Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

All’ingresso, allora era obbligatorio un
corso di formazione, ma la direzione pensava che non c’era formazione migliore
del lavoro, e quindi sono da subito entrato nel reparto. Inquadrato come
operaio, almeno pensavo. Al fallimento della ditta ho scoperto che sono stato
inquadrato solo due anni dopo. In fabbrica ho resistito un po’: le
sirene del sindacato spesso chiamavano, ma il lavoro mi piaceva, e ai tempi,
comunque i collegamenti con Bergamo li avrei dovuti coprire in bicicletta…questo
mi ha consentito di resistere un po’.
Però, il sindacato l’ho incontrato
subito. La mia, infatti, era una fabbrica sindacalizzata: le 50 persone che
arrivano da Lecco per far partire l’azienda sono praticamente tutte iscritte
alla Cgil; tra i duecento giovani locali assunti, invece, ha iniziato a fare
breccia il lavoro di convincimento di un prete che cercava di portare iscritti
alla Cisl. Non che l’ambiente favorisse la sindacalizzazione.
Si lavorava 10 ore al giorno. Gli
apprendisti 9 per 6 giorni, con formazione sul campo. E a me, spirito ribelle
tipico dei sedicenni, qualche vecchio saggio, mi raccomandavano di stare
attento, perché la dignità la dovevi appendere all’esterno della fabbrica.
Con altri giovani colleghi, avevamo
creato un gruppetto che frequentava le Acli e la parrocchia. Mio papà aveva una
forte sensibilità politica e sindacale. Io sono cresciuto in questo ambiente.
Poi, quando ci contattarono i delegati della Fiom per il tesseramento, ho
chiesto a mio padre come dovevo comportarmi, e lui mi disse di iscrivermi alla
Fim. Ma non c’era nessuno della Cisl. Fummo contattati allora dal curato di
Ambivere. Facevamo un incontro settimanale, un’oretta la sera. Lui veniva in
fabbrica mensilmente mentre mangiavamo, iniziandoci ai “saperi” sindacali. Una
sera decisi di recarmi a Bergamo in bicicletta: vado al sindacato e incontro
Fatutti, una personalità, allora. Mi ascolta e mi da alcune indicazioni,
avvisandomi che la Fiom si stava organizzando per fare la commissione interna.
Decidiamo di presentare anche noi la lista. Io allora non avevo ancora 18 anni,
quindi non potevo presentarmi. Ero già un po’ più alto dei miei coetanei, così,
il prete che puntava su di me ha “truccato” le carte per farmi presentare.
Nessuno ci ha fatto caso, anche perché dovevo essere solo un riempitivo.
Finisce 5 a 1 e io sono stato l’unico eletto della Fim.
Faccio il delegato Fim al mio primo
congresso, poi mi dimetto perché devo andare militare.
Al ritorno, si vota per la seconda commissione: la Fim pareggia con
la Fiom. Inizio a assumere una certa notorietà e a frequentare i direttivi
della Fim a Bergamo.
Nel 66 non si riesce a fare il contratto
nazionale dei metalmeccanici. Siamo in una congiuntura sfavorevole, e per il
sindacato è un periodo duro che anticipa l’esplosione del ‘68 – ‘69, sull’onda
dei movimenti che sono partiti all’estero.
Il contratto del ‘69 è stato storico, e
anche in fabbrica c’era una grande tensione. Arriviamo al rinnovo della commissione
interna e si capovolgono i rapporti: 5 a 1 per la Fim.
Quella per il contratto del ‘69 è stata
una piattaforma molto avanzata, che ci ha permesso di “portarlo a casa” nel
1971, dopo trattative turbolenti, ma senza scioperi. È un accordo sindacale che
mi rende celebre (ne parlano i giornali nazionali, c’è una mia intervista su
Panorama): si tratta infatti del primo inquadramento unico tra operai e
impiegati, che prevedeva anche il passaggio diretto di carriera da operai a
impiegati. Le categorie vengono divise su 8 livelli. I primi 5 sono per gli
operai, ma dal 3° riguardano anche le figure impiegatizie: in queste categorie
vengono previsti gli stessi trattamenti per operi e impiegati.
Le ferie diventavano uguali, la
liquidazione che prima gli operai non maturavano nei primi anni adesso viene
equiparata. E il primo stabilimento a adottare questo contratto in Italia è la
De Bartolomeis.
Tutto questo è potuto accadere perché
nel frattempo era cambiato il clima in fabbrica: c’era stato un forte sviluppo,
erano arrivati lavori importanti. Dall’altra parte del tavolo, poi, c’era un
direttore generale con una mentalità molto aperta, alla Olivetti, per
intendersi. Voleva la fabbrica di vetro, trasparente; si batteva per migliorare
le condizioni di lavoro, oltre che la produttività.
Con lui riusciamo anche a ottenere una
sede sindacale dove riunirsi periodicamente.
Chiudo il contratto e esco per andare al
sindacato. È il luglio del 1971.
La mia prima esperienza me la gioco al
sindacato unitario metalmeccanico (il Sum, una creatura praticamente solo bergamasca,
anticipatrice della Flm che arriverà dopo). Inizio a seguire la Val Brembana,
prima di meritarmi le grandi fabbriche.
Con il congresso del 1973, quando
Carniti lancia la “Fimmizzazione”
della Cisl, io entro nella segreteria dell’Ust. Dieci anni dopo vengo eletto
segretario generale, carica che ricopro fino al 1987, quando lascio per essere
eletto alla Camera dei Deputati.
Tutte le vicende che avvengono alla fine
degli anni 60 provocano scossoni all’interno del sindacato: la segreteria Fim
vive scontri duri con la Ust (ai tempi retta da Colleoni, un gigante del
sindacato) sulla verticalizzazione, a cui la Fim spinge: si comincia a parlare
di autonomia organizzativa, finanziaria e politica. La Fim comincia a
distinguersi, anche sulla spinta unitaria che iniziava a farsi largo.
Allora su 75.000 iscritti a livello
provinciale, 60.000 erano attivi. Dal punto di vista sindacale e politico era
tutta un’altra cosa.
Dopo lo Statuto dei lavoratori ci troviamo
alle prese con una fase non proprio tranquilla, anche il sindacato ha qualche
preoccupazione. L’articolo 18 già allora dava da pensare.
C’era già un accordo interconfederale
sui licenziamenti che aveva funzionato abbastanza bene. Intervenendo lo Stato,
temevamo che si potesse andare anche verso una riorganizzazione del sindacato.
Comunque, nello Statuto c’è un salto
qualitativo molto alto, una grande conquista.
Avevo vissuto con entusiasmo il 1969:
noi, dalla nostra piccola fabbrica, andavamo a fermare stabilimenti molto più
grossi: la Legler, la Philco…c’erano i carabinieri che mi seguivano per sapere
cosa avevo in mente, ma riuscivo sempre a sorprenderli.
In quel periodo frequentavo “circoli di
pensatori” a Milano. Sono entrato in contatto anche con Marcora e Granelli…personaggi
fascinosi, partigiani anche nel fare politica.
All’esterno con la contrattazione
articolata, Carniti spinge forte.
Carniti e Macario si alternano alla
segreteria Fim e alla Confederazione.
A Bergamo, la situazione è movimentata.
Io, dopo il primo “collaudo”, seguo la bassa bergamasca. Mi mandano a Cividate
alla Mimetal…C’era in ballo una vertenza. Una fabbrica quasi tutta di donne…
una fabbrica molto dura, che abbruttisce. Credo che nella foga dell’assemblea
ho alzato un po’ troppo il tiro, ma i lavoratori mi seguono e ne è uscita
l’occupazione della fabbrica (300 dipendenti): era la metà di luglio.
Blocchiamo l’attività, le merci, tutto. E la partecipazione è totale…
Si susseguono manifestazioni e assemblee.
Il motivo principale erano i soldi, il premio di produzione, i trattamenti, ma
noi nelle richieste cercavamo di introdurre anche alcune innovazioni
“ambientali” e sindacali. La prima risposta dell’azienda è stata una
rappresaglia: annuncia 15 licenziamenti. Probabilmente questa volontà era
presente anche prima: ridurre personale ma mantenere gli stessi ritmi…
Ma i lavoratori non si disunirono. Tutto
lo stabilimento, anche dove non si prevedevano licenziamenti, si fermò compatto:
i giorni di blocco, alla fine, furono 25, e al termine si portano a casa il
ritiro dei licenziamenti, gli aumenti di stipendio e di altri trattamenti,
oltre che una sede e maggiori ore a disposizione del consiglio di fabbrica,
innovazioni dell’ambiente di lavoro e migliori condizioni.
In quegli anni è stata costruita la
Donora: in fabbrica avevamo già firmato alcuni accordi per i trasferimenti
dalla Brianza, ma l’azienda tendeva a non rispettarli.
Con la Mimetal occupata (a pochi
chilometri di distanza), apriamo una vertenza anche alla Donora. Chiedevamo
agevolazioni per gli operai che venivano da lontano. I soldi erano la cosa che
più attirava, ma noi mettevamo dentro anche molte cose “politiche”.
Nell’inaugurazione della fabbrica, invitiamo i dipendenti a non partecipare.
Alla mattina presto siamo sui cancelli. All’inaugurazione ci sarà il
sottosegretario al Lavoro: distribuiamo volantini e chiediamo un incontro con
il sottosegretario. Ma noi ci siamo trovati subito soli, perché l’azienda, a pochi
metri di distanza, aveva organizzato un buffet: con la fame che c’era allora…
Passata l’inaugurazione, comunque,
riusciamo a strappare l’accordo con la direzione che ci ha fatto uscire
dall’assemblea dei lavoratori sotto gli applausi…
Quell’accordo ci ha consentito di organizzare
una buona presenza Fim.
In quel periodo un sacco di fabbriche
erano occupate. Ogni “scusa” era buona per aprire una vertenza che potesse
portare a accordi migliorativi, oltre che dei salari, delle condizioni di
lavoro e del riconoscimento della rappresentanza sindacale all’interno degli
stabilimenti. Erano gli stessi lavoratori a spingerci per organizzare scioperi,
assemblee, occupazioni, e la partecipazione era massiccia, in molti casi
totale. Si respirava un’aria di cambiamento e sembrava che tutto fosse
possibile. Eravamo forse non del tutto consapevoli della forza che avevamo.
Mi ricordo, ad esempio, lo sciopero
provinciale generale fatto per la Fervet, una grossa fabbrica di Bergamo. A
messa una domenica nel bel mezzo della vertenza, mi sono trovato a fianco il
direttore dello stabilimento. Ho avuto una sensazione strana, e due giorni dopo
in assemblea ho tirato fuori un’affermazione che oggi faccio fatica a riconoscermi:
“ma Gesù Cristo da che parte sta? Io so che è dalla nostra!”. C’è stata
un’ovazione.
Dal punto di vista politico, noi in
quegli anni siamo impegnati nella costruzione del sindacato unitario. Tutti ci
crediamo, ci crediamo talmente da impegnarci nell’allestimento della sede
unitaria dei metalmeccanici prima che altrove. Facciamo partire anche le
operazioni di scioglimento: al Congresso di Dalmine sciogliamo la Cisl a larga
maggioranza. Nonostante fossimo apertamente schierati con Storti e Macario,
portiamo a Bergamo anche Scalia per un consiglio generale: il tema era l’unità.
Tre mesi dopo lo troviamo dall’altra parte.
Facciamo partire anche il congresso
nazionale per lo scioglimento…voto palese per appello nominale.
Politicamente il ‘69 dà una spinta forte
che cambia molto la concezione del sindacato. Le tre confederazioni diventano
interdipendenti. Negli anni 50 il dialogo era nullo. Dal lato della Fim, ho
creduto davvero all’unità. Alla fine degli anni 60 parlo solo di unità e spingo
in quella direzione.
Chiediamo la verticalizzazione,
l’incompatibilità, ma l’obiettivo era l’unità.
La connotazione politica era forte e
evidente in ogni sindacato. Quando arrivavano le campagne elettorali, la sala
riunioni veniva trasformata in sede elettorale dei nostri candidati. I nostri
iscritti andavano a votare come un esercito.
Ma durante la campagna per l’unità, noi
ci siamo spogliati della giacca, i comunisti no. In quegli anni ci sono altre
spinte: alla sinistra del Pci nasce una costellazione politica. Arriva il
terrorismo…Dagli extraparlamentari, il sindacalista veniva visto come un
nemico. In quegli anni mi sentivo libero per l’unità…per il sindacato. Sono gli
anni che dedichiamo alle riforme. Lottiamo per il sindacato soggetto politico
autonomo.
Questo lo trasmettevamo nelle fabbriche:
i delegati che crescevano, crescevano in questo orizzonte.
L’unificazione non è successa perché i
partiti si sono messi di traverso. Il partito comunista ha giocato un ruolo
forte. La Cgil l’aveva pensata in modo diversa da noi: la militanza politica
era considerata un valore, ma non doveva essere trasferita nel sindacato. La
nostra delusione è stata fortissima, tanto quanto era stata la nostra
convinzione di potercela fare. A Bergamo, tra l’altro, non eravamo soli: un
embrione di sindacato unitario l’avevamo fatto nascere con la Federazione “Cisl
Cgil Uil”. Anni prima era nato il Sum con sede unitaria, bilancio unico, e a
Bergamo, finché ci sono io, non si rompe la federazione, ma l’atto di
scioglimento lo ha compiuto solo la Cisl. Poi, dal ‘73 al ‘76, cominciano i
problemi anche alla Flm, che gradualmente si sfilaccia. Le tre categorie
lasciano la sede unitaria…è la fine di un’idea che aveva saputo appassionare.
Nella discussione in Cisl, avevamo la
sensazione di essere avanti, più avanti degli altri. Eravamo forse un po’
presuntuosi, ma i buoni sindacalisti, da noi e in quegli anni, non mancavano di
certo. Eravamo un bel gruppo di giovani manovali.
Gli anziani del gruppo dirigente della Cisl
ci avevano insegnato a vivere e testimoniare il nostro essere sindacalista,
impegnandoci nel volontariato, nella politica. Negli anni 70 c’era fermento, e
il sindacalista era chiamato in ogni occasione, era considerato…
L’ipotesi di scissione nel 1973 non è
mai stata reale. Lo scontro era aspro, duro, ma l’idea che ci potessimo
dividere è stata vissuta più all’esterno. Noi abbiamo invece assistito a un
confronto tra due giganti. Io ho persino sospeso il viaggio di nozze per
partecipare al congresso.
Il 16 giugno mi sposo, il 19 inizia il
congresso confederale. Parte un mini viaggio di nozze che ci porta a Venezia, a
Firenze e poi, naturalmente, a Roma.
Qui c’erano anche le mogli degli altri
segretari. Per due giorni, la mia novella sposa ha fatto shopping, poi ha
preferito seguire il congresso con me.
Arriva l’ultimo giorno, tutti i giornali
ci davano per divisi…Scalia contro Storti. A mezzogiorno iniziano le
conclusioni. Parla Marini, poi Macario (un’ora ciascuno), poi Scalia, poi Storti.
Da mezzogiorno alle 4 la sala è gremita, non si muove nessuno: si susseguono
applausi e fischi, consensi e plateali dissensi, in un clima da sfida finale.
Mia moglie è seduta in parte a me. La
tensione sale fino al discorso di Storti, non mi accorgo più di quello che mi
stava accadendo intorno, tanta era la foga e la passione per quello che stavo
vivendo, quando, voltandomi, ho visto mia moglie in piedi sulla sedia a applaudire
e invocare Storti. Anche questo era il sindacato negli anni 70.
Finite le conclusioni, la linea di
Macario e Storti passa con un buon
scarto. Un po’ di tensione con l’altra parte si vede, ma sei mesi dopo,
questa frattura era già ricomposta.
Anche nel ‘77 ci furono due tesi: e Bergamo
era tutta schierata sulla tesi 1. Anche questa, alla fine, vincente. Anche in
questo caso ci furono forti tensioni politiche, qualcuno tentò degli sgambetti,
ma alla fine tutto rientrò nella normalità…C’era un senso di appartenenza
all’organizzazione quasi sacro.
Fino alla fine degli anni 60 il mestiere
del sindacalista era molto pionieristico, quasi tutto si poggiava sul
volontariato. Ci si vedeva la domenica, la sera dopo il lavoro, non c’erano
permessi sindacali.
Dopo i direttivi, si andava alla mensa
della Magrini, poi all’Atalanta (e ognuno pagava il suo).
In quel sindacato degli esordi, gli
stipendi sono quello che sono, non sempre ti pagano, non sempre versano i
contributi…
Tutto cambia dal ‘70 in avanti. Nel 1971,
inaspettatamente, ci ritroviamo sul conto della Fim di Bergamo 16 milioni…le
aziende cominciavano a versare le quote, e noi decidiamo di assumere tre
persone. Gli stipendi rimangono ancorati a quelli della fabbrica. Allora, anche
il segretario di categoria lavorava in fabbrica, era, come si diceva, “in
produzione”.
Ma il dato non era quello più
importante: la tensione ideale è sempre stata forte. Negli anni 80 c’è la rottura,
il referendum sulla scala mobile…nascono tensioni anche interne.
L’iscritto segue ancora compatto, ma da
qui nasce tutto quello che porta alla “decadenza sociale” del sindacato…
Io ho fatto il sindacato e è stato il
periodo più bello della mia vita, e quando vado in Parlamento, lo faccio
controvoglia, perché volevo seguire la carriera sindacale.
Quando sono arrivato al sindacato
sostenevo che si dovesse fare la turnazione, non fare il sindacalista a vita.
Poi ho cambiato idea, perché l’esperienza che si fa in questo ambiente non ha
paragoni con nessun altro lavoro.
Il sindacato è nel cuore…ma quando in
giro si cita il sindacato, lo si fa più per le cose negative…
Io, se sento parlare male della Cisl,
ancora oggi mi arrabbio.
Credo che la cooptazione dei dirigenti sia
stata la scelta peggiore che potessimo compiere.
C’è una burocratizzazione del sindacato.
Neanche l’impiegato allora era cooptato, doveva essere preparato. Tu devi
aiutare a far crescere, non scegliere l’operatore o il delegato. Noi non
avevamo alcun incentivo, arrivavamo per passione…
Soprattutto c’era la convinzione che il
lavoratore venisse prima di noi.
Il sindacalista, prima doveva formarsi
con un grande e lungo impegno nella fabbrica e nella comunità.
Oggi sento dalla gente di fabbrica
posizioni sospettose sul sindacato, considerato casta al pari dei politici. Ai
miei tempi non lo eravamo.
Non veniva meno il rispetto: il mio
primo segretario mi ha ripreso perché sono entrato in sindacato con i jeans…ero
un ragazzo col ciuffo e Colleoni mi disse anche di tagliare i capelli, perché
l’aspetto per il sindacalista era importante.