lunedì 8 giugno 2020

RENZO ORIANI - Innocenti - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “I motori di Milano. Tute blu per il secolo veloce”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2013

Sono nato a Milano in via San Mamete n. 34 il 22.9.1930.
Ho iniziato ad impegnarmi nella Democrazia Cristiana nel 1945, ’46 in Forze Nuove. Il mio impegno è nato con la politica. Lì ho conosciuto i sindacalisti Calvi, Seveso, Chiamenti. Alle prime elezioni del ’46 avevo 16 anni e ho rischiato parecchio, non potevo fare lo scrutatore perché bisognava essere maggiorenni e così ho fatto il rappresentante di lista. Con la fascia della Dc sul braccio in quegli anni non era facile. Nella scuola di Crescenzago tutti gli amici di mio papà gli dicevano: ma tuo figlio cosa fa? Mio papà era comunista, un militante iscritto alla sezione del Pci di Crescenzago. Lavorava alla Ercole Marelli e a fine ’49 hanno occupato l’azienda per tre mesi, alla conclusione della vertenza è stato licenziato.
Quando c’è stato l’attentato a Togliatti, mio padre mi ha detto che non avrei dovuto andare a lavorare. Io invece sono andato. Il pomeriggio la responsabile della Cooperativa di Cresenzago, madre Eugenia Picco, mi ha chiesto di andare con lei per misurare i terreni per la costruzione del nuovo oratorio, poi è successo che Bartali ha vinto il Tour de France contro Robik e mio papà non mi ha più detto niente.
Con la Dc mi sono iscritto subito anche alle Acli. E dalla politica sono arrivato al sindacato.

Prima di entrare in Innocenti ho fatto diverse altre esperienze di lavoro. Ho cominciato molto presto a lavorare, avevo 12 anni e mezzo. In tempo di guerra. Ho lavorato in una tipografia in via Padova. Facevo il fattorino. Un lavoro impegnativo, pericoloso. Dovevo andare in giro con il furgoncino a fare le consegne. Avevo però un vantaggio, al ritorno il furgoncino era vuoto e quando passavo davanti a qualche palazzo bombardato mi fermavo a raccogliere della legna. Poi, a mezzogiorno, durante la pausa la tagliavo a pezzi più piccoli e la sera la portava a casa. La mia famiglia non è sfollata, carbone non ce n’era e quella legna faceva comodo.
Ho lavorato in tipografia per un anno circa. In quel periodo facevano il libretto di lavoro a 13 anni e mezzo. Quando li ho compiuti, un amico di mio papà che faceva il cameriere nella prima sala del ristorante per i dipendenti della Stazione centrale, ha detto a mio papà che avevano bisogno di un aiutante e così sono stato assunto, in regola con il libretto di lavoro. Per lavorare in prima sala occorreva la giacca bianca e io non l’avevo. Mia mamma ha disfatto un materasso, ha messo la federa in candeggina e con quella mia zia mia ha cucito una bella giacca. Solo che si vedevano le righe delle cuciture. Quando sono entrato in sala la prima volta tutti si sono voltati a guardarmi.
In stazione comandavano i tedeschi e in quel posto ho fatto un’esperienza che mi ha segnato molto. Un bel giorno trasferirono il conoscente di mio padre a Sesto San Giovanni, e lui mi prese con se. Alla Rondinella c’era una scuola dove si raggruppavano coloro che andavano a lavorare come volontari in Germania. A questi davano 5mila lire e uno zaino pieno di cibo e abbigliamento: pane, burro, zucchero, una scatola di carne, un vestito, biancheria, una tuta, calze, scarpe, maglione. Per tutti costoro e per i soldati avevano aperto una mensa e un bar dove ci mandarono a lavorare.
Al primo e secondo piano della scuola c’erano i volontari, che si fermavano lì per una settimana circa. Al terzo piano, invece, c’erano i prigionieri catturati dai tedeschi e dai fascisti.  Quando partivano i treni c’era un vagone speciale per il trasporto di costoro. Io come garzone del ristorante potevo entrare ed uscire da qual luogo perché portavo il caffè o altro ai soldati e così le mamme e le fidanzate mi davano  lettere da portare ai loro uomini. Era una cosa pericolosa e bisognava stare attenti, ma non mi è mai successo niente. Sono stato a Sesto fino a fine ’43, quando hanno chiuso la scuola e sono tornato in Stazione centrale. Ho lavorato lì fino al giorno in cui hanno fucilato i partigiani in piazzale Loreto. Era il 10 agosto del 1944. Ogni giorno io arrivavo da casa mia con il tram proprio fino a piazzale Loreto dove scendevo per andare in stazione a piedi e ho assistito a quei drammatici fatti. Dopo quell’eccidio i tedeschi hanno smontato tutta l’organizzazione che c’era in stazione e io sono rimasto a casa.
Non sono però rimasto senza lavoro, ma ho trovato posto al Tubettificio Lombardo, vicino a casa mia, dove sono rimasto fino ai primi mesi del ’47. Quell’anno ci furono delle assunzioni alla Innocenti e mi sono presentato, ma quando ci sono andato non c’era più posto perché avevano già assunto tutti quelli che servivano.
Ho fatto così altri lavori. Sono stato occupato in una ceramica, bellissima, in via Carducci, dove producevano e decoravano piatti, vasi e altro. Anche lì facevo il fattorino. Andavo a ritirare e a consegnare i materiali. Andavo dalle suore Orsoline di piazza Sant’Ambrogio che facevano decorare le ceramiche alle loro ragazze – che appartenevano alle famiglie più in vista di Milano -, ritiravo quelle decorate per farle cuocere e poi le riconsegnavo. Dopo questo lavoro sono partito per il servizio militare e quando sono tornato sono andato a lavorare in fondo a via Savona, in una bella azienda dove fabbricavano i contatori dell’acqua.
In quell’azienda un giorno arrivano Pietro Seveso, segretario generale della Fim di Milano, e Mario Chiamenti, componente della segreteria. Chiamenti era di Crescenzago come me e mi conosceva, anche perché ero impegnato in politica e avevo iniziato ad occuparmi di sindacato. Seveso mi disse che avrei dovuto andare a lavorare alla Innocenti perché la Cisl aveva bisogno di qualche attivista per rafforzare la propria posizione in azienda.
Sono entrato così alla Innocenti alla fine del ’53, assunto come manovale non specializzato. Lavoravo su due Oerlikon, una che forava e l’altra che maschiava. Avevo un vantaggio perché una operazione si sovrapponeva all’altra, quindi era come se facessi due operazioni in una. In quel modo riuscivo a guadagnare il mio cottimo in mezza giornata e l’altra mezza la spendevo a fare attività sindacale. In quegli anni alla Innocenti dominavano i comunisti. La Cisl aveva 25 iscritti su 2.800 addetti, che con l’andar del tempo sono cresciuti a quattromila.
Nei primi anni ’50 c’era ancora il Consiglio di gestione, ma noi eravamo esclusi perché non avevamo neppure un membro di commissione interna. Allora ci siamo dati da fare, io e il mio amico Buffo, che era un impiegato, e abbiamo costituito la Sas, sezione aziendale sindacale. I compagni della Cgil non vedevano di buon occhio questa iniziativa. “Ma che cos’è quella roba lì?” ci schernivano. Invece era una cosa seria, perché ci ha permesso nel giro di un anno e mezzo di ribaltare la situazione. Nel ‘54 eravamo già oltre 300 iscritti. Si andava mese per mese da ogni tesserato a raccogliere i soldi e consegnare il bollino. Il mio vantaggio era quello di avere tempo. Si lavorava su tre turni e facevo anche la notte, così riuscivo a incontrare tutti.
Dopo un po’ di anni sono passato alla manutenzione, un posto dove erano tutti comunisti. Era l’aristocrazia operaia, ma ho saputo farmi volere bene. Mi davo da fare, aiutavo i più anziani.
Qualche tempo dopo sono stato spostato all’alimentazione delle linee della Lambretta. Avevo un mezzo automatico e portavo i pezzi premontati alla linee di montaggio. In quel momento si produceva solo la Lambretta.

Nel 1954 abbiamo inventato una cosa che non è stata molto gradita in Cisl. Mi ricordo che Calvi mi disse che quella iniziativa non andava bene. Ma noi volevamo battere la Cgil e da soli non ce la facevamo, così ci siamo messi insieme alla Uil e abbiamo dato vita alla “Concentrazione democratica” e abbiamo vinto le elezioni per la Commissione interna.
In quel momento ho incominciato a “tremare”, c’era un accordo per cui ogni organizzazione sindacale aveva diritto a un membro permanente in commissione interna e siccome io ero tra gli eletti, ho avuto quell’incarico. Potevo muovermi in tutti i reparti e in quel periodo era importante  intervenire presso gli uffici tecnici per discutere del lavoro a cottimo e non fare forzare eccessivamente i tempi. Era una delle attività principali, ma c’erano molte atre questioni delle quali mi dovevo occupare.
Il rappresentante della Uil in commissione interna si preoccupava solo della Uil, ma quello della Fiom era bravo. Si chiamava Ronchi  e mi ha dato molti spunti che io ho usato per batterli. Era veramente esperto, essendo già al terzo mandato. L’Innocenti alla fine della guerra aveva un obbligo non solo morale, ma anche materiale nei confronti dei comunisti perché questi gli avevano garantito la possibilità di riorganizzarsi dopo le ostilità. Durante il conflitto la fabbrica produceva bombe, infatti gli stabilimenti si chiamavano G1, G2 e G3: Guerra 1, Guerra 2 e Guerra 3. Io ero al G1 dove avevano prodotto i proiettili per i fucili. Al G2 fabbricavano quelli per le mitraglie, al G3 i pezzi più grandi per i cannoni. In quegli anni, siccome gli uomini erano a combattere, alla Innocenti lavorano tutte donne e alla fine della guerra si dovette affrontare la trasformazione degli impianti per la produzione della Lambretta, cosa che il signor Innocenti aveva in mente già da prima delle scoppio delle ostilità. Così decise di licenziare tutte le donne, che erano più di duemila. In Italia alla fine del conflitto c’era il blocco dei licenziamenti e l’unico che ha potuto licenziare è stato proprio Innocenti, grazie a Giuseppe Alberganti che era il capo della Cgil e contava non solo a Milano. Ferdinando Innocenti era amico anche del leader del Pci, Mauro Scoccimarro, e aveva tanti altri amici comunisti. Nel Consiglio di gestione erano tutti di loro, anche se decidevano quello che voleva il padrone. Presidente del Consiglio di gestione era un dirigente dell’azienda che era membro del Comitato centrale del partito comunista. Si chiamava Mario Muneghina. Fu licenziato nel 1955.
I comunisti alla Innocenti avevano il dominio, anche il direttore della mensa era un comunista. Ad un certo punto Innocenti ha assunto un direttore del personale democristiano. L’ho conosciuto grazie al nostro segretario generale nazionale della Fim, Franco Volonté, che ha avuto un buon rapporto con lui.
Con la nostra Sas si è creato un buon gruppo di lavoro. Una sera sì e una no andavamo in parrocchia a San Martino di Lambrate, dove c’era don Giovanni che ci dava un locale per fare le riunioni e così abbiamo costruito la nostra presenza in Innocenti.
Nel 1956, Ortolani e Seveso mi hanno chiamato e mi hanno detto che dovevo partecipare al corso di formazione di Firenze per nuovi sindacalisti che durava un anno. Contento di questo, sono andato in direzione a chiedere l’aspettativa, che mi venne data senza problemi anche perché all’azienda non costava niente. Organizzato tutto, il lunedì mattina sono arrivato in via Tadino (sede della Cisl di Milano) per la partenza e Ortolani mi ha detto che non c’era più posto. La mia reazione fu di sconcerto, ma lui mi disse che mi avrebbero mandato alla sede di Rho, nell’attesa che si liberasse un posto a Firenze. Io non ho accettato. “Volevo andare a scuola perché sono ignorante” ho detto, “visto che non si può, torno alla Innocenti” e così ho fatto. Avevo frequentato solo le elementari.
Fuori dalla fabbrica avevo un caro amico che veniva all’oratorio a Crescenzago. La sua morosa era un’insegnate all’Istituto Pitagora. Io desideravo andare a scuola e così mi sono iscritto in quell’istituto. Ho fatto le tre medie e poi sono passato a ragioneria. Avevo un vantaggio: alla manutenzione dove lavoravo mi davo da fare e così i miei compagni di lavoro, compagni comunisti, dopo che avevo fatto alcuni lavori mi dicevano di smettere e di andare a studiare, che avrebbero continuato loro. E così mi sono diplomato ragioniere. Il mio diploma è merito di molti, sono stato sostenuto da tutti: Buffo mi aiutava con la matematica, Maccarini mi seguiva per il francese, sua moglie mi faceva italiano. Anche quando ho avuto dei momenti di demoralizzazione, o ero troppo stanco - perché pur non facendo turni, dopo una giornata di lavoro andare alla scuola serale era faticoso -, tutti mi hanno spronato ad andare avanti. Devo riconoscere che il mio è un diploma “collettivo”. Quando mi sono diplomato l’azienda mi ha dato un premio di 20mila lire. Sei mesi dopo che sono diventato ragioniere mi hanno promosso impiegato. Fino a quel giorno ho continuato a percepire la paga di manovale.
Studiare ragioneria è servito anche al sindacato. Un giorno, siccome avevo iniziato a frequentare la scuola, Seveso mi ha dato un foglio di carta e mi ha detto che quello era il bilancio della Fim e mi ha chiesto se potevo controllarlo.

Nella mia prima uscita ufficiale come operatore sindacale mi sono occupato dell’Autobianchi.
La prima sede dell’Autobianchi era in via Plinio. Prima di trasferirsi a Desio era occupata e con Seveso siamo andati lì e poi in Tribunale dal giudice per chiudere la partita.

In quel periodo, era il 1960, si è iniziato a parlare di automobili. Il vecchio Innocenti, signor Ferdinando, non la voleva. Era il figlio che era innamorato dell’auto. Tanto è vero che quando è morto suo papà ha venduto la linea della Lambretta e ha iniziato a produrre solo automobili. La prima automobile prodotta è stata la A 40 dell’Austin inglese.
I lavoratori in fabbrica hanno vissuto molto male il passaggio dalla Lambretta all’auto, perché la Lambretta era entrata nel sangue di ognuno di noi. Noi dipendenti potevamo acquistare una moto una volta al mese. Come si usciva dalla fabbrica c’erano persone che la comperavano immediatamente con i soldi in mano. Per molti era un affare. Io non l’ho mai fatto, ma ho sempre usato per muovermi nello stabilimento quella che l’azienda metteva a disposizione della commissione interna.
Con il cambio sono stato spostato al ricevimento dei pezzi che arrivavano dall’Inghilterra. Con me lavorava Nitto, un nipote di Innocenti.
Poco dopo mi hanno trasferito dal settore auto al palazzo della direzione, dove c’erano tutti gli uffici, perché avevano bisogno di un ragioniere. Oggi lì dentro c’è il ricovero per gli anziani. E’ stata un’esperienza tremenda, addetto all’ufficio cambiali inevase.

Nel 1966, mentre si facevano gli scioperi per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici, c’è stata l’alluvione di Firenze e quella zona era stata esonerata dagli scioperi. Mi manda a chiamare il direttore e mi dice che devo andare a Firenze a organizzare il lavoro di una decina di operai della Innocenti che erano stati mandati in Toscana a ripristinare la sede che era stata alluvionata. Ero l’unico che faceva sciopero tra gli impiegati della direzione e pur di mandarmi via mi hanno affidato quell’incarico. Sono stato a Firenze quasi un mese senza fare niente. Gli operai sapevano cosa fare senza bisogno di me, il nostro magazzino lo abbiamo liberato rapidamente perché non era situato nella zona più colpita. Quando sono rientrato gli scioperi erano finiti.
Sono tornato al mio posto di lavoro, intanto gli iscritti tra gli impiegati erano aumentati.
Il mio ufficio riceveva tutte le cambiali inevase, in particolare dalla Campania. Un bel giorno, dopo una presa di posizione delle organizzazioni sindacali contro l’azienda, sono stato chiamato dal caporeparto che mi ha detto che dovevo andare a Napoli per potenziare il nostro ufficio della Campania per il gran numero di cambiali non pagate in quella città. Siccome ero riuscito ad organizzare un minimo di presenza sindacale anche tra gli impiegati mi hanno trasferito a Napoli, dove sono rimasto per un mese e mezzo.
A Napoli è stata un’esperienza decisamente particolare. Ero abituato che alle 8 e mezza entravo in azienda e timbravo il cartellino. Così ho iniziato a fare anche nella città partenopea, ma quando arrivavo in ufficio non c’era nessuno e trovavo solo l’uomo delle pulizie, il signor Cennamo, che mi diceva: “Ma perché viene alle otto e mezzo?”. “Perché questo è l’orario”. “Lei deve sapere come si usa qui. Arrivano tutti più tardi e prima di timbrare rimettono indietro l’orologio alle 8 e 30 e poi timbrano”. Quello era il costume in uso nella sede. Quando arrivavo questo signor Cennamo mi salutava sempre con un “Buon giorno dottore”. “Guarda che io non sono dottore”, gli dicevo, ma lui insisteva. La nostra filiale aveva gli uffici sopra la redazione del “Mattino”, il quotidiano di Napoli. Una mattina trovo Cennamo per strada vicino all’ingresso e mi dice: “Dottore venga a prendere un caffè con me”. Accetto e ci avviamo insieme al bar. Appena entrato chiama il cameriere: “Luigi, un caffè per me e uno per il dottore”. Al che lo guardo e lui: “Non è per lei, dottore, ma per me. Così tutti sanno che io bevo il caffè con un dottore”.

Non sono riuscito a recuperare i quattrini non pagati all’azienda, però quando sono rientrato a Milano avevo ormai acquisito una competenza nel recupero credito.
Un giorno mi manda a chiamare il direttore e mi dice che ha bisogno di un capoufficio. Non ho risposto e gli ho chiesto di lasciarmi pensare. La sera abbiamo fatto la riunione della Sas e ho raccontato che mi avevano proposto di fare il capoufficio. Io non lo volevo fare, preferivo tornare in commissione interna. In quel momento avevamo come rappresentante fisso della Fim in commissione un bravo tecnico che ci teneva a fare il capo reparto. Così lui è rientrato in reparto e io ho preso il suo posto in commissione. Al direttore che mi ha chiamato per chiedermi come mai non avevo accettato il salto di carriera ho risposto che non era obbligatorio che tutti gli impiegati dovessero essere dalla parte della direzione. Sono rimasto impiegato di terza categoria fino all’uscita dall’azienda. Sono stato contento di quella decisione perché è stata una mia scelta.

Nel 1970 è nato il consiglio di fabbrica e sono stato eletto delegato. Quando a livello nazionale sono stati fatti gli accordi unitari, la Uil si è divisa e in fabbrica è nata la UilMd che era contraria all’unità. Veniva quindi a mancare il rappresentante della Uil. In Fim c’era un bravo attivista che era iscritto al Partito socialista così gli abbiamo proposto di fare il rappresentante della Uil. Non solo l’ha rappresentata in azienda, ma è diventato segretario generale della Uil di Milano, Amedeo Giuliani.
Fino a quel punto l’azienda andava bene. Gli inglesi non volevano fare solo una vettura, hanno iniziato a produrne altre: la prima è stata la 40 poi la IM3, la 4, è stata realizzata una spaider, chiamata Innocentina. Queste scelte erano volute dal figlio Luigi. Luigi Innocenti, però, era malato, ogni sei mesi doveva andare in Svizzera, aveva problemi alla testa ed è morto giovane.
Con il vecchio Ferdinando Innocenti ho parlato tre volte come membro della commissione interna, insieme agli altri. Aveva il suo ufficio nel palazzo della direzione e da quella posizione vedeva tutto lo stabilimento. Una volta, era di buon umore, ci ha chiamato in ufficio: voi siete giovani, la sera magari andata a ballare o al cinema, io vengo qui e questo è il mio spettacolo. Ce lo diceva con una grande passione. Era una uomo che dal niente aveva costruito una grande impresa e ne era orgoglioso.

Quando il settore dell'auto entra in difficoltà, nei primi anni ‘70, per fare cassa Innocenti decide di cedere le meccaniche alla Sant'Eustachio, un’azienda Iri, e diventerà Innocenti Sant'Eustachio, Innse.
Le meccaniche erano un reparto di grande qualità che esportava macchine utensili in molti paesi, anche in Russia. C’era un gioiello di Innocenti, il laminatoio a passo pellegrino, una macchina utensile apprezzata da tutti, premiata anche per la sua linea, per l’armonia delle forme. Ricordo che Ferdinando Innocenti, quando il laminatoio era quasi pronto, è andato a controllarlo, c’erano dei bulloni che sporgevano e li ha fatti modificare, aveva una linea perfetta.

Quella vendita è stata una brutto colpo. I lavoratori dell’auto e della Lambretta erano preoccupati. Allora anche noi abbiamo fatto i nostri passi e ci venne garantito che i reparti rimasti sarebbero passati con l'Alfa Romeo. Per noi andava bene. Solo che al momento del passaggio, il nipote di Innocenti, che in quel momento guidava l’azienda e si diceva disponibile all’accordo, ha chiesto di fare il direttore generale dell’Alfa Romeo. L’Iri ha risposto negativamente e così l’accordo non è stato fatto. A qul punto gli inglesi sono diventati proprietari di tutto ciò che era rimasto. Hanno invaso la Innocenti. L'occupazione si è dimezzata, perché erano molti gli addetti al settore della meccanica, ma le difficoltà sono cresciute fino a quando nel 1975 abbiamo occupato la fabbrica. Gli inglesi hanno sfruttato il mercato fino a quando è stato utile, dopo di che hanno deciso di vendere. Siccome non c'erano prospettive abbiamo occupato.

Quell'occupazione è stata un'esperienza molto forte e gestita seriamente. E’ durata un anno e mezzo ed è stata gestita unitariamente, essendo tutti iscritti alla Flm. Eravamo l'unica grande fabbrica occupata e abbiamo avuto tantissimi aiuti. In quel momento sindaco di Milano era Aldo Aniasi. L'amministrazione comunale ci ha donato 1 miliardo di lire per pagare parte degli stipendi ai lavoratori che erano senza soldi, quel miliardo l'ho ritirato io.
Durante l’occupazione facevo il gestore della mensa, lo avevo imparato durante i corsi che la Fim faceva a San Pellegrino.
Ricordo un momento stupendo: Padre Turoldo e Camillo de Piaz sono venuti a celebrare la messa in fabbrica e il vescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo, mi ha tolto il saluto perché avevo invitato Turoldo che lui aveva allontanato dalla diocesi. In occasione di una festività abbiamo invitato anche il vescovo. Lui è venuto, ha celebrato la messa e durante lo scambio della pace sono andato a parlargli. Dopo quella visita ha chiesto che le offerte raccolte durante le messe di una domenica fossero destinate ai lavoratori della Innocenti. Furono raccolti 170 milioni di lire. Siamo andati a ritirarli io e Leonardo Banfi, un comunista della Fiom.

Nel 1976 abbiamo fatto l'accordo con De Tomaso. Ormai gli inglesi avevano lasciato e l’azienda rischiava la chiusura. Il nostro futuro era nelle mani del governo. Siamo andati al ministero del Lavoro per far presente qual era la situazione dell’Innocenti, ministro era Carlo Donat Cattin. C’erano problemi ad avere la cassa integrazione perché l’azienda era in fallimento e Donat Cattin ha trovato la formula per farcela ottenere, oggi parleremmo di una sorta di “cassa in deroga”. Fortunatamente nel frattempo avevamo avuto il miliardo dal Comune di Milano e lo avevamo distribuito ai lavoratori attraverso il direttore del personale della Innocenti a cui avevo personalmente consegnato i soldi. Non era una gran cifra, perché divisa tra tutti erano poco meno di 40mila lire a testa, ma servì a molti.
Quando è arrivata la cassa integrazione, la direzione ci ha restituito il miliardo e quei soldi sono finiti sul mio conto personale, perché ero io che avevo gestito tutti i passaggi, quindi li ho trasferiti sul conto unitario Fim, Fiom, Uilm che era gestito dalla Camera del lavoro di Milano.

L’accordo con De Tomaso è stato firmato dai tre segretari generali dei metalmeccanici Carniti, Benvenuto e Trentin. Siamo stati più volte a Roma, abbiamo trattato e alla fine il governo ha favorito l’ingresso della nuova proprietà. Ma de Tomaso era poco affidabile. Fin dal primo giorno della trattava ci ha presentato il futuro direttore generale della Innocenti, Tullio Pirondini, dicendoci di trattare con lui, perché era impegnato e doveva lasciarci. Noi puntavamo a mantenere alcuni benefici che avevamo in precedenza. Con Pirondini iniziamo a trattare e questo si rimangia tutto quello che de Tomaso aveva promesso. Con noi c’era Enzo Mattina che a nome delle tre organizzazione seguiva la vertenza e ad un certo punto ha alzato la voce e ha detto che a quelle condizioni l’intera delegazione sindacale se ne sarebbe andata. Dopo quella minaccia è rispuntato De Tomaso, che non era andato via ma era rimasto lì nascosto e sentiva tutto.
La trattativa alla fine si è conclusa positivamente e abbiamo ottenuto quasi tutto ciò che chiedevamo. L’assunzione immediata di 2.000 persone con l’impegno assumerne altre 500 dopo sei mesi. Questo è stato l’accordo che noi ci siamo impegnati a far approvare dall’assemblea. Non è stata una cosa facile, perché restavano fuori in cassa integrazione un altro migliaio di lavoratori.
Tornati a Milano abbiamo presentato all’assemblea l’ipotesi di accordo, e solo tre hanno detto di no. Ma dopo soli 15 giorni siamo venuti a sapere che de Tomaso aveva proposto alla Olivetti di assumere i 500 che avrebbero dovuto rientrare in fabbrica nel giro di sei mesi. Noi ci siamo opposti e in un incontro nel suoi ufficio in azienda gli abbiamo detto che servivano nuove produzioni per garantire l’occupazione. Al che lui ha risposto che nel giro di pochi giorni avremmo avuto sul tavolo i progetti dei nuovi veicoli da produrre in Innocenti. Progetti che non sono mai arrivati.
Siamo andati anche a Modena a protestare sotto la sede della Maserati di cui lui era l’amministratore delegato, mentre presidente era Romano Prodi.
In Innocenti in quegli anni si produceva la mini e qualche residuo di IM3.  Piano piano la produzione è andata riducendosi, fino alla fine.

Alla Innocenti abbiamo avuto un solo episodio di violenza, ma molto significativo. Durante l’occupazione abbiamo fatto una “manifestazione silenziosa” alla stazione di Lambrate. Lì c’erano dei gruppi di Potere operaio che si sono accodati al nostro corteo. Finita la manifestazione siamo rientrati in fabbrica. Tutto si era svolto tranquillamente. Ero in mensa e arriva un guardiano dicendomi che c’erano in fabbrica una trentina di persone che urlavano e picchiavano con i bastoni su macchinari e porte degli uffici, con atti di vandalismo.
In un attimo ci siamo organizzati. Sono partiti due cortei di operai, uno a destra e uno a sinistra e li abbiamo stretti tra noi e le guardie sui cancelli, abbiamo fatto due ali e loro sono stati costretti a passare in mezzo, mentre tutti i lavoratori li applaudivano in segno di scherno. Sono stati momenti di forte tensione. Per gestire la vicenda ho fatto una specie di comizio ed è andato via tutto liscio anche se uno di loro ha chiesto in modo sprezzate chi ero, ma tutto è finito in niente.
Grazie a due nostri delegati della Fim, che erano nel consiglio di fabbrica, i militanti di Potere operaio si erano mischiati ai lavoratori al rientro in fabbrica e avevano oltrepassato i cancelli senza essere notati.
Il pomeriggio ho preso i due delegati e gli ho detto che non solo li cacciavamo dal consiglio dei delegati, ma che erano fuori anche dal sindacato.

Durante la fase più difficile della Innocenti non abbiamo mai avuto nessun collegamento con le altre fabbriche produttrici di automobili, anzi quelli dell’Alfa Romeo ce l’avevano con noi, perché noi avevamo buste paga più alte. In azienda si lavorava bene. Innocenti ha rubato molti specialisti all’Alfa Romeo. Noi in quelle occasioni protestavamo perché accusavamo l’azienda di pagare troppo i nuovi arrivati mentre il nostro salario lo consideravamo basso.

Ho lavorato in Innocenti per trent’anni, fino al 1983. Poi sono passato a tempo pieno alla Cisl.