lunedì 15 giugno 2020

GIOVANNI GARUTI - Acli - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto”, di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Jaca Book, Milano, 2019

Nato il 25 novembre 1936 a Milano, dove ancora abita. Una vita da aclista, ha ricoperto importanti incarichi nelle Acli provinciali ed è tuttora presidente del suo circolo.
La mia era una famiglia artigiana di fabbri ferrai. Mio padre è morto in guerra. La nonna era molto religiosa, andava in chiesa tutti i giorni e io ho vissuto tanto con lei e ho preso da lei. Ho frequentato l'avviamento al lavoro e poi un corso per disegnatori, quindi l’istituto per perito industriale e poi mi sono iscritto all'Università cattolica a Economia e commercio che però non ho concluso. Tutto di sera, tranne i tre anni dell'avviamento.
Appena messo piede nel mondo del lavoro, ho capito che c'erano dei diritti che andavano rispettati e quando sono entrato in fabbrica, dopo un periodo di lavoro da un mio zio, ho preso contatto con i rappresentanti sindacali aziendali. Non c'era la Cisl e insieme a un altro ragazzo siamo stati noi i primi tesserati. Poi ho sindacalizzato gli impiegati, abbiamo costituito un piccolo nucleo di iscritti alla Cisl e sono entrato in commissione interna. Ero apprezzato anche dagli operai perché mi interessavo dei problemi e parlavo con loro. Quando ad un certo punto sono stato costretto a dimettermi la fabbrica si è fermata per solidarietà.
Avevo chiesto che il venerdì santo si interrompessero le attività per qualche minuto, cosa che l'azienda mi aveva concesso. In vista di quella fermata distribuivo ai lavoratori delle immaginette e in quell'occasione alcuni reagivano bestemmiando. Nessuno mi spingeva a fare queste cose, le sentivo io perché in me era nata l'esigenza di un collegamento tra l'andare in chiesa e il lavoro. Contemporaneamente, grazie anche alla scuola serale, cresceva in me il bisogno di riflettere sulla mia condizione. Perché devo andare a scuola di sera? Perché si lavora in certe condizioni?
Ho sempre letto molto e questo mi aiutava, però, come diceva Lazzati, l'humus è il lavoro, lavorando capisci quello che non va e io mi ero reso conto strada facendo che gli operai lavoravano in condizioni disagiate, che addirittura non c'erano i bagni per loro.
Ho sempre frequentato la parrocchia di San Protaso, partecipavo alle iniziative dell'Azione cattolica e ho fatto per qualche anno il catechismo ai ragazzini. Erano ancora gli anni di Pio XII e alcuni amici delle Acli mi coinvolsero in una discussione sulla realtà dell’associazione, sulla sua presenza nella società e ho compreso che il circolo della nostra parrocchia si stava spegnendo. Io consideravo l’azione delle Acli importante ma non sufficiente perché per me il luogo delle battaglie per il cambiamento del lavoro era il sindacato e la fabbrica. Però per sostenere il circolo nel 1955 ho deciso di iscrivermi, quasi subito sono diventato presidente e da allora lo sono stato praticamente a vita. Ho lasciato nel 1969 quando sono andato alle Acli provinciali e sono tornato quindici anni dopo.
Nel periodo in cui non c'ero il circolo è stato cacciato dalla parrocchia a causa delle posizioni che aveva assunto, allora abbiamo cercato una sede e l'abbiamo trovata in uno scantinato delle case popolari. Per ventisette anni abbiamo avuto il problema che lì non si fidavano tanto di noi perché eravamo quelli della Chiesa e la parrocchia non si fidava di noi perché eravamo sicuramente dei comunisti, ma nonostante questo abbiamo fatto tantissime iniziative.
Facevo le pratiche di patronato. Mi documentavo molto, seguivo i materiali prodotti dalle Acli e dal sindacato e cercavo di essere sempre informato. Leggevo i libri della Locusta di don Mazzolari, l'umanesimo integrale dei francesi ma anche molto altro. Spesso letture all'apparenza disordinate ma agganciate tra di loro, dal Manifesto del Partito comunista alla Rerum novarum. Conosco a memoria le encicliche sociali e andavo in altri circoli a fare degli incontri sulla dottrina sociale.
Al congresso delle Acli del 1966 ero delegato. In quel momento le Acli erano veramente movimento operaio cristiano perché erano riuscite a combinare i due aspetti: se uno va a lavorare, è sfruttato e i suoi diritti sono negati, la Chiesa afferma che questo è inaccettabile e quindi ti devi dare da fare perché la situazione cambi. In questo senso il legame tra Chiesa e mondo del lavoro nasce naturalmente. Mentre studi l'insegnamento della Chiesa, vivi l'esperienza dell'oratorio, delle Acli e della fabbrica senza nessuna dissociazione. A volte in oratorio mi accoglievano dicendo “ecco che è arrivato l’operaio” perché portavo all'attenzione delle persone il problema del lavoro. Io ho sempre visto la spiritualità delle Acli più di tipo parrocchiale.
Nel primo discorso di Pio XII alle Acli, in parte ispirato da Montini, il papa afferma che le Acli sono cellule dell'apostolato cristiano nel mondo del lavoro, e da lì nasce un'idea delle Acli come associazione tuttofare dove le diverse idee sono tutte legittime, dove messaggio evangelico e dottrina sociale della Chiesa non sono in contraddizione. Ebbene, io non ho mai vissuto una contraddizione della gerarchia tra il dover essere nella Chiesa in relazione alla sua missione nel il mondo del lavoro. Direi quasi che il limite della Cgil e del Partito comunista era proprio quello di avere scartato a priori il messaggio evangelico, una autoesclusione che però non c'era nella fabbrica. Ho condiviso questa esperienza della Chiesa non contrapposta agli interessi degli operai, semmai il problema non era la gerarchia ma le comunità parrocchiali cittadine fatte in gran parte da persone non operaie che non avevano una sensibilità sul problema del lavoro e lì ho avuto delle difficoltà. Si faceva confusione tra occuparsi dei problemi del lavoro e il comunismo, noi eravamo comunistelli di sacrestia o cattocomunisti solamente perché si riteneva che certe rivendicazioni, la voglia di cambiare, fossero in contraddizione con il messaggio evangelico. In realtà  è proprio il messaggio evangelico che ti dà la spinta a cambiare. Figure come padre Turoldo, don Tonino Bello, monsignor Oscar Romero fino al cardinal Martini sono espressione di un rapporto positivo della Chiesa con il mondo del lavoro. Ma c'è sempre stata la paura del rosso e si continua in questa separazione. Nei confronti di tutti i documenti di pastorale sociale della Chiesa c'è sempre stata l'accusa di filo marxismo.
Una volta in Duomo, in occasione della veglia di preghiera della sera prima del 1° maggio con il cardinal Martini ho detto che forse bisognava chiudere le porte del Duomo e fare uscire i presenti alla veglia solo la mattina successiva per partecipare alla manifestazione sindacale.
Il lavoro è preghiera, la manifestazione è preghiera. Immaginare che si stia ad ascoltare la voce dei lavoratori in chiesa ma non si possa tutti insieme manifestare per i propri diritti è una visione sbagliata. Io non immagino Dio chiuso nelle chiese.
Nel 1967 Pietro Praderi mi ha proposto di fare il vice presidente del patronato provinciale e ho accettato. Dopo due anni in cui ero fuori tutte le sere per partecipare a incontri sulla riforma delle pensioni che si stava preparando, al congresso del 1969 ho ricevuto molti voti. Praderi è diventato presidente e io sono stato eletto nella presidenza con l'incarico di amministratore. Le Acli allora avevano 650 dipendenti. Ho chiesto sei mesi di aspettativa e a fine anno ho abbandonato definitivamente la fabbrica.
Dopo aver lasciato gli incarichi nella presidenza provinciale nel 1982 ho continuato a lavorare come segretario dell'associazione artigiana degli orafi fino a quando sono andato in pensione. Però non sono mai uscito dalle Acli, perché se mi trovo in un luogo nel quale sono libero di continuare a sviluppare le mie idee non vedo perché lo debba lasciare. Non ho mai sentito un distacco. Le Acli mi sono entrate nel sangue come una tossina positiva e sono tornato nel mio vecchio circolo.