Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
Ho
iniziato a lavorare subito dopo la quinta elementare e ho potuto frequentare la
scuola media serale solo dopo una decina d'anni. A 11 anni ho iniziato come
garzone di un falegname, poi di un fruttivendolo e dal ‘58 al ‘61 di un
idraulico. Nel ‘61 sono andato a lavorare nel cotonificio Cederna, con i libri,
fino al 1963, quando sono passato alla Rte, un'azienda metalmeccanica dove sono
stato fino al 1968. Era una fabbrica di televisori e aveva delle crisi cicliche
con straordinari a Natale e cassa integrazione d'estate, ma io, che avevo
iniziato a impegnarmi nel sindacato, facevo sempre la cassa integrazione e mai
gli straordinari. Era una situazione insostenibile.
L'ultimo stipendio che ho
preso in quell'azienda era di 58mila lire al mese. Quando sono andato a
lavorare alla Sgs, oggi St, il primo stipendio era di 116mila lire. Mi ricordo
che mia mamma aveva paura che avessero sbagliato a darmi i soldi e mi ha detto
che dovevo andare a restituirli. Entrato come operaio, dopo un po' di anni sono
diventato equiparato e successivamente impiegato. Sono rimasto in Sgs fino a
settembre 1977 quando sono uscito in aspettativa sindacale per la Federchimici.
Sindacato
Mi
sono iscritto alla Cisl nel 1961, quando sono entrato al cotonificio. In paese
ci si conosceva tutti, sapevano che ero un ragazzo dell'oratorio e sono venuti
immediatamente a propormi l'iscrizione. In Sgs ho fatto il delegato. L’azienda
allora contava 2.800 addetti e c'era un esecutivo del consiglio di fabbrica
staccato dalla produzione. Io però non mi sono staccato perché facevo il
capoturno e volevo conservare un po' della mia professionalità, ma negli ultimi
due anni sostanzialmente facevo già il sindacalista perché il sindacato,
fruendo di permessi che erano praticamente illimitati, mi utilizzava per fare
assemblee in altre fabbriche della zona.
Sono
stato segretario generale della Flerica di Milano dal 1985 al 1992.
Relazioni industriali
Non
abbiamo mai avuto grandi problemi di agibilità sindacale e nessuno ha mai messo
in discussione i nostri diritti, nemmeno nelle aziende minori, salvo casi singoli.
Relazioni
industriali costruttive partecipative sono state possibili nell'industria chimica
perché c'erano imprenditori interessati al confronto con l'organizzazione dei
lavoratori. Sicuramente la redditività le favoriva, perché la chimica in quegli
anni rendeva. Inoltre, le imprese erano meno frammentate e quindi giocava un
ruolo maggiore l'associazione imprenditoriale che si mostrava più aperta. Noi
riuscivamo sempre a fare i contratti prima e anche migliori ed eravamo accusati
dalle altre categorie di “intrallazzarci” con i padroni. Ottenevamo risultati
importanti senza grandi scioperi, forse c'era meno ideologia sia nei padroni
che nel sindacato.
Contrattazione
La
contrattazione aziendale era assai sviluppata tra un contratto nazionale e
l'altro, di più nelle medie e piccole che non nelle grandi, non in tutti i
settori e con risultati diversi. C'erano piccole aziende della plastica dove si
faceva contrattazione integrativa così come nella ceramica o nel vetro. C'erano
aziende innovative, vedi ad esempio la Mapei, ma anche altre, dove si
ottenevano dei buoni risultati, così come nella farmaceutica venivano premiate
le aziende che riuscivano a creare molecole nuove.
Nei
grandi gruppi la contrattazione integrativa era di fatto nazionale e noi non
contavamo nulla. Nel settore dell'energia, sia pubblica che privata, le aziende
maggiori sono sempre state governate da Roma. Nella chimica non era così,
neanche in Montedison dove, anche se c'era una certa centralizzazione, avevamo
lo spazio per fare contrattazione integrativa nei singoli impianti.
Nel
periodo in cui sono stato segretario generale l'attenzione sui temi dell'ambiente
era ancora agli inizi, anche se noi eravamo abbastanza sensibili e già nel 1977
in Federchimici a Milano avevamo una persona che si occupava di questi aspetti.
Io non ero tra i più attenti alle questioni ambientali, prima per me veniva il
lavoro, però comprendevo le ragioni di chi aveva più preoccupazioni per
l’ambiente. Una questione che ho vissuto più direttamente quando, con
l'accorpamento con l'energia, siamo diventati Flerica e ho dovuto occuparmi
delle raffinerie. In particolare, ho dovuto seguire la raffineria di Rho, con
un confronto anche pesante tra chi sosteneva che bisognava chiuderla e basta e
quelli come me che affermavano che bisognava tenere ben presente il problema
dei lavoratori occupati in azienda. Sulla raffineria di Rho ho avuto uno
scontro duro con Sandro Antoniazzi, che era segretario generale della Cisl di Milano,
perché fece dichiarazioni ai giornali dicendo che bisognava chiudere
l’impianto. Lui volle venire in assemblea a spiegare le sue posizioni e io lo
salvai perché lo feci parlare solo con gli iscritti della Cisl, perché se
avesse incontrato anche quelli della Cgil lo avrebbero “mangiato”. Alla fine,
con il buon senso, trovammo una soluzione per tutti e la raffineria venne
chiusa, ma le persone vennero tutte salvaguardate.
Sono
tra coloro che sostengono che l'area non è stata bonificata per metterci la
Fiera, sono comunque stato firmatario del primo accordo di programma con la
giunta regionale lombarda guidata da Fiorella Ghilardotti per la chiusura e la
dismissione della raffineria che prevedeva la destinazione di quell'area alla
futura fiera di Rho-Pero e l'avvio della bonifica. Nel tempo sono diventato
moderatamente ambientalista, più di quanto non lo fossi inizialmente.
Diversamente
dalla questione ambientale, credevo molto alle elaborazioni di Pierre Carniti
sui temi dell'orario e della flessibilità, sfidando le diffidenze della Cgil
che parlava di pauperismo, di spartire la povertà. La nostra proposta invece
era quella di creare solidarietà nel lavoro, di dare opportunità a tutti. I
contratti di solidarietà, di cui oggi tutti si fanno promotori, sono stati un'invenzione
della Cisl osteggiata dalla Cgil, così come il risparmio contrattuale destinato
a sostenere la solidarietà. Sul tema della riduzione dell'orario mi sono
impegnato perché entrasse nelle piattaforme per il rinnovo del contratto
nazionale, sostenendo anche degli scontri abbastanza aspri con chi era
contrario.
I
premi di produzione legati ai risultati erano in vigore essenzialmente nella
farmaceutica, un settore dove c'erano più risorse disponibili. Un parametro era
il fatturato, anche se non era certo e c'erano resistenze da parte delle
aziende, perché non è che automaticamente maggior fatturato vuol dire più
redditività. Per me era giusto legare quote di salario ai risultati e abbiamo
avuto esperienze positive in diverse aziende a Milano.
Ero
invece molto carente rispetto alle questioni dell'inquadramento e credo di aver
sottovalutato il problema. A livello aziendale, dove ci siamo battuti, ci sono
stati risultati positivi. Legando l'inquadramento alla professionalità e allo
sviluppo delle mansioni abbiamo ottenuto diversi miglioramenti nelle posizioni
dei lavoratori. Una contrattazione integrativa che è servita anche come modello
per la contrattazione nazionale, per rivedere alcuni parametri.
Il
tema dell'organizzazione del lavoro era gestito a livello nazionale per quanto
riguarda le grandi aziende, mentre nelle piccole e medie quando noi
presentavamo questo problema gli stessi lavoratori ci guardavano come dei
marziani, non volevano neppure sentirne parlare, inoltre in alcuni settori era
difficile incidere sull'organizzazione del lavoro perché c’erano processi sui
quali per noi era impossibile intervenire.
Nelle
assemblee il tema degli investimenti era uno di quelli che ci impegnavano
maggiormente perché spesso i lavoratori ci dicevano di lasciar perdere, però
noi insistevamo spiegando che ottenere investimenti era una polizza
assicurativa sul futuro del lavoro. Con un po' di difficoltà alcuni risultati
li abbiamo ottenuti e ci sono aziende che se non avessimo insistito,
spingendole a intervenire su alcune questioni, non avrebbero avuto un futuro.
Quando è stata decisa la chiusura della Pirelli Bicocca, ad esempio, nei piani
originali lo stabilimento di Bollate non era previsto. I piani prevedevano
l'abbandono di Milano e il trasferimento a Torino dopo l'acquisizione della
Ceat che aveva il proprio stabilimento accanto alla Pirelli di Settimo Torinese.
Bollate è stato possibile grazie alla nostra azione, con il supporto di
Domenico Trucchi, che si attivò nei confronti dell'amministratore delegato di
allora e dell’ing. Pirelli, cui banalmente ricordò la sua milanesità. La
proposta è stata sostenuta anche dalla Cgil, ma io rivendico che l'artefice
vero fu Trucchi.
Negli
anni della mia presenza in segreteria a Milano, soprattutto nella prima fase,
ho visto parecchie crisi aziendali. Ne ricordo una in particolare, alla Imec di
Muggiò, che produceva ceramiche, isolatori, dove il personale era in gran parte
femminile e l'azienda aveva deciso di licenziare quasi tutti. Era inverno e
abbiamo fatto 45 giorni di picchetto con un freddo tremendo, però siamo
riusciti a difendere i posti di lavoro con un accordo incredibile fatto in
Prefettura. L'azienda fece le lettere di licenziamento, ma queste vennero
conservate dal prefetto e non consegnate ai lavoratori fino a che, superate le
difficoltà, furono tutti riassunti.
L'occupazione
di una fabbrica è figlia della disperazione, ma che altro potevamo fare per dare
un messaggio di speranza a madri e padri di famiglia? Di fronte al rischio
della perdita del lavoro cercavo sempre comunque un accordo, ma nonostante
fossi un moderato, con la stessa determinazione quando mi dicevano che non
c'era più niente da fare io ero per l'occupazione. Sapevo che magari non
saremmo riusciti a ottenere dei risultati, ma non potevo dire ai lavoratori di
starsene a casa e basta e almeno si poteva tirare avanti per un po'. In diverse
situazioni le soluzioni non sono state trovate, ma io confidavo nell'intervento
delle istituzioni che in quegli anni avevano un ruolo abbastanza importante, in
particolare la Regione Lombardia.
Nelle
aziende chimiche non erano presenti altre forze in modo significativo. Ricordo
che alla Snia di Varedo c’era la Cisnal favorita credo dall'azienda. C'era
ancora qualche gruppo extraparlamentare, ma con un peso marginale.
Welfare aziendale
Nel
1978 è entrato in vigore il servizio sanitario nazionale. In quel periodo
avevamo alcune realtà significative come la Montedison che aveva il Camu, Cassa
mutua Montedison, l'Eni con il Fondo sociale, in Pirelli c'era la mutua
aziendale. La Cgil non vedeva molto bene queste esperienze però ha sempre
chiuso un occhio e quando siamo passati all'attuazione della riforma sanitaria,
che prevedeva sostanzialmente lo scioglimento di tutte le mutue aziendali,
abbiano imbastito una lunghissima trattativa con loro, trovando qualche sponda
nella categoria e invece la resistenza della Confederazione. Noi volevamo
mantenere queste esperienze e alla fine trovammo un'intesa che prevedeva la
creazione di una forma di assistenza particolare per quanto riguarda la cura
dei denti, ma poi non se ne fece niente. Forse bisognava trovare una formula a
metà che salvasse il principio dell'universalità del servizio sanitario
nazionale e allo stesso tempo mantenesse in vita qualche modalità di assistenza
integrativa.
In
Pirelli c'era anche una cassa previdenza che assicurava un sostanzioso bonus a
fine carriera e che veniva alimentata con una quota dei lavoratori e per il
doppio dall'azienda, ma venne abbandonata perché era diventata troppo onerosa.
Per
quanto riguarda invece le colonie, le attività sportive, le case per ferie
eccetera, queste sono morte di morte naturale perché i bisogni delle persone erano
cambiati e la gente sceglieva soluzioni diverse.