario Romani? I racconti dei nostri testimoni lo descrivono con precisione. Si tratta ge­neralmente di giovani provenienti da famiglie operaie e contadine, appartenenti al mondo cattolico, con una sentita pratica religiosa. 

"La mia era una famiglia contadina, cattolicissima, praticante e tutte le sere dicevamo il rosario". (Alberti) 

"Quando ho visto l'Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi mi sono riconosciuto. La mia era una famiglia religiosa, di formazione cattolica, abbastanza praticante". (Boldrini) 

"La mamma era cattolica, praticante, come sua madre, mia nonna, anticomunista vi­scerale che sosteneva che i comunisti non avevano voglia di lavorare. Papà aveva fatto il servizio militare nei carabinieri, aveva il rispetto delle regole, ma una visione un po' più laica della mamma, lo ho fatto il chierichetto". (Dioli) 

"lo vengo da una famiglia cattolica, frequentavo l'Azione cattolica, quand'eravamo ra­gazzi papà e mamma prima di prepararci la colazione andavano a messa. Abitavamo proprio di fronte alla parrocchia di San Cristoforo e quindi si può dire che io abbia vissuto in parroc­chia". (Pillitteri) 

"La mia famiglia era di cultura cattolica rurale, la zia è stata una delle fondatrici della Democrazia cristiana e mi ha introdotto ad una cultura sociale abbastanza singolare". (Fassin) 

"La mia è una famiglia religiosa, praticante, mio padre nel secondo dopoguerra ha corso il rischio di essere appeso a una croce da parte dei comunisti, i miei genitori hanno frequentato solo le elementari, mio padre era impiegato e mia madre casalinga e faceva la sarta". (Pelagatti) 

"La mia era una famiglia operaia e ho perso il papà a sette anni, la mamma lavorava al Cotonificio Dell'Acqua a Seregno. Era una famiglia molto religiosa, in modo particolare mia mamma, lo ho fatto per diversi anni il chierichetto". (Perego) 

Nei ricordi giovanili di molti dirigenti della Cisl lombarda si trovano anche tracce differenti, con genitori che professano una fede socialista, pur non rinunciando alla pratica religiosa. 

"La famiglia era sostanzialmente socialista e di formazione cattolica. I salesiani e l'oste­ria sono stati e miei luoghi di formazione" (Regenzi) 

"Durante il periodo del fascismo mio padre ha cambiato diversi lavori perché non es­sendo iscritto al partito faticava a trovare un posto, faceva il carpentiere, è stato anche in Africa a costruire strade, è stato in Liguria. La mamma era a casa. La famiglia era religiosa, cattolica. Il papà era un socialista, però frequentava la chiesa". (Mastaglia) 

"Era una famiglia molto religiosa, lo sono il tredicesimo e ultimo dei figli, sei maschi e sette femmine. Sono praticamente cresciuto in oratorio con il parroco, Don Amigoni, che mi ha formato in tutti i sensi. Mio padre era un vecchio socialista, iscritto alla Cgil. Durante il fascismo ha subito delle violenze pesantissime." (Galli) 

A testimonianza della complessità e della ricchezza umana del corpo sociale su cui si è inne­stato il tronco del sindacato nuovo, che si è dimostrato capace di attrarre risorse anche da aree all'apparenza lontane, valgono i percorsi di altri futuri dirigenti della Cisl in Lombardia. 

"Era una famiglia laica, mio padre era socialista e anticlericale, sono stato io che negli anni ho portato la mia famiglia vicino alla chiesa. Le mie sorelle avevano nomi particolari Saida, Didi, Teller, Alaska". (Spunton) 

"Mio padre era un artigiano e mia madre un 'impiegata che con l'arrivo dei figli è rimasta a casa. Il livello culturale era discreto, in casa qualche libro c'era e la famiglia era di cultura laica". (Vallini) 

"Era una famiglia religiosa, ma quando è morto ho scoperto che mio papà era massone. Avevo tredici anni, a casa si sono presentati dei personaggi, illustri professionisti, che hanno chiesto a mia madre che il suo corpo venisse messo in un lenzuolo bianco con sotto dei car­boni. Quando mia mamma ha chiesto la ragione di quella richiesta loro hanno risposto che quella era la modalità in uso tra i massoni". (Chianese) 

Gli anni difficili della costruzione della Cisl sono ben noti e studiati e non rientrano negli obiettivi della ricerca che abbiamo condotto. Gli uomini e le donne che hanno fatto la Cisl hanno dovuto affrontare problemi e difficoltà di ogni genere: dalla mancanza di risorse, cui sopperivano in parte gli aiuti di oltreoceano, alle accuse della Cgil di essere al servizio dei padroni e di dividere la classe operaia, alla diffidenza delle imprese che faticavano a capire il valore delle innovazioni proposte dalla Cisl a partire dalla contrattazione aziendale. 
Alcuni piccoli brani del racconto di Pillitteri bastano a richiamarci alla mente la durezza di quei momenti. 

"L'8 agosto 1950, con la mia valigetta, sono andato a Rovigo dove c'era Idolo Ma reo ne. A Rovigo c'era un ufficetto che era una topaia, una sede della Cisl verticale di tre piani con due piccoli uffici per piano, con i pavimenti di legno, senza niente, senza una lira, lo andavo la mattina presto a pulire l'ufficio, ho iniziato facendo il fattorino e la sera scrivevamo le tes­sere. Mi venivano i crampi alla mano perché bisognava scrivere ben tre coppie e gli iscritti erano circa diecimila. Non avevo nessun incarico formale, ero il ragazzo di Marcone". "A Rovigo ho vissuto esperienze incredibili. Ho fatto comizi circondato dai carabinieri. Ho fatto accordi separati senza la firma della Cgil. La Cgil faceva sciopero e noi no. Erano battaglie dure, con urla in piazza". "Una volta il capo lega della Cgil della città di Rovigo tirò fuori la pistola e la mise sul tavolo, lo che non avevo mai visto una pistola ho avuto una paura da morire". "Andavo a fare i comizi dove c'era lo sciopero. Uno di questi dovevo farlo a Stienta e mi sono arrivate delle minacce con scritte per terra che dicevano che se fossi andato lì a fare il comizio mi avrebbero ucciso. Sono andato lo stesso e mi hanno fatto parlare dietro una finestra con il capitano dei carabinieri vicino. Dalla piazza completamente vuota si ve­deva il carabiniere e non me, c'erano solo una o due persone, ma io ho fatto lo stesso il mio comizio, è stato un intervento breve e avevo paura"

Gli anni Sessanta segnano il punto di svolta dell'iniziativa sindacale. Il sessantotto degli stu­denti, il sessantanove operaio, l'autunno caldo irrompono con prepotenza nella società dell'opulenza, scardinando costumi e poteri. Evidenziando con forza la falsità delle forze eco­nomiche e politiche che dietro il paravento di un benessere economico diffuso pretendono di controllare gli spazi di libertà degli individui, John Kenneth Galbraith nel 1958 pubblica "La società opulenta" attaccando alcuni dei miti dell'economia politica e svelando l'inganno della "mentalità convenzionale" che impedisce di guardare al di là delle leggi di mercato. Il suo pensiero segna profondamente il decennio successivo, gettando le basi culturali per il grande movimento di protesta che prende il via dai campus degli atenei americani per trasferirsi poi in Europa e in Italia. 
Anche alcune figure di grandi leader civili e religiosi mostrano con le loro scelte la possibilità di un reale cambiamento. 

"Noi giovani eravamo stanchi di questa situazione, vivevamo con passione il papato di Giovanni XXIII, ci confrontavamo con i giovani del Pei, maturavamo una voglia mai provata di giustizia e libertà". (Pezzotta) 

"Gli anni Sessanta per me e per tutti i giovani erano anni di grande speranza, la nostra generazione è stata segnata da tre personaggi: Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov. Era un periodo nel quale sembrava possibile che le vecchie divisioni venissero superate e il mondo potesse cambiare". (Bon) 

La Cisl lavora per diffondere e consolidare l'idea forte della contrattazione aziendale che an­cora oggi caratterizza la sua azione, definita nel 1953 a Ladispoli. 
Negli anni Sessanta, costruita ormai una solida base per le strutture della Cisl, l'impegno si concentra soprattutto sulla diffusione della contrattazione decentrata. Dopo anni duri di sa­crifici per i lavoratori italiani è giunto il tempo di pensare a migliorare le proprie condizioni. L'economia del Paese e la crescita delle attività produttive offrono i margini per tentare un recupero a favore di operai e contadini. E si contratta, si contratta molto. La Lombardia, con la sua industria in forte crescita e un'agricoltura che si va modernizzando, offre le opportuni­tà più favorevoli e i sindacalisti della Cisl si muovono con slancio lungo questo sentiero. 

"L'aspetto prioritario nella contrattazione degli anni Sessanta era il salario perché i sa­lari erano bassi, si cominciava allora a fare i primi contratti integrativi, anche se noi punta­vamo molto sulla dignità del lavoratore, sul diritto al lavoro, sul fatto di essere riconosciuti come persone rispettate, perché le tutele erano decisamente limitate". (Galli) 

"In quel periodo era in pieno sviluppo la battaglia per la politica salariale integrativa a livello aziendale e la provincia di Brescia è una di quelle che ha fatto più accordi per raggiun­gere i quali sono state fatte battaglie incredibili. Nottate in prefettura, perché alla fine con il prefetto si affrontavano le situazioni più complicate". (Pillitteri) 

"In fabbrica si discuteva essenzialmente dei problemi dell'azienda, poi c'era anche qual­che dibattito più politico, ma i problemi erano il cottimo, la paga di posto. C'era la paga mi­nima stabilita contrattualmente poi per ogni piazza di lavoro c'era un coefficiente che dava diritto a una quota ulteriore di retribuzione. Questo sistema alimentava discussioni infinite su chi lavorasse di più o di meno. La mensa era il luogo del dibattito. Il tema centrale erano i soldi, che erano pochi, altra questione era l'ambiente di lavoro. La sensibilità sui temi della sicurezza c'era, ma era oggettivamente bassa". (Regenzi) 

"La contrattazione aziendale, articolata, è stata una grande scoperta per il sindacato. Si andava in Assolombarda a trattare condizioni di miglior sviluppo per i lavoratori e le aziende, che erano in una fase di crescita e potevano anche concedere dei benefici, sia normativi che economici. Noi eravamo temuti, in senso buono, dalla Cgil perché portavamo avanti la logica della contrattazione articolata e avevamo gli esperti, loro invece avevano questa grande fede nel sindacato, ma erano ideologici" (Rota) 

Come ricorda Rota, la Cisl mette in campo gruppi di esperti che supportano l'azione del­le commissioni interne e dei rappresentanti sindacali aziendali, avviando nel contempo un grande processo di formazione dei propri attivisti. L'obiettivo è di sollecitare l'apertura delle vertenze aziendali, spiegare le novità e rispondere ai quesiti che sorgono. Prende corpo la formula del P su H che dovrebbe permettere di calcolare il giusto premio di produzione. 

"Ho seguito tante vertenze aziendali e ho fatto tanti accordi. Negli anni Sessanta era stata costruita la formula del PsuH per contrattare il premio di produzione, ma siamo riusciti ad applicarla in poche realtà". (Boldrini) 

"I primi problemi di cui mi sono occupata in quegli anni sono state le ristrutturazioni e la cassa integrazione. Nel 1961, '62 abbiamo combattuto una battaglia importante per il premio di produzione, il famoso P su H, che poi non era legato realmente alla produttività. La De Angeli è stata una delle prime aziende a realizzare questa contrattazione, ma è stata dura perché la Cgil era contraria alla contrattazione aziendale, dicendo che se in una fabbrica si facevano gli accordi e in altre non si riusciva in quel modo si dividevano i lavoratori". (Restelli) 

Ma non c'è solo il problema dell'ostilità della Cgil, ci sono anche consuetudini radicate da tempo e difficili da scalzare. Fuori dalla fabbrica. 

"Quando sono arrivato - a Brescia - mi hanno portato a conoscere il vescovo ausiliario il quale, in un salotto bellissimo, damascato, con un enorme vassoio di cioccolatini, mi ha subito detto: 'Sa Pillitteri, gli accordi sindacali si fanno in questo ufficiò. Al che ho risposto: 'Eccellenza, io spero di fare gli accordi sindacali nella sede dell'associazione degli industriali'". (Pillitteri) 

E nei luoghi di lavoro. 

"In fabbrica i primi tempi c'era il problema degli operai anziani che erano abituati all'asservimento e non avevano capito che negli anni Sessanta si era sviluppato nelle grandi azien­de un nuovo potere sindacale. Il problema era fargli capire che c'era la possibilità di fare delle conquiste e di superare il paternalismo. Il paternalismo produceva l'effetto di far accettare tutto ciò che l'azienda diceva". (Farina) 

Il modello della contrattazione decentrata supera i confini dll'industria e inizia a penetrare anche in settori, come il pubblico impiego, fino ad allora assai lontani da un'idea di contrat­tazione locale. 

"In ufficio si discuteva solo dell'applicazione dei contratti nazionali, i più erano assunti con contratti semestrali, pochissimi con concorso pubblico. Abbiamo iniziato a chiedere delle garanzie anche per loro e ad avviare i primi confronti con il consiglio di amministrazione." (Chianese) 

Nel 1965, '66' nella tornata dei rinnovi dei contratti nazionali di lavoro, in particolare di quello dei metalmeccanici, si sviluppa il tentativo di rivincita da parte del padronato. Confindustria si batte non tanto per contenere le richieste di aumenti salariali o di riduzione dell'orario di lavoro, ma con l'obiettivo di contrastare il diritto alla contrattazione decentrata. Esattamente l'opposto di quella che è oggi la posizione delle imprese. Ma nella seconda metà degli anni Sessanta, superata la battuta d'arresto, la contrattazione aziendale riprende vigore, Sempre più frequentemente gli scioperi e gli accordi si fanno insieme a Cgil e Uil. Si avvia la nuova fase che porterà all'autunno caldo e al tentativo di costruzione dell'unità sindacale organica. Nei luoghi di lavoro si sente la spinta al cambiamento che proviene da oltre i cancelli, a par­tire dal movimento degli studenti. 

"Nel '68/'69 cominciarono le battaglie e le contestazioni più dure. Noi come tessili erava­mo impegnati prevalentemente sulla contrattazione aziendale; per ottenere diritti sindacali, affissioni, assemblee, queste prime cose. Le conquistavamo fabbrica per fabbrica". (Corbari) 

"Sul finire degli anni Sessanta non c'erano crisi e le vertenze che abbiamo fatto in quegli anni avevano al centro il salario, il premio di produzione e le qualifiche. C'era curiosità e at­tenzione su quello che accadeva fuori dalle fabbriche, in particolare a Milano e nel movimen­to degli studenti, ma se si andava a fare una riunione con i lavoratori si parlava dei problemi della loro azienda". (Alberti) 

"In fabbrica si avvertivano i mutamenti che stavano avvenendo nella società, nei mo­vimenti giovanili, anche nei reparti si creava una certa divisione tra i giovani da una parte e gli anziani dall'altra. I giovani erano più propensi a scavalcare le tradizionali divisioni che c'erano tra comunisti e democristiani e si puntava a costruire qualcosa di nuovo". (Farina)