Sono nato a Milano in via San Mamete n. 34 il 22.9.1930.
Ho iniziato ad impegnarmi nella Democrazia Cristiana nel 1945, ’46 in Forze Nuove. Il mio impegno è nato con la politica. Lì ho conosciuto i sindacalisti Calvi, Seveso, Chiamenti. Alle prime elezioni del ’46 avevo 16 anni e ho rischiato parecchio, non potevo fare lo scrutatore perché bisognava essere maggiorenni e così ho fatto il rappresentante di lista. Con la fascia della Dc sul braccio in quegli anni non era facile. Nella scuola di Crescenzago tutti gli amici di mio papà gli dicevano: ma tuo figlio cosa fa? Mio papà era comunista, un militante iscritto alla sezione del Pci di Crescenzago. Lavorava alla Ercole Marelli e a fine ’49 hanno occupato l’azienda per tre mesi, alla conclusione della vertenza è stato licenziato.
Quando c’è stato l’attentato a Togliatti, mio padre mi ha detto che non avrei dovuto andare a lavorare. Io invece sono andato. Il pomeriggio la responsabile della Cooperativa di Cresenzago, madre Eugenia Picco, mi ha chiesto di andare con lei per misurare i terreni per la costruzione del nuovo oratorio, poi è successo che Bartali ha vinto il Tour de France contro Robik e mio papà non mi ha più detto niente.
Con la Dc mi sono iscritto subito anche alle Acli. E dalla politica sono arrivato al sindacato.
Prima di entrare
in Innocenti ho fatto diverse altre esperienze di lavoro. Ho cominciato molto
presto a lavorare, avevo 12 anni e mezzo. In tempo di guerra. Ho lavorato in
una tipografia in via Padova. Facevo il fattorino. Un lavoro impegnativo,
pericoloso. Dovevo andare in giro con il furgoncino a fare le consegne. Avevo
però un vantaggio, al ritorno il furgoncino era vuoto e quando passavo davanti
a qualche palazzo bombardato mi fermavo a raccogliere della legna. Poi, a
mezzogiorno, durante la pausa la tagliavo a pezzi più piccoli e la sera la
portava a casa. La mia famiglia non è sfollata, carbone non ce n’era e quella
legna faceva comodo.
Ho lavorato in
tipografia per un anno circa. In quel periodo facevano il libretto di lavoro a
13 anni e mezzo. Quando li ho compiuti, un amico di mio papà che faceva il
cameriere nella prima sala del ristorante per i dipendenti della Stazione
centrale, ha detto a mio papà che avevano bisogno di un aiutante e così sono
stato assunto, in regola con il libretto di lavoro. Per lavorare in prima sala
occorreva la giacca bianca e io non l’avevo. Mia mamma ha disfatto un
materasso, ha messo la federa in candeggina e con quella mia zia mia ha cucito
una bella giacca. Solo che si vedevano le righe delle cuciture. Quando sono
entrato in sala la prima volta tutti si sono voltati a guardarmi.
In stazione
comandavano i tedeschi e in quel posto ho fatto un’esperienza che mi ha segnato
molto. Un bel giorno trasferirono il conoscente di mio padre a Sesto San
Giovanni, e lui mi prese con se. Alla Rondinella c’era una scuola dove si
raggruppavano coloro che andavano a lavorare come volontari in Germania. A
questi davano 5mila lire e uno zaino pieno di cibo e abbigliamento: pane,
burro, zucchero, una scatola di carne, un vestito, biancheria, una tuta, calze,
scarpe, maglione. Per tutti costoro e per i soldati avevano aperto una mensa e
un bar dove ci mandarono a lavorare.
Al primo e
secondo piano della scuola c’erano i volontari, che si fermavano lì per una
settimana circa. Al terzo piano, invece, c’erano i prigionieri catturati dai
tedeschi e dai fascisti. Quando
partivano i treni c’era un vagone speciale per il trasporto di costoro. Io come
garzone del ristorante potevo entrare ed uscire da qual luogo perché portavo il
caffè o altro ai soldati e così le mamme e le fidanzate mi davano lettere da portare ai loro uomini. Era una
cosa pericolosa e bisognava stare attenti, ma non mi è mai successo niente.
Sono stato a Sesto fino a fine ’43, quando hanno chiuso la scuola e sono
tornato in Stazione centrale. Ho lavorato lì fino al giorno in cui hanno
fucilato i partigiani in piazzale Loreto. Era il 10 agosto del 1944. Ogni
giorno io arrivavo da casa mia con il tram proprio fino a piazzale Loreto dove
scendevo per andare in stazione a piedi e ho assistito a quei drammatici fatti.
Dopo quell’eccidio i tedeschi hanno smontato tutta l’organizzazione che c’era
in stazione e io sono rimasto a casa.
Non sono però
rimasto senza lavoro, ma ho trovato posto al Tubettificio Lombardo, vicino a
casa mia, dove sono rimasto fino ai primi mesi del ’47. Quell’anno ci furono
delle assunzioni alla Innocenti e mi sono presentato, ma quando ci sono andato
non c’era più posto perché avevano già assunto tutti quelli che servivano.
Ho fatto così
altri lavori. Sono stato occupato in una ceramica, bellissima, in via Carducci,
dove producevano e decoravano piatti, vasi e altro. Anche lì facevo il
fattorino. Andavo a ritirare e a consegnare i materiali. Andavo dalle suore
Orsoline di piazza Sant’Ambrogio che facevano decorare le ceramiche alle loro
ragazze – che appartenevano alle famiglie più in vista di Milano -, ritiravo
quelle decorate per farle cuocere e poi le riconsegnavo. Dopo questo lavoro
sono partito per il servizio militare e quando sono tornato sono andato a
lavorare in fondo a via Savona, in una bella azienda dove fabbricavano i
contatori dell’acqua.
In quell’azienda
un giorno arrivano Pietro Seveso, segretario generale della Fim di Milano, e
Mario Chiamenti, componente della segreteria. Chiamenti era di Crescenzago come
me e mi conosceva, anche perché ero impegnato in politica e avevo iniziato ad
occuparmi di sindacato. Seveso mi disse che avrei dovuto andare a lavorare alla
Innocenti perché la Cisl aveva bisogno di qualche attivista per rafforzare la
propria posizione in azienda.
Sono entrato
così alla Innocenti alla fine del ’53, assunto come manovale non specializzato.
Lavoravo su due Oerlikon, una che forava e l’altra che maschiava. Avevo un
vantaggio perché una operazione si sovrapponeva all’altra, quindi era come se
facessi due operazioni in una. In quel modo riuscivo a guadagnare il mio
cottimo in mezza giornata e l’altra mezza la spendevo a fare attività
sindacale. In quegli anni alla Innocenti dominavano i comunisti. La Cisl aveva
25 iscritti su 2.800 addetti, che con l’andar del tempo sono cresciuti a
quattromila.
Nei primi anni
’50 c’era ancora il Consiglio di gestione, ma noi eravamo esclusi perché non
avevamo neppure un membro di commissione interna. Allora ci siamo dati da fare,
io e il mio amico Buffo, che era un impiegato, e abbiamo costituito la Sas,
sezione aziendale sindacale. I compagni della Cgil non vedevano di buon occhio
questa iniziativa. “Ma che cos’è quella roba lì?” ci schernivano. Invece era
una cosa seria, perché ci ha permesso nel giro di un anno e mezzo di ribaltare
la situazione. Nel ‘54 eravamo già oltre 300 iscritti. Si andava mese per mese
da ogni tesserato a raccogliere i soldi e consegnare il bollino. Il mio
vantaggio era quello di avere tempo. Si lavorava su tre turni e facevo anche la
notte, così riuscivo a incontrare tutti.
Dopo un po’ di
anni sono passato alla manutenzione, un posto dove erano tutti comunisti. Era
l’aristocrazia operaia, ma ho saputo farmi volere bene. Mi davo da fare,
aiutavo i più anziani.
Qualche tempo
dopo sono stato spostato all’alimentazione delle linee della Lambretta. Avevo
un mezzo automatico e portavo i pezzi premontati alla linee di montaggio. In
quel momento si produceva solo la Lambretta.
Nel 1954 abbiamo
inventato una cosa che non è stata molto gradita in Cisl. Mi ricordo che Calvi
mi disse che quella iniziativa non andava bene. Ma noi volevamo battere la Cgil
e da soli non ce la facevamo, così ci siamo messi insieme alla Uil e abbiamo
dato vita alla “Concentrazione democratica” e abbiamo vinto le elezioni per la
Commissione interna.
In quel momento
ho incominciato a “tremare”, c’era un accordo per cui ogni organizzazione
sindacale aveva diritto a un membro permanente in commissione interna e siccome
io ero tra gli eletti, ho avuto quell’incarico. Potevo muovermi in tutti i
reparti e in quel periodo era importante
intervenire presso gli uffici tecnici per discutere del lavoro a cottimo
e non fare forzare eccessivamente i tempi. Era una delle attività principali,
ma c’erano molte atre questioni delle quali mi dovevo occupare.
Il
rappresentante della Uil in commissione interna si preoccupava solo della Uil,
ma quello della Fiom era bravo. Si chiamava Ronchi e mi ha dato molti spunti che io ho usato per
batterli. Era veramente esperto, essendo già al terzo mandato. L’Innocenti alla
fine della guerra aveva un obbligo non solo morale, ma anche materiale nei
confronti dei comunisti perché questi gli avevano garantito la possibilità di
riorganizzarsi dopo le ostilità. Durante il conflitto la fabbrica produceva
bombe, infatti gli stabilimenti si chiamavano G1, G2 e G3: Guerra 1, Guerra 2 e
Guerra 3. Io ero al G1 dove avevano prodotto i proiettili per i fucili. Al G2
fabbricavano quelli per le mitraglie, al G3 i pezzi più grandi per i cannoni.
In quegli anni, siccome gli uomini erano a combattere, alla Innocenti lavorano
tutte donne e alla fine della guerra si dovette affrontare la trasformazione
degli impianti per la produzione della Lambretta, cosa che il signor Innocenti
aveva in mente già da prima delle scoppio delle ostilità. Così decise di
licenziare tutte le donne, che erano più di duemila. In Italia alla fine del
conflitto c’era il blocco dei licenziamenti e l’unico che ha potuto licenziare
è stato proprio Innocenti, grazie a Giuseppe Alberganti che era il capo della
Cgil e contava non solo a Milano. Ferdinando Innocenti era amico anche del
leader del Pci, Mauro Scoccimarro, e aveva tanti altri amici comunisti. Nel
Consiglio di gestione erano tutti di loro, anche se decidevano quello che
voleva il padrone. Presidente del Consiglio di gestione era un dirigente
dell’azienda che era membro del Comitato centrale del partito comunista. Si
chiamava Mario Muneghina. Fu licenziato nel 1955.
I comunisti alla
Innocenti avevano il dominio, anche il direttore della mensa era un comunista.
Ad un certo punto Innocenti ha assunto un direttore del personale
democristiano. L’ho conosciuto grazie al nostro segretario generale nazionale
della Fim, Franco Volonté, che ha avuto un buon rapporto con lui.
Con la nostra
Sas si è creato un buon gruppo di lavoro. Una sera sì e una no andavamo in
parrocchia a San Martino di Lambrate, dove c’era don Giovanni che ci dava un
locale per fare le riunioni e così abbiamo costruito la nostra presenza in
Innocenti.
Nel 1956,
Ortolani e Seveso mi hanno chiamato e mi hanno detto che dovevo partecipare al
corso di formazione di Firenze per nuovi sindacalisti che durava un anno.
Contento di questo, sono andato in direzione a chiedere l’aspettativa, che mi
venne data senza problemi anche perché all’azienda non costava niente.
Organizzato tutto, il lunedì mattina sono arrivato in via Tadino (sede della
Cisl di Milano) per la partenza e Ortolani mi ha detto che non c’era più posto.
La mia reazione fu di sconcerto, ma lui mi disse che mi avrebbero mandato alla
sede di Rho, nell’attesa che si liberasse un posto a Firenze. Io non ho
accettato. “Volevo andare a scuola perché sono ignorante” ho detto, “visto che
non si può, torno alla Innocenti” e così ho fatto. Avevo frequentato solo le
elementari.
Fuori dalla
fabbrica avevo un caro amico che veniva all’oratorio a Crescenzago. La sua
morosa era un’insegnate all’Istituto Pitagora. Io desideravo andare a scuola e
così mi sono iscritto in quell’istituto. Ho fatto le tre medie e poi sono
passato a ragioneria. Avevo un vantaggio: alla manutenzione dove lavoravo mi
davo da fare e così i miei compagni di lavoro, compagni comunisti, dopo che
avevo fatto alcuni lavori mi dicevano di smettere e di andare a studiare, che
avrebbero continuato loro. E così mi sono diplomato ragioniere. Il mio diploma
è merito di molti, sono stato sostenuto da tutti: Buffo mi aiutava con la
matematica, Maccarini mi seguiva per il francese, sua moglie mi faceva
italiano. Anche quando ho avuto dei momenti di demoralizzazione, o ero troppo
stanco - perché pur non facendo turni, dopo una giornata di lavoro andare alla
scuola serale era faticoso -, tutti mi hanno spronato ad andare avanti. Devo
riconoscere che il mio è un diploma “collettivo”. Quando mi sono diplomato
l’azienda mi ha dato un premio di 20mila lire. Sei mesi dopo che sono diventato
ragioniere mi hanno promosso impiegato. Fino a quel giorno ho continuato a
percepire la paga di manovale.
Studiare
ragioneria è servito anche al sindacato. Un giorno, siccome avevo iniziato a
frequentare la scuola, Seveso mi ha dato un foglio di carta e mi ha detto che
quello era il bilancio della Fim e mi ha chiesto se potevo controllarlo.
Nella mia prima
uscita ufficiale come operatore sindacale mi sono occupato dell’Autobianchi.
La prima sede
dell’Autobianchi era in via Plinio. Prima di trasferirsi a Desio era occupata e
con Seveso siamo andati lì e poi in Tribunale dal giudice per chiudere la
partita.
In quel periodo,
era il 1960, si è iniziato a parlare di automobili. Il vecchio Innocenti,
signor Ferdinando, non la voleva. Era il figlio che era innamorato dell’auto.
Tanto è vero che quando è morto suo papà ha venduto la linea della Lambretta e
ha iniziato a produrre solo automobili. La prima automobile prodotta è stata la
A 40 dell’Austin inglese.
I lavoratori in
fabbrica hanno vissuto molto male il passaggio dalla Lambretta all’auto, perché
la Lambretta era entrata nel sangue di ognuno di noi. Noi dipendenti potevamo
acquistare una moto una volta al mese. Come si usciva dalla fabbrica c’erano
persone che la comperavano immediatamente con i soldi in mano. Per molti era un
affare. Io non l’ho mai fatto, ma ho sempre usato per muovermi nello
stabilimento quella che l’azienda metteva a disposizione della commissione
interna.
Con il cambio
sono stato spostato al ricevimento dei pezzi che arrivavano dall’Inghilterra.
Con me lavorava Nitto, un nipote di Innocenti.
Poco dopo mi
hanno trasferito dal settore auto al palazzo della direzione, dove c’erano
tutti gli uffici, perché avevano bisogno di un ragioniere. Oggi lì dentro c’è il
ricovero per gli anziani. E’ stata un’esperienza tremenda, addetto all’ufficio
cambiali inevase.
Nel 1966, mentre
si facevano gli scioperi per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei
metalmeccanici, c’è stata l’alluvione di Firenze e quella zona era stata
esonerata dagli scioperi. Mi manda a chiamare il direttore e mi dice che devo
andare a Firenze a organizzare il lavoro di una decina di operai della
Innocenti che erano stati mandati in Toscana a ripristinare la sede che era
stata alluvionata. Ero l’unico che faceva sciopero tra gli impiegati della
direzione e pur di mandarmi via mi hanno affidato quell’incarico. Sono stato a
Firenze quasi un mese senza fare niente. Gli operai sapevano cosa fare senza
bisogno di me, il nostro magazzino lo abbiamo liberato rapidamente perché non
era situato nella zona più colpita. Quando sono rientrato gli scioperi erano
finiti.
Sono tornato al
mio posto di lavoro, intanto gli iscritti tra gli impiegati erano aumentati.
Il mio ufficio
riceveva tutte le cambiali inevase, in particolare dalla Campania. Un bel
giorno, dopo una presa di posizione delle organizzazioni sindacali contro
l’azienda, sono stato chiamato dal caporeparto che mi ha detto che dovevo
andare a Napoli per potenziare il nostro ufficio della Campania per il gran
numero di cambiali non pagate in quella città. Siccome ero riuscito ad
organizzare un minimo di presenza sindacale anche tra gli impiegati mi hanno
trasferito a Napoli, dove sono rimasto per un mese e mezzo.
A Napoli è stata
un’esperienza decisamente particolare. Ero abituato che alle 8 e mezza entravo
in azienda e timbravo il cartellino. Così ho iniziato a fare anche nella città
partenopea, ma quando arrivavo in ufficio non c’era nessuno e trovavo solo
l’uomo delle pulizie, il signor Cennamo, che mi diceva: “Ma perché viene alle
otto e mezzo?”. “Perché questo è l’orario”. “Lei deve sapere come si usa qui.
Arrivano tutti più tardi e prima di timbrare rimettono indietro l’orologio alle
8 e 30 e poi timbrano”. Quello era il costume in uso nella sede. Quando
arrivavo questo signor Cennamo mi salutava sempre con un “Buon giorno dottore”.
“Guarda che io non sono dottore”, gli dicevo, ma lui insisteva. La nostra
filiale aveva gli uffici sopra la redazione del “Mattino”, il quotidiano di
Napoli. Una mattina trovo Cennamo per strada vicino all’ingresso e mi dice:
“Dottore venga a prendere un caffè con me”. Accetto e ci avviamo insieme al
bar. Appena entrato chiama il cameriere: “Luigi, un caffè per me e uno per il
dottore”. Al che lo guardo e lui: “Non è per lei, dottore, ma per me. Così
tutti sanno che io bevo il caffè con un dottore”.
Non sono
riuscito a recuperare i quattrini non pagati all’azienda, però quando sono
rientrato a Milano avevo ormai acquisito una competenza nel recupero credito.
Un giorno mi
manda a chiamare il direttore e mi dice che ha bisogno di un capoufficio. Non
ho risposto e gli ho chiesto di lasciarmi pensare. La sera abbiamo fatto la
riunione della Sas e ho raccontato che mi avevano proposto di fare il
capoufficio. Io non lo volevo fare, preferivo tornare in commissione interna.
In quel momento avevamo come rappresentante fisso della Fim in commissione un
bravo tecnico che ci teneva a fare il capo reparto. Così lui è rientrato in
reparto e io ho preso il suo posto in commissione. Al direttore che mi ha
chiamato per chiedermi come mai non avevo accettato il salto di carriera ho
risposto che non era obbligatorio che tutti gli impiegati dovessero essere
dalla parte della direzione. Sono rimasto impiegato di terza categoria fino
all’uscita dall’azienda. Sono stato contento di quella decisione perché è stata
una mia scelta.
Nel 1970 è nato
il consiglio di fabbrica e sono stato eletto delegato. Quando a livello
nazionale sono stati fatti gli accordi unitari, la Uil si è divisa e in fabbrica
è nata la UilMd che era contraria all’unità. Veniva quindi a mancare il
rappresentante della Uil. In Fim c’era un bravo attivista che era iscritto al
Partito socialista così gli abbiamo proposto di fare il rappresentante della
Uil. Non solo l’ha rappresentata in azienda, ma è diventato segretario generale
della Uil di Milano, Amedeo Giuliani.
Fino a quel
punto l’azienda andava bene. Gli inglesi non volevano fare solo una vettura,
hanno iniziato a produrne altre: la prima è stata la 40 poi la IM3, la 4, è
stata realizzata una spaider, chiamata Innocentina. Queste scelte erano volute
dal figlio Luigi. Luigi Innocenti, però, era malato, ogni sei mesi doveva
andare in Svizzera, aveva problemi alla testa ed è morto giovane.
Con il vecchio
Ferdinando Innocenti ho parlato tre volte come membro della commissione
interna, insieme agli altri. Aveva il suo ufficio nel palazzo della direzione e
da quella posizione vedeva tutto lo stabilimento. Una volta, era di buon umore,
ci ha chiamato in ufficio: voi siete giovani, la sera magari andata a ballare o
al cinema, io vengo qui e questo è il mio spettacolo. Ce lo diceva con una
grande passione. Era una uomo che dal niente aveva costruito una grande impresa
e ne era orgoglioso.
Quando il
settore dell'auto entra in difficoltà, nei primi anni ‘70, per fare cassa
Innocenti decide di cedere le meccaniche alla Sant'Eustachio, un’azienda Iri, e
diventerà Innocenti Sant'Eustachio, Innse.
Le meccaniche
erano un reparto di grande qualità che esportava macchine utensili in molti paesi,
anche in Russia. C’era un gioiello di Innocenti, il laminatoio a passo
pellegrino, una macchina utensile apprezzata da tutti, premiata anche per la
sua linea, per l’armonia delle forme. Ricordo che Ferdinando Innocenti, quando
il laminatoio era quasi pronto, è andato a controllarlo, c’erano dei bulloni
che sporgevano e li ha fatti modificare, aveva una linea perfetta.
Quella vendita è
stata una brutto colpo. I lavoratori dell’auto e della Lambretta erano
preoccupati. Allora anche noi abbiamo fatto i nostri passi e ci venne garantito
che i reparti rimasti sarebbero passati con l'Alfa Romeo. Per noi andava bene.
Solo che al momento del passaggio, il nipote di Innocenti, che in quel momento
guidava l’azienda e si diceva disponibile all’accordo, ha chiesto di fare il
direttore generale dell’Alfa Romeo. L’Iri ha risposto negativamente e così
l’accordo non è stato fatto. A qul punto gli inglesi sono diventati proprietari
di tutto ciò che era rimasto. Hanno invaso la Innocenti. L'occupazione si è
dimezzata, perché erano molti gli addetti al settore della meccanica, ma le
difficoltà sono cresciute fino a quando nel 1975 abbiamo occupato la fabbrica.
Gli inglesi hanno sfruttato il mercato fino a quando è stato utile, dopo di che
hanno deciso di vendere. Siccome non c'erano prospettive abbiamo occupato.
Quell'occupazione
è stata un'esperienza molto forte e gestita seriamente. E’ durata un anno e
mezzo ed è stata gestita unitariamente, essendo tutti iscritti alla Flm.
Eravamo l'unica grande fabbrica occupata e abbiamo avuto tantissimi aiuti. In
quel momento sindaco di Milano era Aldo Aniasi. L'amministrazione comunale ci
ha donato 1 miliardo di lire per pagare parte degli stipendi ai lavoratori che
erano senza soldi, quel miliardo l'ho ritirato io.
Durante
l’occupazione facevo il gestore della mensa, lo avevo imparato durante i corsi
che la Fim faceva a San Pellegrino.
Ricordo un
momento stupendo: Padre Turoldo e Camillo de Piaz sono venuti a celebrare la
messa in fabbrica e il vescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo, mi ha
tolto il saluto perché avevo invitato Turoldo che lui aveva allontanato dalla
diocesi. In occasione di una festività abbiamo invitato anche il vescovo. Lui è
venuto, ha celebrato la messa e durante lo scambio della pace sono andato a
parlargli. Dopo quella visita ha chiesto che le offerte raccolte durante le
messe di una domenica fossero destinate ai lavoratori della Innocenti. Furono
raccolti 170 milioni di lire. Siamo andati a ritirarli io e Leonardo Banfi, un
comunista della Fiom.
Nel 1976 abbiamo
fatto l'accordo con De Tomaso. Ormai gli inglesi avevano lasciato e l’azienda
rischiava la chiusura. Il nostro futuro era nelle mani del governo. Siamo
andati al ministero del Lavoro per far presente qual era la situazione
dell’Innocenti, ministro era Carlo Donat Cattin. C’erano problemi ad avere la
cassa integrazione perché l’azienda era in fallimento e Donat Cattin ha trovato
la formula per farcela ottenere, oggi parleremmo di una sorta di “cassa in
deroga”. Fortunatamente nel frattempo avevamo avuto il miliardo dal Comune di
Milano e lo avevamo distribuito ai lavoratori attraverso il direttore del
personale della Innocenti a cui avevo personalmente consegnato i soldi. Non era
una gran cifra, perché divisa tra tutti erano poco meno di 40mila lire a testa,
ma servì a molti.
Quando è
arrivata la cassa integrazione, la direzione ci ha restituito il miliardo e
quei soldi sono finiti sul mio conto personale, perché ero io che avevo gestito
tutti i passaggi, quindi li ho trasferiti sul conto unitario Fim, Fiom, Uilm
che era gestito dalla Camera del lavoro di Milano.
L’accordo con De
Tomaso è stato firmato dai tre segretari generali dei metalmeccanici Carniti,
Benvenuto e Trentin. Siamo stati più volte a Roma, abbiamo trattato e alla fine
il governo ha favorito l’ingresso della nuova proprietà. Ma de Tomaso era poco
affidabile. Fin dal primo giorno della trattava ci ha presentato il futuro
direttore generale della Innocenti, Tullio Pirondini, dicendoci di trattare con
lui, perché era impegnato e doveva lasciarci. Noi puntavamo a mantenere alcuni
benefici che avevamo in precedenza. Con Pirondini iniziamo a trattare e questo
si rimangia tutto quello che de Tomaso aveva promesso. Con noi c’era Enzo
Mattina che a nome delle tre organizzazione seguiva la vertenza e ad un certo
punto ha alzato la voce e ha detto che a quelle condizioni l’intera delegazione
sindacale se ne sarebbe andata. Dopo quella minaccia è rispuntato De Tomaso,
che non era andato via ma era rimasto lì nascosto e sentiva tutto.
La trattativa
alla fine si è conclusa positivamente e abbiamo ottenuto quasi tutto ciò che
chiedevamo. L’assunzione immediata di 2.000 persone con l’impegno assumerne
altre 500 dopo sei mesi. Questo è stato l’accordo che noi ci siamo impegnati a
far approvare dall’assemblea. Non è stata una cosa facile, perché restavano
fuori in cassa integrazione un altro migliaio di lavoratori.
Tornati a Milano
abbiamo presentato all’assemblea l’ipotesi di accordo, e solo tre hanno detto
di no. Ma dopo soli 15 giorni siamo venuti a sapere che de Tomaso aveva
proposto alla Olivetti di assumere i 500 che avrebbero dovuto rientrare in
fabbrica nel giro di sei mesi. Noi ci siamo opposti e in un incontro nel suoi
ufficio in azienda gli abbiamo detto che servivano nuove produzioni per
garantire l’occupazione. Al che lui ha risposto che nel giro di pochi giorni
avremmo avuto sul tavolo i progetti dei nuovi veicoli da produrre in Innocenti.
Progetti che non sono mai arrivati.
Siamo andati
anche a Modena a protestare sotto la sede della Maserati di cui lui era
l’amministratore delegato, mentre presidente era Romano Prodi.
In Innocenti in
quegli anni si produceva la mini e qualche residuo di IM3. Piano piano la produzione è andata
riducendosi, fino alla fine.
Alla Innocenti
abbiamo avuto un solo episodio di violenza, ma molto significativo. Durante
l’occupazione abbiamo fatto una “manifestazione silenziosa” alla stazione di
Lambrate. Lì c’erano dei gruppi di Potere operaio che si sono accodati al
nostro corteo. Finita la manifestazione siamo rientrati in fabbrica. Tutto si
era svolto tranquillamente. Ero in mensa e arriva un guardiano dicendomi che
c’erano in fabbrica una trentina di persone che urlavano e picchiavano con i
bastoni su macchinari e porte degli uffici, con atti di vandalismo.
In un attimo ci
siamo organizzati. Sono partiti due cortei di operai, uno a destra e uno a
sinistra e li abbiamo stretti tra noi e le guardie sui cancelli, abbiamo fatto
due ali e loro sono stati costretti a passare in mezzo, mentre tutti i
lavoratori li applaudivano in segno di scherno. Sono stati momenti di forte
tensione. Per gestire la vicenda ho fatto una specie di comizio ed è andato via
tutto liscio anche se uno di loro ha chiesto in modo sprezzate chi ero, ma
tutto è finito in niente.
Grazie a due
nostri delegati della Fim, che erano nel consiglio di fabbrica, i militanti di
Potere operaio si erano mischiati ai lavoratori al rientro in fabbrica e
avevano oltrepassato i cancelli senza essere notati.
Il pomeriggio ho
preso i due delegati e gli ho detto che non solo li cacciavamo dal consiglio
dei delegati, ma che erano fuori anche dal sindacato.
Durante la fase
più difficile della Innocenti non abbiamo mai avuto nessun collegamento con le
altre fabbriche produttrici di automobili, anzi quelli dell’Alfa Romeo ce l’avevano
con noi, perché noi avevamo buste paga più alte. In azienda si lavorava bene.
Innocenti ha rubato molti specialisti all’Alfa Romeo. Noi in quelle occasioni
protestavamo perché accusavamo l’azienda di pagare troppo i nuovi arrivati
mentre il nostro salario lo consideravamo basso.
Ho lavorato in
Innocenti per trent’anni, fino al 1983. Poi sono passato a tempo pieno alla
Cisl.