Testimonianza
raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto”, di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Jaca Book, Milano,
2019
Nato il 7 maggio
1932 a Brandico in provincia di Brescia, vive Milano. Arrivato in città in
cerca di lavoro è diventato presidente delle Acli provinciali milanesi. Ha
avuto un rapporto intenso con l’arcivescovo Montini e nel 1971 ha vissuto il
difficile momento della deplorazione di Paolo VI.
Sono cresciuto in una famiglia religiosa con un
padre che ha fatto delle battaglie sociali rischiose, ma che per fortuna aveva
l'appoggio del parroco. L'11 novembre, a San Martino, avevano sfrattato la sua
famiglia, lui aprì la scuola e la occupò. Era un operaio alla Om, ma viveva in
un paese contadino e mi ha trasmesso la sua sensibilità.
Alle scuole elementari scrissi un tema che
impressionò la maestra perché ce l'avevo con gli agrari e da ragazzino andavo
insieme ai contadini a fare gli scioperi al grido “la boje” voce dialettale che
indica un fenomeno di autocombustione per il caldo ed è espressione di rivolta.
A sedici anni, un po' spinto dal parroco, anche in
seguito a una crisi religiosa, sono entrato nelle Acli. Ho fatto tutto il
percorso oratorio, circolo Acli, sezione della Democrazia cristiana. A
diciannove anni il parroco mi ha nominato presidente della Giac.
La mia formazione culturale già da allora era legata
all'insegnamento di Giuseppe Lazzati perché era dirigente della Gioventù di
azione cattolica. Leggevo le sue pubblicazioni e seguivo gli scritti di Mario
Rossi.
Importante nel mio percorso è stato il ruolo di
alcuni sacerdoti. Fondamentale al paese è stato don Angelo Paracchini, un
esempio, un uomo molto aperto che è morto in miseria perché distribuiva tutto
ciò che possedeva. A Brescia c’era don Giuseppe Almici, che era l'assistente
delle Acli. Quindi, a Milano, don Ezio Orsini e infine don Sandro Mezzanotti.
Sono venuto a Milano nel 1955 a cercare lavoro. Nei
paesi prevalentemente agricoli per i ragazzi non c'erano molte prospettive e
una strada era quella di partecipare a dei corsi di formazione professionale
per riuscire ad andare a lavorare in fabbrica e i bar delle Acli avevano una
funzione di socializzazione, dove si parlava di questi problemi. Appena
arrivato a Milano ho trovato posto al pensionato Belloni e ho conosciuto molti
lavoratori meridionali, con cui sono diventato anche amico, che arrivavano per
lavorare in particolare alla Breda di Sesto San Giovanni. È stato in quel
periodo che ho incontrato Giovanni Bianchi che era diventato consigliere
comunale della Democrazia cristiana a Sesto.
Ho proseguito il mio impegno nelle Acli anche a
Milano partecipando a incontri di formazione e quindi sono diventato segretario
dell'Ufficio studi provinciale.
Nel mio ruolo di dirigente delle Acli ho avuto un
rapporto intenso con il cardinal Montini. Sui temi del lavoro credo che lui
fosse ancora sotto l’influenza di Pio XII, cioè della paura del comunismo,
anche se in una posizione dialettica. Ma era certamente molto preoccupato.
Paolo VI si è posto il problema del passaggio da una società agricola a una
industriale e della difficoltà della Chiesa a seguire la trasformazione, a
comprendere come cambiava la religiosità in quel passaggio.
Il cardinal Pellegrino, con cui ho parlato del
rapporto della Chiesa con il mondo del lavoro, diceva che Paolo VI sbagliava
l'atteggiamento perché non si va verso gli operai dicendo che “fra noi e voi
c'è il fossato”. Faceva riferimento al famoso discorso di Taranto. In un incontro
con il vicario di Montini ricordo che questi mi disse che i comunisti avevano
stretto Milano in una cinghia di fuoco, il che esprime bene qual era la
preoccupazione della curia milanese. Rispetto a questo però le Acli andavano
per la loro strada, senza scontrarsi, seguendo la linea dell’“agire silenzioso
ed essere socialmente avanzati”. Allora, quando ancora non si parlava di unità
sindacale, dicevamo che l'aclista è per l'unità morale dei lavoratori.
Le Acli non sono nate per separare i lavoratori
cattolici dagli altri, ma per costruire un momento che fosse di investimento e
di proiezione dentro la classe lavoratrice in chiave morale e unitaria per cui
l'aclista aveva la responsabilità rispetto ai lavoratori non aclisti o non
credenti di essere prima di tutto competente, leale, solidale. Questo veniva
predicato dentro l'associazione e molti sono cresciuti con questi principi per
cui scioperavano e non facevano carriera. Un atteggiamento dirompente dentro il
mondo cattolico dove l'indicazione era quella di evitare i soggetti focosi, i
momenti di tensione e gli scioperi. Stare alla larga da quelle cose e non
invece dire che bisognava esserci e impegnarsi. Questa è la forza della
proposta aclista, storicamente è stato così.
Il mondo comunista, la Cgil in particolare, non ha
mai visto la presenza aclista come un elemento di rottura ma anzi la stimava
perché non poteva criticarne il comportamento. “La pensano in modo diverso da
noi ma non sono un nostro nemico”. Un atteggiamento diffuso.
Il cardinal Giovanni Colombo, contrariamente a
quanto si usa dire, non è mai stato contro le Acli di Milano e anche dopo la
deplorazione di Paolo VI volle mantenere un rapporto con il movimento. La curia
di Milano non ha mai fatto mancare i sacerdoti ai corsi. La vicenda che si è
sviluppata intorno alla candidatura del presidente regionale Mario Albani come
indipendente di sinistra nelle liste del Partito comunista alle elezioni del
1968 è stata un episodio tutto politico orchestrato dalla Democrazia cristiana
e per nulla legata alle scelte del movimento.
Il cardinal Colombo, in occasione dell'udienza
papale con la sua diocesi, mi portò da Paolo VI insieme a monsignor Giovanni
Balconi, che egli aveva indicato come nostro referente, dicendomi che dovevo
parlare con il Papa a proposito delle scelte delle Acli. Io dissi che se il
problema era l'ipotesi socialista le Acli di Milano potevano rivedere la
posizione perché noi eravamo critici su quella indicazione. Il Papa però, alla presenza
del cardinale che poi mi ricordò di come quel colloquio fosse stato difficile,
mi disse che aveva deplorato il comportamento delle Acli ma con dolore, con
profondo dolore. Il problema non era l'ipotesi socialista, “il problema è la
confusione, la confusione, la confusione”.
La pastorale del lavoro, creata anche per una certa
gelosia nei confronti delle Acli, cui non volevano delegare tutte le questioni
riguardanti il mondo del lavoro, non è mai stata capace di sostituire l'opera
della rete degli assistenti delle Acli. Questo per una ragione pratica perché
le Acli riunivano i lavoratori mentre non tutti i parroci avevano questa
priorità. Quando facevo formazione si organizzavano anche mille incontri
all'anno, una capillarità che la pastorale del lavoro non ha mai avuto.
C’è stato un momento in cui erano di moda i preti
operai e alcuni li ho anche seguiti, come ad esempio don Luisito Bianchi. La
mia valutazione è che hanno rischiato di essere un po' unilaterali nei
confronti della Chiesa. Sono state delle testimonianze, ma niente di più.
L'esigenza era quella di sposare la condizione, così come è stata l'esperienza
di Bruno Manghi, sociologo che è andato in fabbrica a fare l'operaio.
La Chiesa sui temi del lavoro in questi ultimi anni,
nel momento in cui siamo passati da un'economia di tipo industriale a una di
tipo terziaria globalizzata, a parer mio è andata indietro. All'interno della
Chiesa però ci sono delle élite che camminano e che colgono i nessi tra i
cambiamenti in atto e la condizione delle persone. Mi riferisco ad alcune associazioni,
facoltà universitarie, riviste.
Oggi il tema del lavoro va interpretato tenendo
presente il legame con l'innovazione tecnologica, la globalizzazione. E’ legato
anche, come sottolinea la Caritas in
veritate di Benedetto XVI, al rapporto tra occupazione, disoccupazione e
povertà. La relazione tra questi fattori rappresenta una frontiera nuova. Papa
Francesco ha saputo offrire delle risposte, ad esempio con la Laudato si’, e si cerca di trasferire
queste riflessioni a livello decentrato, ma nelle parrocchie si fatica ad
accoglierle.