Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
La
mia era una famiglia operaia, come la gran parte del paese, Castro, dove ho
vissuto. Mio padre lavorava all’Italsider, e la grande fabbrica era
praticamente scritta nel mio futuro, ma evidentemente il destino ha giocato
diversamente.
Dopo
l’avviamento, sono andato a Milano, all’”Istituto dei fratelli delle scuole
cristiane”, un’enorme struttura con un migliaio di studenti, dalle elementari
alle superiori. Lì, durante il giorno facevo l’inserviente, e alla sera un corso
di contabilità e computisteria, e così per due anni.
Al
mio rientro a Castro, mio cognato mi aveva trovato il posto all’Italsider,
pensando di farmi diventare riferimento della Cisl all’interno della fabbrica.
Ho fatto qualche corso di corrispondenza con il centro studi di Firenze. Poi il
Buelli, segretario della Cisl di Lovere, mi chiede di entrare definitivamente
in fabbrica, per potenziare la commissione interna…In quel momento mi è stato
subito chiaro che la mia strada sarebbe stata un’altra, e ho chiesto di fare
solo il sindacalista…
In
quel tempo, era il 1965, bisognava darsi molto all’organizzazione, facevi
tutto, dal tesseramento all’assistenza…ho iniziato anche a seguire piccole
crisi aziendali nel territorio di Lovere. Poi, nel 1969, con Vincenzo Bombardieri
segretario, Bergamo aveva bisogno di rinforzi all’ufficio vertenze. Da quel
momento, è iniziata la mia carriera sindacale, che mi ha portato negli anni a
ricoprire incarichi sempre più prestigiosi, fino alla segretaria generale della
Filta (tessili) e poi della Ust, fino al 2004.
Agli
inizi, col pullman scendevo la mattina verso Bergamo e rientravo alla sera,
sabato compreso. Ho passato sei mesi all’ufficio vertenze. Poi, mi è stata
affidata la realizzazione della sede a Grumello. Ci ho passato 4 anni ed è
stata una esperienza forse tra le più belle, quella che mi ha formato di più.
A
Grumello, sindacalmente parlando, il terreno era fertile. Sulla spinta del ‘68,
il sindacato veniva visto come un movimento di giustizia, tutela, che in più
garantiva prospettive di aumento dei salari. In zona era concentrata la
produzione provinciale di bottoni, gomma, e guarnizioni. In un anno e mezzo abbiamo
fatto 1.400 iscritti nuovi, grazie anche a alcune battaglie significative: mi
ricordo con particolare affetto la vertenza alla Mabb di Chiuduno. Qui abbiamo
fatto tre mesi di occupazione, con le 22 ragazze che lottavano contro gli 8
esuberi dichiarati dall’azienda. Siamo arrivati allo sgombero, con 40
carabinieri sul posto che hanno portato fuori di peso le operaie mentre
cantavano “sebben che siamo donne…”, e giunte sul cancello si sono messe a
piangere. Io ero lì, e quando le ho viste sono scappato…sono andato a piangere.
Abbiamo perso quella vertenza, ma mi è servita per “prepararmi” alle tante
altre che ho realizzato nella mia carriera sindacale.
Dopo
il 1971 sull’onda della spinta
unitaria, Cgil Cisl Uil hanno realizzato qualche sperimentazione di sedi
unitarie. Mi hanno chiesto di lavorare al Centro operativo unitario di San
Pellegrino, in Valle Brembana, dove sono rimasto per 9 mesi. Non è stata una delle esperienze più
felici della mia vita: è vero che tra le sigle c’era un accordo, ma per gli
operatori non era stata superato il senso di appartenenza, per cui, nelle
fabbriche io continuavo a rappresentare e a essere visto come uomo Cisl, così
come accadeva agli operatori della Cgil o della Uil. In più, non mi sentivo
libero di muovermi e di agire. Così, mi sono stancato presto di fare l’operatore
a pezzi e allora sono andato da Zaverio Pagani, allora segretario
organizzativo, chiedendo di essere spostato. Ogni giorno per due mesi sono
passato a chiedere di spostarmi, dicendo che invece di andare a lavorare,
andavo a San Pellegrino solo a vedere l’Inter. A novembre del ’72, Pagani mi
chiama. Lui e Bombardieri mi chiedono di andare a Treviglio, nella sede Cisl,
che comprendeva anche la zona di Romano, e qui sono stato dal ‘72 fino al ‘75.
È
stato questo uno dei periodi più turbolenti nella zona: ovunque fabbriche
occupate, erano soprattutto le confezioni che andavano all’aria e licenziavano:
per causa dei costi delle importazioni e
della manodopera, chiudevano aziende con migliaia di lavoratori…
Sindacalmente
parlando, è stato un periodo buono: all’interno della Cisl di Bergamo iniziava
a prendere consistenza l’ala giovane della Cisl, più o meno i miei coetanei,
dove maturava l’idea di cambiare la dirigenza che c’era a Bergamo, a cominciare
da quella delle categorie…eravamo d’accordo con i meccanici, in quel periodo
facevo parte dei giovani della Fim nazionale. Il nostro disegno era quello di
sparpagliarci in tute le categorie, per cambiare situazioni vecchie, tra
tessili, edili e chimici.
Grazie
alle nostre manovre, riusciamo a portare a Bergamo Corbari, d’accordo con la segreteria
nazionale, perché anche loro non gradivano come si muoveva la dirigenza di
allora. In particolare, non gradivamo come trattavano l’organizzazione,
sembrava una cosa loro, e anche nelle relazioni esterne percorrevano strade che
non ci piacevano. Addirittura, è successo che per sindacalizzare una fabbrica chiedessero
preventivamente il permesso al parroco del paese!
Intanto,
era il 1975, arrivo a Bergamo. Vengo assunto dalla Filta per seguire alcune
aziende tessili della città e dell’hinterland. Anche tra i tessili, continuo la
mia battaglia di “rottamazione”, e l’occasione me la da la vicenda di Savino
Pezzotta. Allora, era un ottimo delegato della Reggiani, ma noi volevamo che
uscisse per fare il sindacalista a tempo pieno, e la cosa non era gradita dalle
alte sfere di allora. La segreteria Filta, infatti, è contraria, perché secondo
loro era “uno di sinistra”. Solo Corbari lo voleva. A un infuocato direttivo,
verso la fine, mi alzo e pongo il problema:
“vogliamo rafforzare la struttura – dico – e per questo chiediamo che entri Pezzotta”.
Molte donne si sono accodate, chiedendo addirittura le dimissioni della
segreteria. La nostra richiesta raccoglie il 70% dei pareri favorevoli e così
si apre la crisi in categoria, costringendo anche il Nazionale a intervenire.
Alla fine, Savino viene assunto e fa l’operatore. Va a Grumello e inizia la sua
storia. Quello è stato il nostro punto di svolta. Lì abbiamo capito che
potevamo cambiare l’organizzazione.
La
fine degli anni 60 e tutti gli anni 70, sono stati una stagione irripetibile.
Era diversa l’aria che respiravi, sentivi che potevi sperare in qualsiasi cosa:
il cambiamento lo percepivi a portata di mano, e le capacità di conquistarlo o
di organizzarne “la conquista” era reso possibile dalla presenza di persone che
a questo cambiamento ci credevano.
Per
il sindacato, poi, è stata un’epoca magica. Nelle aziende organizzate, le
iscrizioni erano tra il 90 e il 100%. Dove lavoravo io, incontravo invece
qualche difficoltà: nei bottonifici, non superavo il 40%. Quegli imprenditori
erano i più duri da affrontare, poi anche con loro, abbiamo fatto degli ottimi
accordi.
Alla
fine degli anni 60, la gente stessa, gli operai e i lavoratori in genere, era
propensa. L’aria che respiravano in fabbrica era positiva. A noi, spettava il
compito di organizzarli, di indirizzare la loro voglia di nuovo, anche di
protestare contro una situazione difficile. Eravamo ancora costretti a fare le
assemblee fuori dalle fabbriche, al bar o all’oratorio. Ricevevamo rimostranze
su mancate applicazioni del contratto di lavoro: allora, non erano molti gli
stabilimenti nei quali si applicava il Ccnl, anzi, forse era la maggior parte
dei casi. E anche nelle paghe, non erano pochi i casi di “errori” e
“disattenzioni”, guarda caso sempre a scapito dei lavoratori.
Noi
ci mettevamo sopra qualcosa in più: rivendicavamo diritti sindacali, maggior sicurezza
sul lavoro, relazioni dignitose con le controparti.
Il
sindacato, allora, era organizzato, all’interno dei luoghi di lavoro, con le
commissioni interne. Erano loro a tenere il rapporto tra organizzazione e
lavoratori. Noi non potevamo entrare all’interno delle fabbriche. Mi ricordo
ancora i colloqui, quasi clandestini, ai cancelli.
Negli
anni 70, tutto è cambiato con lo Statuto, e anche i datori di lavoro sono stati
costretti a fare buon viso a cattivo gioco, consentendo al sindacato di
entrare. Non sono stati momenti facili, le reazioni ci sono sempre state.
Dovevi sempre battagliare, anche nelle discussioni.
Questi
sono gli anni che hanno inciso profondamente sull’evoluzione del sindacato.
Siamo passati da una fase critica come negli anni 60 a un periodo dove era
tutto possibile. È stato un momento che ha permesso di costruire una
rappresentanza sindacale veramente importante. Poi, sono arrivate le crisi
cicliche; poi, negli anni 90, l’individualismo. La crisi industriale , il
ridimensionamento della produttività…il sindacato ha le sue colpe. Non ha avuto
la capacità di consolidare quello che aveva costruito. Non ha saputo adeguarsi
al nuovo, e si è limitato a difendere l’esistente.
Può
darsi che sia restato ai margini. Si è preoccupato di rivendicare…Cgil Cisl Uil
erano portati a difendere il proprio orticello, ma era scontato.
Delle
grandi conquiste sindacali, è comunque rimasto tanto, ma il quadro dirigente di
oggi non è in grado di assumere il ruolo che servirebbe in questa fase. Il
sindacato deve imparare dalla politica “forte” di questi anni, continuando a
fare il proprio lavoro. Al sindacato deve restare il potere di critica e di correzione
delle manovre politiche, ma abbiamo una dirigenza non all’altezza della
situazione.
La
“grande politica sindacale” non la vivevamo in prima persona, almeno fino alla
metà degli anni 70. Prima abbiamo dedicato ogni sforzo a radicarci su un
territorio che era già molto sindacalizzato. Per quanto riguarda le grandi
scelte, nei momenti congressuali e di svolta, Bergamo è sempre schierata “a
sinistra”, con Macario e Carniti. Condividevamo l’idea di “potere contro
potere”: dovevamo essere in grado di interloquire per condizionare programmi di
governi e partiti, mantenendo ferma l’autonomia e l’incompatibilità, che per
noi diventa irrinunciabile. Condividevamo il fatto che il sindacato fosse un’organizzazione
“rivoluzionaria”, che rappresenta i lavoratori in fabbrica e fuori per consolidare
quanto si conquista in fabbrica.
Personalmente,
ho sposato subito la tesi di Carniti. Con Carniti, ho fatto corsi a Como,
perché venivo da un’esperienza metalmeccanica. Ho partecipato nella mia
formazione giovanile a tutte le occasioni metalmeccaniche che si presentavano,
poi Carniti mi piaceva, perché non sono mai stato dell’opinione che la Cisl
dovesse essere democristiana. Dovevamo fare il sindacato, usando storie, culture
e tradizioni, ma mai schiavi di un partito.
In
quel tempo, il quadro dirigente di Bergamo, come a livello generale, era in
fase di evoluzione. Avevamo una concezione che il funzionario dovesse fare il
funzionario e che il segretario doveva essere uno della fabbrica. Adesso cambia
tutto velocemente. Eravamo per un “sindacato movimento”, ma senza mai
rinunciare alle proprie responsabilità. Era un periodo bello, che ha cambiato
il mondo. A Bergamo, la nostra “rivoluzione” riesce a cambiare oltre il 70 %
dei dirigenti, e questa scelta ha dato i suoi frutti. Mentre negli anni 60 il
sindacato aveva 50 mila iscritti, negli anni 70 sono aumentati incredibilmente,
ma soprattutto, la Cisl è diventata il primo dei sindacati per numero di
iscritti, e anche la rappresentanza bergamasca nei livelli superiori iniziava a
far sentire il proprio peso specifico. Bergamo è diventata uno dei territori di
riferimento per tutta l’organizzazione. Poi, raccoglievi iscrizioni con
facilità, perché il clima era positivo. I lavoratori vivevano il sindacato come
cosa propria. Si innesca in quegli anni un meccanismo virtuoso; aumentano le
entrate e aumentano le possibilità di crescere. Potevi scegliere tra molte
persone che potevano, e sapevano, dare una mano.
La
mia vita in Filta, l’ho sempre vissuta in lotta con l’Unione, le mie “imprese”
venivano lette con un po’ di disagio e con molte apprensioni, ma ritengo che
quasi tutte le azioni intraprese siano state giuste, perché valutate e
concordate con i lavoratori.
Dopo
quella della Mabb, ho fatto l’occupazione della Cappini, un calzificio a
Treviglio. A Romano ho fatto bloccare l’attività in una ditta con 250 operaie.
In entrambi i casi, abbiamo portato a casa condizioni di lavoro migliori, premi
e spostamenti nei reparti.
Di
occupazioni, negli anni, e soprattutto negli anni 70, ne ho fatte molte: mi ricordo
quelle alla Videoplastic, alla Bellora, alla Cantoni, alla Pezzoli e alla
Zopfi. Alla camiceria di Albino abbiamo fatto l’autogestione, andando a vendere
al mercato le camicie che facevamo. Il tessile allora quasi imponeva battaglie
anche aspre…e qualcuna l’abbiamo anche vinta. Oggi nessun sindacalista
proporrebbe di occupare l’azienda, perché nessun lavoratore lo seguirebbe.
Anni
dopo, alla Lovable. Io non potevo entrare in fabbrica, a parlare con i delegati.
Ci parlavo dal cancello, mentre il capo del personale controllava da lontano.
Anche
qui, abbiamo organizzato presidi e occupazioni, per rivendicare un posto
interno per l’attività sindacale. Abbiamo anche “strappato” la quattordicesima.
Dieci anni dopo ci abbiamo rinunciato per salvare i posti di lavoro.
In
val Gandino, ho occupato una fabbrica contro il “potere democristiano” della
zona. Alla Festi Rasini ho avuto contro tutta la segreteria della Dc
bergamasca, e in parte anche di quella della Cisl. La Festi Rasini di Villa
d’Ogna era il covo dei democristiani. Io, in accordo con la parte meno “ortodossa”
della fabbrica, riesco a organizzare uno sciopero, ottenendo anche buoni
risultati, dal punto di vista della paga, della sicurezza e di primi abbozzi di
welfare. Col tempo, la crisi ha toccato anche la Festi Rasini. Anche qui, il
rischio di chiusura è alto. I capi Dc del territorio spingono per l’ingresso di
un imprenditore del comasco, io provo a seguire l’idea di Gianni Radici, già
allora importante presenza del tessile bergamasco. Ancora lì mi sono trovato contrapposto
al potere democristiano, e mi scontro anche con la segreteria Cisl, che non
voleva avere problemi “politici”. Io rilascio un’intervista all’Eco di Bergamo,
contro chi mette i bastoni tra le ruote, resisto e faccio l’accordo, che salva
azienda e occupazione.
Questa
vicenda è quella che mi ha segnato di più dal punto di visto del rapporto con
le persone.
Alla
Filta di Bergamo, siamo riusciti anche a “inventare” nuovi schemi che potessero
salvare l’occupazione nel settore tessile, da sempre oggetto di crisi cicliche
e pesanti. Quello del “6 per 6” è rimasto nella nostra storia anche per una
forte polemica con l’arcivescovo di Ravenna, Cardinal Tonini.
Il
primo accordo sul lavoro domenicale l’aveva ipotizzato Savino, ma non era mai
riuscito a applicarlo.
Il
problema si pone anche alla Legler di Capriate. Gli investimenti richiedevano
una riorganizzazione del lavoro su tutta la settimana. Era il periodo che il “denim”,
il tessuto jeans, era alle stelle, e lì c’erano 600 dipendenti.
Mi
studio il lavoro domenicale. Facciamo la trattativa: o il 3 più due, o il 6x6.
Su queste due proposte organizzo il referendum in fabbrica. Dopo accese
discussioni e divisioni tra i lavoratori, decidiamo per il 6x6, con il quale introduciamo
il lavoro domenicale: si lavora 36 ore, ma pagati 40.
Tutti
i giornali seguono l’accordo…su “Il giorno”, il cardinal Tonini mi attacca :
“il sindacalista che ha firmato l’accordo andrà all’inferno”.
A
me non sembrava di aver fatto qualcosa di male: “sarà anche vescovo”, ho
pensato, ma gli ho risposto: “piuttosto che avere un padre a casa disoccupato, preferisco
che lavori la domenica, garantendo un buon tenore di vita alla famiglia”.
Il
problema è diventato nazionale, tanto che la Filta decide di organizzare un
consiglio generale a Como invitando Tonini. Lì, Tonini precisa: “non sono
contrario al fatto di aver firmato l’accordo, ma non può generalizzare il
lavoro domenicale, perché è il giorno del signore”. “Ma io – ho risposto - non
li faccio lavorare per 24 ore, chi
proprio vuole, a messa ci può andare in un altro momento…e poi non credo di
dover andare all’inferno”. La discussione si è conclusa con una sincera stretta
di mano.