sabato 18 luglio 2020

MARIO GUALENI - Filta, Cisl - Bergamo

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

La mia era una famiglia operaia, come la gran parte del paese, Castro, dove ho vissuto. Mio padre lavorava all’Italsider, e la grande fabbrica era praticamente scritta nel mio futuro, ma evidentemente il destino ha giocato diversamente.
Dopo l’avviamento, sono andato a Milano, all’”Istituto dei fratelli delle scuole cristiane”, un’enorme struttura con un migliaio di studenti, dalle elementari alle superiori. Lì, durante il giorno facevo l’inserviente, e alla sera un corso di contabilità e computisteria, e così per due anni.

Al mio rientro a Castro, mio cognato mi aveva trovato il posto all’Italsider, pensando di farmi diventare riferimento della Cisl all’interno della fabbrica. Ho fatto qualche corso di corrispondenza con il centro studi di Firenze. Poi il Buelli, segretario della Cisl di Lovere, mi chiede di entrare definitivamente in fabbrica, per potenziare la commissione interna…In quel momento mi è stato subito chiaro che la mia strada sarebbe stata un’altra, e ho chiesto di fare solo il sindacalista…
In quel tempo, era il 1965, bisognava darsi molto all’organizzazione, facevi tutto, dal tesseramento all’assistenza…ho iniziato anche a seguire piccole crisi aziendali nel territorio di Lovere. Poi, nel 1969, con Vincenzo Bombardieri segretario, Bergamo aveva bisogno di rinforzi all’ufficio vertenze. Da quel momento, è iniziata la mia carriera sindacale, che mi ha portato negli anni a ricoprire incarichi sempre più prestigiosi, fino alla segretaria generale della Filta (tessili) e poi della Ust, fino al 2004.

Agli inizi, col pullman scendevo la mattina verso Bergamo e rientravo alla sera, sabato compreso. Ho passato sei mesi all’ufficio vertenze. Poi, mi è stata affidata la realizzazione della sede a Grumello. Ci ho passato 4 anni ed è stata una esperienza forse tra le più belle, quella che mi ha formato di più.
A Grumello, sindacalmente parlando, il terreno era fertile. Sulla spinta del ‘68, il sindacato veniva visto come un movimento di giustizia, tutela, che in più garantiva prospettive di aumento dei salari. In zona era concentrata la produzione provinciale di bottoni, gomma, e guarnizioni. In un anno e mezzo abbiamo fatto 1.400 iscritti nuovi, grazie anche a alcune battaglie significative: mi ricordo con particolare affetto la vertenza alla Mabb di Chiuduno. Qui abbiamo fatto tre mesi di occupazione, con le 22 ragazze che lottavano contro gli 8 esuberi dichiarati dall’azienda. Siamo arrivati allo sgombero, con 40 carabinieri sul posto che hanno portato fuori di peso le operaie mentre cantavano “sebben che siamo donne…”, e giunte sul cancello si sono messe a piangere. Io ero lì, e quando le ho viste sono scappato…sono andato a piangere. Abbiamo perso quella vertenza, ma mi è servita per “prepararmi” alle tante altre che ho realizzato nella mia carriera sindacale.
Dopo il 1971 sull’onda della spinta unitaria, Cgil Cisl Uil hanno realizzato qualche sperimentazione di sedi unitarie. Mi hanno chiesto di lavorare al Centro operativo unitario di San Pellegrino, in Valle Brembana, dove sono rimasto per  9 mesi. Non è stata una delle esperienze più felici della mia vita: è vero che tra le sigle c’era un accordo, ma per gli operatori non era stata superato il senso di appartenenza, per cui, nelle fabbriche io continuavo a rappresentare e a essere visto come uomo Cisl, così come accadeva agli operatori della Cgil o della Uil. In più, non mi sentivo libero di muovermi e di agire. Così, mi sono stancato presto di fare l’operatore a pezzi e allora sono andato da Zaverio Pagani, allora segretario organizzativo, chiedendo di essere spostato. Ogni giorno per due mesi sono passato a chiedere di spostarmi, dicendo che invece di andare a lavorare, andavo a San Pellegrino solo a vedere l’Inter. A novembre del ’72, Pagani mi chiama. Lui e Bombardieri mi chiedono di andare a Treviglio, nella sede Cisl, che comprendeva anche la zona di Romano, e qui sono stato dal ‘72 fino al ‘75.
È stato questo uno dei periodi più turbolenti nella zona: ovunque fabbriche occupate, erano soprattutto le confezioni che andavano all’aria e licenziavano: per causa dei costi delle  importazioni e della manodopera, chiudevano aziende con migliaia di lavoratori…
Sindacalmente parlando, è stato un periodo buono: all’interno della Cisl di Bergamo iniziava a prendere consistenza l’ala giovane della Cisl, più o meno i miei coetanei, dove maturava l’idea di cambiare la dirigenza che c’era a Bergamo, a cominciare da quella delle categorie…eravamo d’accordo con i meccanici, in quel periodo facevo parte dei giovani della Fim nazionale. Il nostro disegno era quello di sparpagliarci in tute le categorie, per cambiare situazioni vecchie, tra tessili, edili e chimici.
Grazie alle nostre manovre, riusciamo a portare a Bergamo Corbari, d’accordo con la segreteria nazionale, perché anche loro non gradivano come si muoveva la dirigenza di allora. In particolare, non gradivamo come trattavano l’organizzazione, sembrava una cosa loro, e anche nelle relazioni esterne percorrevano strade che non ci piacevano. Addirittura, è successo che per sindacalizzare una fabbrica chiedessero preventivamente il permesso al parroco del paese!
Intanto, era il 1975, arrivo a Bergamo. Vengo assunto dalla Filta per seguire alcune aziende tessili della città e dell’hinterland. Anche tra i tessili, continuo la mia battaglia di “rottamazione”, e l’occasione me la da la vicenda di Savino Pezzotta. Allora, era un ottimo delegato della Reggiani, ma noi volevamo che uscisse per fare il sindacalista a tempo pieno, e la cosa non era gradita dalle alte sfere di allora. La segreteria Filta, infatti, è contraria, perché secondo loro era “uno di sinistra”. Solo Corbari lo voleva. A un infuocato direttivo, verso la fine, mi alzo e pongo il  problema: “vogliamo rafforzare la struttura – dico – e per questo chiediamo che entri Pezzotta”. Molte donne si sono accodate, chiedendo addirittura le dimissioni della segreteria. La nostra richiesta raccoglie il 70% dei pareri favorevoli e così si apre la crisi in categoria, costringendo anche il Nazionale a intervenire. Alla fine, Savino viene assunto e fa l’operatore. Va a Grumello e inizia la sua storia. Quello è stato il nostro punto di svolta. Lì abbiamo capito che potevamo cambiare l’organizzazione.

La fine degli anni 60 e tutti gli anni 70, sono stati una stagione irripetibile. Era diversa l’aria che respiravi, sentivi che potevi sperare in qualsiasi cosa: il cambiamento lo percepivi a portata di mano, e le capacità di conquistarlo o di organizzarne “la conquista” era reso possibile dalla presenza di persone che a questo cambiamento ci credevano.
Per il sindacato, poi, è stata un’epoca magica. Nelle aziende organizzate, le iscrizioni erano tra il 90 e il 100%. Dove lavoravo io, incontravo invece qualche difficoltà: nei bottonifici, non superavo il 40%. Quegli imprenditori erano i più duri da affrontare, poi anche con loro, abbiamo fatto degli ottimi accordi.
Alla fine degli anni 60, la gente stessa, gli operai e i lavoratori in genere, era propensa. L’aria che respiravano in fabbrica era positiva. A noi, spettava il compito di organizzarli, di indirizzare la loro voglia di nuovo, anche di protestare contro una situazione difficile. Eravamo ancora costretti a fare le assemblee fuori dalle fabbriche, al bar o all’oratorio. Ricevevamo rimostranze su mancate applicazioni del contratto di lavoro: allora, non erano molti gli stabilimenti nei quali si applicava il Ccnl, anzi, forse era la maggior parte dei casi. E anche nelle paghe, non erano pochi i casi di “errori” e “disattenzioni”, guarda caso sempre a scapito dei lavoratori.
Noi ci mettevamo sopra qualcosa in più: rivendicavamo diritti sindacali, maggior sicurezza sul lavoro, relazioni dignitose con le controparti.
Il sindacato, allora, era organizzato, all’interno dei luoghi di lavoro, con le commissioni interne. Erano loro a tenere il rapporto tra organizzazione e lavoratori. Noi non potevamo entrare all’interno delle fabbriche. Mi ricordo ancora i colloqui, quasi clandestini, ai cancelli.
Negli anni 70, tutto è cambiato con lo Statuto, e anche i datori di lavoro sono stati costretti a fare buon viso a cattivo gioco, consentendo al sindacato di entrare. Non sono stati momenti facili, le reazioni ci sono sempre state. Dovevi sempre battagliare, anche nelle discussioni.
Questi sono gli anni che hanno inciso profondamente sull’evoluzione del sindacato. Siamo passati da una fase critica come negli anni 60 a un periodo dove era tutto possibile. È stato un momento che ha permesso di costruire una rappresentanza sindacale veramente importante. Poi, sono arrivate le crisi cicliche; poi, negli anni 90, l’individualismo. La crisi industriale , il ridimensionamento della produttività…il sindacato ha le sue colpe. Non ha avuto la capacità di consolidare quello che aveva costruito. Non ha saputo adeguarsi al nuovo, e si è limitato a difendere l’esistente.
Può darsi che sia restato ai margini. Si è preoccupato di rivendicare…Cgil Cisl Uil erano portati a difendere il proprio orticello, ma era scontato.

Delle grandi conquiste sindacali, è comunque rimasto tanto, ma il quadro dirigente di oggi non è in grado di assumere il ruolo che servirebbe in questa fase. Il sindacato deve imparare dalla politica “forte” di questi anni, continuando a fare il proprio lavoro. Al sindacato deve restare il potere di critica e di correzione delle manovre politiche, ma abbiamo una dirigenza non all’altezza della situazione.

La “grande politica sindacale” non la vivevamo in prima persona, almeno fino alla metà degli anni 70. Prima abbiamo dedicato ogni sforzo a radicarci su un territorio che era già molto sindacalizzato. Per quanto riguarda le grandi scelte, nei momenti congressuali e di svolta, Bergamo è sempre schierata “a sinistra”, con Macario e Carniti. Condividevamo l’idea di “potere contro potere”: dovevamo essere in grado di interloquire per condizionare programmi di governi e partiti, mantenendo ferma l’autonomia e l’incompatibilità, che per noi diventa irrinunciabile. Condividevamo il fatto che il sindacato fosse un’organizzazione “rivoluzionaria”, che rappresenta i lavoratori in fabbrica e fuori per consolidare quanto si conquista in fabbrica.
Personalmente, ho sposato subito la tesi di Carniti. Con Carniti, ho fatto corsi a Como, perché venivo da un’esperienza metalmeccanica. Ho partecipato nella mia formazione giovanile a tutte le occasioni metalmeccaniche che si presentavano, poi Carniti mi piaceva, perché non sono mai stato dell’opinione che la Cisl dovesse essere democristiana. Dovevamo fare il sindacato, usando storie, culture e tradizioni, ma mai schiavi di un partito.
In quel tempo, il quadro dirigente di Bergamo, come a livello generale, era in fase di evoluzione. Avevamo una concezione che il funzionario dovesse fare il funzionario e che il segretario doveva essere uno della fabbrica. Adesso cambia tutto velocemente. Eravamo per un “sindacato movimento”, ma senza mai rinunciare alle proprie responsabilità. Era un periodo bello, che ha cambiato il mondo. A Bergamo, la nostra “rivoluzione” riesce a cambiare oltre il 70 % dei dirigenti, e questa scelta ha dato i suoi frutti. Mentre negli anni 60 il sindacato aveva 50 mila iscritti, negli anni 70 sono aumentati incredibilmente, ma soprattutto, la Cisl è diventata il primo dei sindacati per numero di iscritti, e anche la rappresentanza bergamasca nei livelli superiori iniziava a far sentire il proprio peso specifico. Bergamo è diventata uno dei territori di riferimento per tutta l’organizzazione. Poi, raccoglievi iscrizioni con facilità, perché il clima era positivo. I lavoratori vivevano il sindacato come cosa propria. Si innesca in quegli anni un meccanismo virtuoso; aumentano le entrate e aumentano le possibilità di crescere. Potevi scegliere tra molte persone che potevano, e sapevano, dare una mano.

La mia vita in Filta, l’ho sempre vissuta in lotta con l’Unione, le mie “imprese” venivano lette con un po’ di disagio e con molte apprensioni, ma ritengo che quasi tutte le azioni intraprese siano state giuste, perché valutate e concordate con i lavoratori.
Dopo quella della Mabb, ho fatto l’occupazione della Cappini, un calzificio a Treviglio. A Romano ho fatto bloccare l’attività in una ditta con 250 operaie. In entrambi i casi, abbiamo portato a casa condizioni di lavoro migliori, premi e spostamenti nei reparti.
Di occupazioni, negli anni, e soprattutto negli anni 70, ne ho fatte molte: mi ricordo quelle alla Videoplastic, alla Bellora, alla Cantoni, alla Pezzoli e alla Zopfi. Alla camiceria di Albino abbiamo fatto l’autogestione, andando a vendere al mercato le camicie che facevamo. Il tessile allora quasi imponeva battaglie anche aspre…e qualcuna l’abbiamo anche vinta. Oggi nessun sindacalista proporrebbe di occupare l’azienda, perché nessun lavoratore lo seguirebbe.
Anni dopo, alla Lovable. Io non potevo entrare in fabbrica, a parlare con i delegati. Ci parlavo dal cancello, mentre il capo del personale controllava da lontano.
Anche qui, abbiamo organizzato presidi e occupazioni, per rivendicare un posto interno per l’attività sindacale. Abbiamo anche “strappato” la quattordicesima. Dieci anni dopo ci abbiamo rinunciato per salvare i posti di lavoro.
In val Gandino, ho occupato una fabbrica contro il “potere democristiano” della zona. Alla Festi Rasini ho avuto contro tutta la segreteria della Dc bergamasca, e in parte anche di quella della Cisl. La Festi Rasini di Villa d’Ogna era il covo dei democristiani. Io, in accordo con la parte meno “ortodossa” della fabbrica, riesco a organizzare uno sciopero, ottenendo anche buoni risultati, dal punto di vista della paga, della sicurezza e di primi abbozzi di welfare. Col tempo, la crisi ha toccato anche la Festi Rasini. Anche qui, il rischio di chiusura è alto. I capi Dc del territorio spingono per l’ingresso di un imprenditore del comasco, io provo a seguire l’idea di Gianni Radici, già allora importante presenza del tessile bergamasco. Ancora lì mi sono trovato contrapposto al potere democristiano, e mi scontro anche con la segreteria Cisl, che non voleva avere problemi “politici”. Io rilascio un’intervista all’Eco di Bergamo, contro chi mette i bastoni tra le ruote, resisto e faccio l’accordo, che salva azienda e occupazione.
Questa vicenda è quella che mi ha segnato di più dal punto di visto del rapporto con le persone.
Alla Filta di Bergamo, siamo riusciti anche a “inventare” nuovi schemi che potessero salvare l’occupazione nel settore tessile, da sempre oggetto di crisi cicliche e pesanti. Quello del “6 per 6” è rimasto nella nostra storia anche per una forte polemica con l’arcivescovo di Ravenna, Cardinal Tonini.
Il primo accordo sul lavoro domenicale l’aveva ipotizzato Savino, ma non era mai riuscito a applicarlo.
Il problema si pone anche alla Legler di Capriate. Gli investimenti richiedevano una riorganizzazione del lavoro su tutta la settimana. Era il periodo che il “denim”, il tessuto jeans, era alle stelle, e lì c’erano 600 dipendenti.
Mi studio il lavoro domenicale. Facciamo la trattativa: o il 3 più due, o il 6x6. Su queste due proposte organizzo il referendum in fabbrica. Dopo accese discussioni e divisioni tra i lavoratori, decidiamo per il 6x6, con il quale introduciamo il lavoro domenicale: si lavora 36 ore, ma pagati 40.
Tutti i giornali seguono l’accordo…su “Il giorno”, il cardinal Tonini mi attacca : “il sindacalista che ha firmato l’accordo andrà all’inferno”.
A me non sembrava di aver fatto qualcosa di male: “sarà anche vescovo”, ho pensato, ma gli ho risposto: “piuttosto che avere un padre a casa disoccupato, preferisco che lavori la domenica, garantendo un buon tenore di vita alla famiglia”.
Il problema è diventato nazionale, tanto che la Filta decide di organizzare un consiglio generale a Como invitando Tonini. Lì, Tonini precisa: “non sono contrario al fatto di aver firmato l’accordo, ma non può generalizzare il lavoro domenicale, perché è il giorno del signore”. “Ma io – ho risposto - non li faccio lavorare per  24 ore, chi proprio vuole, a messa ci può andare in un altro momento…e poi non credo di dover andare all’inferno”. La discussione si è conclusa con una sincera stretta di mano.