lunedì 22 giugno 2020

TINO FUMAGALLI - Segretario generale Flerica - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017

Ho iniziato a lavorare subito dopo la quinta elementare e ho potuto frequentare la scuola media serale solo dopo una decina d'anni. A 11 anni ho iniziato come garzone di un falegname, poi di un fruttivendolo e dal ‘58 al ‘61 di un idraulico. Nel ‘61 sono andato a lavorare nel cotonificio Cederna, con i libri, fino al 1963, quando sono passato alla Rte, un'azienda metalmeccanica dove sono stato fino al 1968. Era una fabbrica di televisori e aveva delle crisi cicliche con straordinari a Natale e cassa integrazione d'estate, ma io, che avevo iniziato a impegnarmi nel sindacato, facevo sempre la cassa integrazione e mai gli straordinari. Era una situazione insostenibile. 

L'ultimo stipendio che ho preso in quell'azienda era di 58mila lire al mese. Quando sono andato a lavorare alla Sgs, oggi St, il primo stipendio era di 116mila lire. Mi ricordo che mia mamma aveva paura che avessero sbagliato a darmi i soldi e mi ha detto che dovevo andare a restituirli. Entrato come operaio, dopo un po' di anni sono diventato equiparato e successivamente impiegato. Sono rimasto in Sgs fino a settembre 1977 quando sono uscito in aspettativa sindacale per la Federchimici.

Sindacato
Mi sono iscritto alla Cisl nel 1961, quando sono entrato al cotonificio. In paese ci si conosceva tutti, sapevano che ero un ragazzo dell'oratorio e sono venuti immediatamente a propormi l'iscrizione. In Sgs ho fatto il delegato. L’azienda allora contava 2.800 addetti e c'era un esecutivo del consiglio di fabbrica staccato dalla produzione. Io però non mi sono staccato perché facevo il capoturno e volevo conservare un po' della mia professionalità, ma negli ultimi due anni sostanzialmente facevo già il sindacalista perché il sindacato, fruendo di permessi che erano praticamente illimitati, mi utilizzava per fare assemblee in altre fabbriche della zona.
Sono stato segretario generale della Flerica di Milano dal 1985 al 1992.

Relazioni industriali
Non abbiamo mai avuto grandi problemi di agibilità sindacale e nessuno ha mai messo in discussione i nostri diritti, nemmeno nelle aziende minori, salvo casi singoli.
Relazioni industriali costruttive partecipative sono state possibili nell'industria chimica perché c'erano imprenditori interessati al confronto con l'organizzazione dei lavoratori. Sicuramente la redditività le favoriva, perché la chimica in quegli anni rendeva. Inoltre, le imprese erano meno frammentate e quindi giocava un ruolo maggiore l'associazione imprenditoriale che si mostrava più aperta. Noi riuscivamo sempre a fare i contratti prima e anche migliori ed eravamo accusati dalle altre categorie di “intrallazzarci” con i padroni. Ottenevamo risultati importanti senza grandi scioperi, forse c'era meno ideologia sia nei padroni che nel sindacato.

Contrattazione
La contrattazione aziendale era assai sviluppata tra un contratto nazionale e l'altro, di più nelle medie e piccole che non nelle grandi, non in tutti i settori e con risultati diversi. C'erano piccole aziende della plastica dove si faceva contrattazione integrativa così come nella ceramica o nel vetro. C'erano aziende innovative, vedi ad esempio la Mapei, ma anche altre, dove si ottenevano dei buoni risultati, così come nella farmaceutica venivano premiate le aziende che riuscivano a creare molecole nuove.
Nei grandi gruppi la contrattazione integrativa era di fatto nazionale e noi non contavamo nulla. Nel settore dell'energia, sia pubblica che privata, le aziende maggiori sono sempre state governate da Roma. Nella chimica non era così, neanche in Montedison dove, anche se c'era una certa centralizzazione, avevamo lo spazio per fare contrattazione integrativa nei singoli impianti.
Nel periodo in cui sono stato segretario generale l'attenzione sui temi dell'ambiente era ancora agli inizi, anche se noi eravamo abbastanza sensibili e già nel 1977 in Federchimici a Milano avevamo una persona che si occupava di questi aspetti. Io non ero tra i più attenti alle questioni ambientali, prima per me veniva il lavoro, però comprendevo le ragioni di chi aveva più preoccupazioni per l’ambiente. Una questione che ho vissuto più direttamente quando, con l'accorpamento con l'energia, siamo diventati Flerica e ho dovuto occuparmi delle raffinerie. In particolare, ho dovuto seguire la raffineria di Rho, con un confronto anche pesante tra chi sosteneva che bisognava chiuderla e basta e quelli come me che affermavano che bisognava tenere ben presente il problema dei lavoratori occupati in azienda. Sulla raffineria di Rho ho avuto uno scontro duro con Sandro Antoniazzi, che era segretario generale della Cisl di Milano, perché fece dichiarazioni ai giornali dicendo che bisognava chiudere l’impianto. Lui volle venire in assemblea a spiegare le sue posizioni e io lo salvai perché lo feci parlare solo con gli iscritti della Cisl, perché se avesse incontrato anche quelli della Cgil lo avrebbero “mangiato”. Alla fine, con il buon senso, trovammo una soluzione per tutti e la raffineria venne chiusa, ma le persone vennero tutte salvaguardate.
Sono tra coloro che sostengono che l'area non è stata bonificata per metterci la Fiera, sono comunque stato firmatario del primo accordo di programma con la giunta regionale lombarda guidata da Fiorella Ghilardotti per la chiusura e la dismissione della raffineria che prevedeva la destinazione di quell'area alla futura fiera di Rho-Pero e l'avvio della bonifica. Nel tempo sono diventato moderatamente ambientalista, più di quanto non lo fossi inizialmente.
Diversamente dalla questione ambientale, credevo molto alle elaborazioni di Pierre Carniti sui temi dell'orario e della flessibilità, sfidando le diffidenze della Cgil che parlava di pauperismo, di spartire la povertà. La nostra proposta invece era quella di creare solidarietà nel lavoro, di dare opportunità a tutti. I contratti di solidarietà, di cui oggi tutti si fanno promotori, sono stati un'invenzione della Cisl osteggiata dalla Cgil, così come il risparmio contrattuale destinato a sostenere la solidarietà. Sul tema della riduzione dell'orario mi sono impegnato perché entrasse nelle piattaforme per il rinnovo del contratto nazionale, sostenendo anche degli scontri abbastanza aspri con chi era contrario.
I premi di produzione legati ai risultati erano in vigore essenzialmente nella farmaceutica, un settore dove c'erano più risorse disponibili. Un parametro era il fatturato, anche se non era certo e c'erano resistenze da parte delle aziende, perché non è che automaticamente maggior fatturato vuol dire più redditività. Per me era giusto legare quote di salario ai risultati e abbiamo avuto esperienze positive in diverse aziende a Milano.
Ero invece molto carente rispetto alle questioni dell'inquadramento e credo di aver sottovalutato il problema. A livello aziendale, dove ci siamo battuti, ci sono stati risultati positivi. Legando l'inquadramento alla professionalità e allo sviluppo delle mansioni abbiamo ottenuto diversi miglioramenti nelle posizioni dei lavoratori. Una contrattazione integrativa che è servita anche come modello per la contrattazione nazionale, per rivedere alcuni parametri.
Il tema dell'organizzazione del lavoro era gestito a livello nazionale per quanto riguarda le grandi aziende, mentre nelle piccole e medie quando noi presentavamo questo problema gli stessi lavoratori ci guardavano come dei marziani, non volevano neppure sentirne parlare, inoltre in alcuni settori era difficile incidere sull'organizzazione del lavoro perché c’erano processi sui quali per noi era impossibile intervenire.
Nelle assemblee il tema degli investimenti era uno di quelli che ci impegnavano maggiormente perché spesso i lavoratori ci dicevano di lasciar perdere, però noi insistevamo spiegando che ottenere investimenti era una polizza assicurativa sul futuro del lavoro. Con un po' di difficoltà alcuni risultati li abbiamo ottenuti e ci sono aziende che se non avessimo insistito, spingendole a intervenire su alcune questioni, non avrebbero avuto un futuro. Quando è stata decisa la chiusura della Pirelli Bicocca, ad esempio, nei piani originali lo stabilimento di Bollate non era previsto. I piani prevedevano l'abbandono di Milano e il trasferimento a Torino dopo l'acquisizione della Ceat che aveva il proprio stabilimento accanto alla Pirelli di Settimo Torinese. Bollate è stato possibile grazie alla nostra azione, con il supporto di Domenico Trucchi, che si attivò nei confronti dell'amministratore delegato di allora e dell’ing. Pirelli, cui banalmente ricordò la sua milanesità. La proposta è stata sostenuta anche dalla Cgil, ma io rivendico che l'artefice vero fu Trucchi.
Negli anni della mia presenza in segreteria a Milano, soprattutto nella prima fase, ho visto parecchie crisi aziendali. Ne ricordo una in particolare, alla Imec di Muggiò, che produceva ceramiche, isolatori, dove il personale era in gran parte femminile e l'azienda aveva deciso di licenziare quasi tutti. Era inverno e abbiamo fatto 45 giorni di picchetto con un freddo tremendo, però siamo riusciti a difendere i posti di lavoro con un accordo incredibile fatto in Prefettura. L'azienda fece le lettere di licenziamento, ma queste vennero conservate dal prefetto e non consegnate ai lavoratori fino a che, superate le difficoltà, furono tutti riassunti.
L'occupazione di una fabbrica è figlia della disperazione, ma che altro potevamo fare per dare un messaggio di speranza a madri e padri di famiglia? Di fronte al rischio della perdita del lavoro cercavo sempre comunque un accordo, ma nonostante fossi un moderato, con la stessa determinazione quando mi dicevano che non c'era più niente da fare io ero per l'occupazione. Sapevo che magari non saremmo riusciti a ottenere dei risultati, ma non potevo dire ai lavoratori di starsene a casa e basta e almeno si poteva tirare avanti per un po'. In diverse situazioni le soluzioni non sono state trovate, ma io confidavo nell'intervento delle istituzioni che in quegli anni avevano un ruolo abbastanza importante, in particolare la Regione Lombardia.
Nelle aziende chimiche non erano presenti altre forze in modo significativo. Ricordo che alla Snia di Varedo c’era la Cisnal favorita credo dall'azienda. C'era ancora qualche gruppo extraparlamentare, ma con un peso marginale.

Welfare aziendale
Nel 1978 è entrato in vigore il servizio sanitario nazionale. In quel periodo avevamo alcune realtà significative come la Montedison che aveva il Camu, Cassa mutua Montedison, l'Eni con il Fondo sociale, in Pirelli c'era la mutua aziendale. La Cgil non vedeva molto bene queste esperienze però ha sempre chiuso un occhio e quando siamo passati all'attuazione della riforma sanitaria, che prevedeva sostanzialmente lo scioglimento di tutte le mutue aziendali, abbiano imbastito una lunghissima trattativa con loro, trovando qualche sponda nella categoria e invece la resistenza della Confederazione. Noi volevamo mantenere queste esperienze e alla fine trovammo un'intesa che prevedeva la creazione di una forma di assistenza particolare per quanto riguarda la cura dei denti, ma poi non se ne fece niente. Forse bisognava trovare una formula a metà che salvasse il principio dell'universalità del servizio sanitario nazionale e allo stesso tempo mantenesse in vita qualche modalità di assistenza integrativa.
In Pirelli c'era anche una cassa previdenza che assicurava un sostanzioso bonus a fine carriera e che veniva alimentata con una quota dei lavoratori e per il doppio dall'azienda, ma venne abbandonata perché era diventata troppo onerosa.
Per quanto riguarda invece le colonie, le attività sportive, le case per ferie eccetera, queste sono morte di morte naturale perché i bisogni delle persone erano cambiati e la gente sceglieva soluzioni diverse.