Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Sono nato nel
1943 a Roncadelle, dove vivo ancora oggi. Sono sposato con due figlie e tre
nipotini, che sono il mio impegno attuale. Da 11 anni sono in pensione. Sono
uno dei fortunati pensionati giovani. Ho cominciato a lavorare nel 1956, a 13
anni, e a 14 sono stato assicurato, così dopo 35 anni e pochi mesi sono andato
in pensione, non ancora cinquantenne. Il primo lavoro significativo è stato in
una fabbrica di rimorchi, la Rimorchi Orlandi, dove ho fatto la tessera del
sindacato.
Ci lavoravano
120 persone, c'era la commissione interna, con un commissario Fim e uno Fiom, e
dopo un po' che ero lì sono stato avvicinato da uno di costoro che mi ha
chiesto di iscrivermi. Ero già vicino ai valori della Cisl, perché militavo
nelle Acli. Poi sono andato in Marina per due anni. Quando sono tornato
l'azienda era in difficoltà. In verità era una politica aziendale assumere un
bel numero di apprendisti e dopo un po' di anni lasciarne a casa una parte che
ormai erano diventati operai e costavano di più.
Durante quel
periodo di crisi, la direzione ha mandato a chiamare il commissario della Fim,
che aveva dieci figli, e gli ha detto che se si continuava a fare gli scioperi
avrebbe avuto dei problemi. E' stato in quell'occasione che mi è nata la voglia
di fare sindacato. Eravamo un gruppo di giovani e il mio primo impegno fu
quello di distribuire dei volantini agli scioperanti, ma alla fine della
vicenda mi sono trovato tra i licenziati. Il pretesto fu un fatto che oggi fa
sorridere. Una mattina, dopo avere distribuito dei volantini davanti al
cancello, me ne erano rimasti alcuni che ho portato con me sul posto di lavoro
per utilizzare come carta igienica, perché nei bagni della fabbrica non ce
n'era. Il capo reparto mi ha visto con quei volantini e me li ha ritirati. Io
ho preteso che me li restituisse, cosa che lui ha fatto, ma poi ho trovato il
mio nome nell'elenco dei licenziati. Era il 1970 circa.
Alla Orlandi ho
imparato a lavorare. Sono entrato come apprendista, poi ho fatto tutta la
trafila e ho avuto la qualifica come saldatore. Si riparavano camion oppure si
facevano delle modifiche agli automezzi della Om. La mia vita di lavoro l'ho
sempre passata in mezzo ai camion. Allora se avevi un mestiere il lavoro si
trovava. Anche se quello era un periodo critico non sono mai stato disoccupato.
Dopo il licenziamento ho fatto un po' di mesi in diverse officine di
riparazione di camion. Poi sono entrato in una piccola azienda sempre di
autoriparazioni. Ci lavorava anche il titolare e il sindacato non c'era.
Eravamo una cinquantina di persone, ma l’officina è presto fallita. Allora ci
siamo organizzati per gestire la situazione. Mi sono impegnato in prima persona
e il fatto di avere qualche esperienza e di conoscere qualcuno nel sindacato ci
ha aiutati. Ho chiamato la Fim che ci ha seguiti nel periodo del fallimento.
Nel febbraio
1973 sono entrato alla Om e nell'ottobre dello stesso anno sono stato eletto
delegato. E' stato un percorso veloce, perché conoscevo già il sindacato e
c'erano dei delegati che mi conoscevano. Appena assunto, ho fatto per alcuni
mesi diversi lavori, poi sono stato inserito nella linea di montaggio. Era un
lavoro che non mi piaceva. Ed è stata forse anche quella una molla che mi ha
spinto ad impegnarmi direttamente, perché sulla linea soffrivo quel lavoro
sempre obbligato e ripetitivo cui non ero abituato. Il lavoro in catena o
l'accetti e ti adatti, oppure lo rifiuti. La mia esperienza di lavoro mi
portava spesso a dialogare e confrontarmi con i capi sull'organizzazione del
lavoro che molte volte consideravo sbagliata. Per questo mi hanno eletto
delegato.
C'era l'unità
sindacale, ma c'era il gruppo Fim che si caratterizzava, faceva le sue
riunioni. Il consiglio di fabbrica quell'anno era composto da 120 persone. Dopo
un anno sono entrato nell'esecutivo del cdf, di cui facevano parte 7 o 9
delegati, perché mi piaceva, perché davo disponibilità anche se ero già
sposato. Dopo un altro anno e qualche mese sono andato per la prima volta al
coordinamento Fiat e sono entrato in un mondo enorme. Era il 1975.
Nel frattempo,
con le 150 ore, che sono state conquistate con il contratto del '73, ho fatto
la terza media. Io avevo fatto fino alla seconda quand'ero ragazzino e poi sono
andato a lavorare. Le lezioni sono partite ad aprile del '74 e sono terminate a
settembre. Sono state le prime organizzate dal sindacato e gestite da noi.
Negli anni successivi le ho seguite come consiglio di fabbrica. Noi mandavamo
un centinaio di persone per volta a scuola e qualcuno doveva seguire queste
persone, ed è toccato a me. Le 150 ore sono state una grande intuizione e una
grande esperienza per tanti lavoratori, che prendevano in mano i libri dopo
tanto tempo. Il primo anno si fece solo politica, ma in quelli successivi si
iniziò a studiare di più.
Durante il
periodo della scuola c'è stato l'attentato di Piazza della Loggia. Siamo stati
tutti impegnatissimi e influenzati moltissimo da questa vicenda e onestamente
di scuola ne abbiamo fatta poca.
Il giorno
dell’attentato io ero in piazza. E' un'esperienza che ti matura come fossero
dieci anni di vita sindacale. A Brescia c'era un clima particolare e i miei
compagni della catena di montaggio che di solito partecipavano alle
manifestazioni, quella mattina avevano espresso dei timori. La giornata era
brutta, pioveva, ed erano venuti in pochi.
In un primo
momento, subito dopo l’esplosione, si è cercato di organizzare la piazza.
Vicino a Castrezzati c'erano un paio di delegati della Om. All'una siamo
rientrati in fabbrica dove l'azienda aveva già detto a tutti di andare a casa
per timore che potesse accadere qualcosa in fabbrica. C'erano solo alcuni capi
in giro e uno di questi, quando ci ha visto arrivare, si è messo a scappare.
Noi l'abbiamo bloccato e gli abbiamo detto "Guarda che non ti facciamo
niente. Ma non hai vergogna, neanche di fronte ai morti".
Dopo l'attentato
abbiamo sollecitato tutti alla massima partecipazione. Eravamo la fabbrica più
grande della provincia e quindi avevamo maggiori responsabilità. I delegati
alla Om erano veloci nel prendere le decisioni, erano organizzati, disponevano
di permessi, e quindi spesso erano chiamati a fare servizio d'ordine in
occasione di manifestazioni e iniziative sindacali. Siamo stati la notte a fare
i turni di sorveglianza e servizi d'ordine in piazza, cui ho sempre
partecipato.
Il giorno
successivo abbiamo fatto rientrare la gente in fabbrica, per poterla
organizzare, perché se stavano a casa era difficile raggiungerli, e abbiamo
dichiarato lo sciopero per il giorno dei funerali. Il ministro del lavoro è
venuto in fabbrica a fare un comizio. Al funerale io ero dietro le bare, e
durante la cerimonia mi sono messo dietro il palco. C’erano gli
extraparlamentari, che erano tanti, che spingevano, da Sant'Agata e da Piazza
Vittoria. E noi tra loro, il palco e le bare, e la polizia. Mi ricorderò sempre
che c'era un operatore che stava riprendendo la folla. Si sentiva il fruscio
del nastro che girava e un poliziotto gli ha strappato dalle mani la cinepresa.
Era la psicologia della bomba.
Il '74 per me è
stato un anno di grandi esperienze emotive e umane più che strettamente sindacali.
Nel 1975 vado al
coordinamento Fiat. Alla prima riunione c'era la “Tbc”: Trentin, Benvenuto e
Carniti. C’erano più di mille delegati e si discuteva della piattaforma
dell’integrativo Fiat. All’ordine del giorno c’erano anche gli investimenti del
Mezzogiorno, perché fare l’integrativo Fiat voleva dire fare richieste
politiche. Si chiedeva di realizzare degli stabilimenti al sud: adesso ci sono
impianti a Termini Imerese, Grottaminarda, Val di Sangro, Termoli. Era una
piattaforma tutta politica, nel senso buono del termine, con la sola richiesta
di un piccolo aumento salariale. Andando al coordinamento Fiat cominciai a
capire la distanza tra l’esperienza bresciana e quella di gruppo. La nostra era
un’esperienza locale, a Torino si parlava di grandi questioni nazionali.
Bisogna anche
tenere conto che in quel periodo come Om eravamo in contestazione con la Fim,
per cui nel coordinamento nazionale c’era un solo rappresentante della Fim
proveniente dalla Om. Io andavo al coordinamento insieme a Gianni Pedò e ad
alcuni delegati Fiom che poi sono diventati il gruppo dirigente dei
metalmeccanici della Cgil. E che già allora contestavano l’integrativo Fiat In
quel periodo era venuto a Brescia come segretario Claudio Sabatini. Noi avevamo
un certa alleanza con lui, essenzialmente per ragioni di contrasto con la Fim,
ma era una cosa strana che mi piaceva poco. A me andava bene il rapporto con i
comunisti, ma il legame con Sabatini lo consideravo un po’ anomalo.
In questa
fabbrica il rapporto tra democristiani e comunisti è stato sempre essenziale,
una scelta di fondo. Era una scelta quasi obbligata, perché nel gruppo Fiat il
sindacato delle piccole cose non si faceva, gli accordi erano tutti nazionali,
si faceva politica e poca contrattazione aziendale. Io dicevo ai miei compagni:
“Voi non conoscete il lavoro, e neanche sindacato, il sindacato contratta”, ma
lì non era possibile.
Nel 1975 la Fiat
aveva mandato in Om Gaboardi, un bresciano pronto a fare un accordo sulle ferie
scaglionate. La flessibilità contrattata era una nostra rivendicazione, ma
quando siamo arrivati al dunque la Fiom non ha firmato. Un risultato positivo
sarebbe servito a livello politico per dire che si poteva concedere un po’ di
flessibilità per un migliore utilizzo degli impianti ottenendo in cambio ilo
riconoscimento del ruolo del sindacato aziendale su queste questioni. Per
illustrare i vantaggi della flessibilità si cercava di semplificare, di
tradurre in un linguaggio pratico e comprensibile a tutti. Spiegavamo che
andare in ferie a giugno o a settembre era una conquiste, che voleva dire un
milione circa di aumento, con quello che si risparmiava ad andare in vacanza in
quel periodo. Purtroppo non c’erano le condizioni e non se n’è fatto nulla.
Vista la chiusura della Fiom, la Fiat a quel punto ha detto che ci avrebbe
pensato lei. E’ stata una sconfitta grossa perché la flessibilità è stata
requisita dagli imprenditori e ora si vedono i risultati. Noi chiedevamo anche
il part time perché pensavamo a come conciliare lavoro e famiglia. Una battaglia
sostenuta dalla Bonafini, che era impiegata alla Om ed è diventata parlamentare
europea, ma non abbiamo ottenuto nulla.
I lavoratori su
questi temi erano distanti dal sindacato, perché il livello era troppo alto.
Mentre nei reparti si discuteva di cottimo, di qualifiche, di posti di lavoro
il sindacato era impegnato in discussioni di principio e queste si facevano a
Torino.
Appena eletto
delegato ho partecipato alla definizione dei tempi per il camioncino nuovo e
quella è stata un’esperienza enorme. Queste questioni si decidevano in azienda,
ma per il resto i lavoratori ci sentivano lontani. I delegati Om discutevano di
temi da segreteria nazionale e poco di questioni aziendali e la gente che
lavora tutti i giorni non era molto interessata ai temi generali.
Ma alla Om tutta
la vicenda sindacale è sempre stata così: oltre cinquemila operai che quasi non
potevano discutere delle loro condizioni di lavoro, senza poter contrattare,
salvo qualche piccola questione, qualche qualifica. Ma di sindacato vero,
quello che contratta quotidianamente, se ne faceva poco. Di conseguenza anche
il rapporto tra Fim e Fiom era tutto politico e rispecchiava l’idea di fondo
che stava dietro ogni nostra scelta: che era quella per cui abbiamo litigato
con la Fim, e cioè che l’unità sindacale avrebbe prodotto l’unità delle forze
popolari. Lo scontro con Castrezzati è stata su questa questione.
Adesso che ci si
trova, da veri amici, siamo d’accordo sul dire che quella è stata una vera
battaglia, per qualcosa che valeva la pena, non per i posti. E’ stata una
grande cosa. Noi ritenevamo che l’unità sindacale fosse uno strumento, oltre
che sindacale, utile alla politica. "Negli anni successivi altri hanno
fatto lo stesso ragionamento in casa Cisl, ma non con la stessa dignità".
Non sempre
eravamo d’accordo sulle azioni da condurre in azienda. Una di queste volte fu
in occasione del caso Mario Bianchi, un handicappato che nel 1976 si era
piazzato con una tenda davanti ai cancelli. La vicenda era sorta perché la Fiat
aveva rifiutato di farlo entrare in azienda, nonostante fosse un’assunzione
obbligatoria. Gli pagava lo stipendio, ma non lo voleva in fabbrica perché
diceva che era pericoloso per sé e per gli altri. Era una situazione pesante,
stava in carrozzina, e la prima volta che l’ho visto le sue condizioni mi hanno
colpito. Lui però voleva il proprio posto di lavoro. Era il periodo della
campagna elettorale del 1976. L’azienda gli aveva offerto in alternativa la
gestione di un’edicola di giornali oppure cento milioni, ma lui aveva
rifiutato. Allora io e un delegato della Uilm siamo andati a parlare con il
papà, perché avevamo paura che fosse strumentalizzato, ma il padre ci disse: se
riuscite a convincerlo per me va bene, ma lui niente.
I medici gli
avevano assegnato prima un’invalidità al 99 per cento e poi l’avevano
trasformata al 100 per cento. Nel frattempo, in azienda era venuto Umberto
Agnelli e noi gli abbiamo illustrato il problema, ma lui ci disse che con
un’invalidità al 100% in Fiat non sarebbe entrato, perché per la Fiat avrebbe
voluto dire dover assumere migliaia di persone in quelle condizioni e nessuna
legge lo obbligava, ma se avesse avuto riconosciuto solo il 99% allora la
situazione sarebbe stata diversa, perché l’azienda non avrebbe potuto dire di
no. A quel punto non c’era possibilità di soluzione, allora abbiamo tentato
un’altra strada. Con l’aiuto di Rossignoli, che faceva parte della Commissione
sanità della Camera, abbiamo chiesto di andare a vedere cosa era successo.
Abbiamo
organizzato una grande manifestazione, con tutti gli operai che sono rimasti
fuori dai cancelli, e siamo andati a piedi e in bicicletta davanti al Palazzo
della sanità. Fu una manifestazione molto vivace e siamo riusciti ad ottenere
che i medici gli rifacessero le visite. Gli venne riassegnato il 99% di
invalidità, inoltre è emerso che lui non avrebbe potuto peggiorare ma anzi era
destinato a recupera qualcosina e a migliorare.
Nonostante
questo la Fiat continuava a non volerlo farlo entrare. Un giorno la Fiom aveva
organizzato un corteo interno. Ad un certo punto del corteo degli operai si è
staccato un gruppetto che si è precipitato verso i cancelli che davano vero gli
uffici, prendendo alla sprovvista le guardie. Così il corteo, con davanti la
macchina con dentro il sindacalista della Fiom, ha deviato ed è arrivato alla
palazzina degli impiegati bloccandoli all’interno dalla mattina alle 10 fino
alla sera. In breve tempo sono arrivati Cremaschi, Sabatini e altri a dire di
togliere il blocco e di uscire. Noi non eravamo d’accordo con la Fiom interna,
ma io ero lì. Nelle prime due ore ho tentato di convincere i delegati a lasciar
perdere, poi ho parlato con la direzione per cercare di sbloccare la
situazione, ma ad un certo punto la segreteria del capo del personale mi disse
di lasciar perdere perché ormai la situazione non era più nelle mani dei
responsabili dello stabilimento di Brescia. Sono arrivati i carabinieri e si
sono messi sulla porta mentre cresceva la tensione. Il vicequestore mi disse
che i carabinieri erano lì per garantire la possibilità agli impiegati di
uscire, altrimenti era sequestro di persona. Era già arrivata la denuncia della
Fiat in tal senso. Per evitare ulteriori tensioni mi sono adoperato a spiegare
agli operai che i carabinieri erano lì per tutelare il nostro diritto alla
protesta.
All’uno abbiamo
cercato di far uscire qualche impiegato. Abbiamo fatto dei cordoni di delegati,
creando un passaggio tra la massa degli operai, ma i primi usciti non avevano
fatto ancora tre passi che un delegato, da dietro le spalle di un operaio,
diede un calcio a uno che cercava di passare. Questi sono tornati
immediatamente nella palazzina uffici. A quel punto la Polizia disse che
dovevamo andarcene noi. Nel frattempo era arrivato anche Castrezzati, insieme
ad altri della Fim. Anche se noi eravamo in dissenso volevamo aiutare a trovare
la strada per uscire da quella situazione. Ad un certo punto abbiamo detto che
se non smettevano ce ne saremmo andati, ma i lavoratori hanno gridato anche
contro di noi. Tra loro c’era anche un cugino di mia moglie. In quel momento ho
avuto un po’ di paura. Noi non temevamo di rischiare, ma quando sapevamo cosa
si rischiava.
Poi ha iniziato
a piovere, ma gli operai non si sono mossi fino alle dieci di sera e i
dirigenti della Fiom si sono dati da fare ad accompagnare fuori dalla fabbrica
gli operai per evitare il peggio. Pedò, Sabatini e Cremaschi chiedevano una
mano anche a noi, ma gli abbiamo risposto che visto quel che era accaduto,
potevano anche arrangiarsi.
Quando si era
d’accordo queste cose non succedevano e avevamo sempre il controllo della
situazione, si riusciva a fermare o far passare tutto ciò che sui voleva.
Altrimenti potevano essere guai. Quando c’erano degli scioperi di reparto e la
direzione ci diceva che avrebbe mandato a casa gli operai perché mancavo i
pezzi, eravamo in grado di far riprendere a lavorare le persone che producevano
quei pezzi, indipendentemente che ci fosse un delegato della Fim o della Fiom.
La vicenda è
durata quasi 60 giorni, tutto il periodo della campagna elettorale, e si è
conclusa con la mediazione del sindaco Trebeschi. Era venuto anche in azienda
nonostante fosse convalescente di una malattia al fegato, e la conclusione è
andata avanti per quattro giorni e quattro notti in Loggia. E’ stata
un’esperienza molto significativa, sia dal punto di vista politico che
sindacale, e istruttiva anche dal punto di vista giuridico.
Ho fatto anche un’altra esperienza nazionale,
è stato quando hanno tolto le festività. Io ero presente quelle notti in cui si
contrattavano con il governo Andreotti le condizioni per aiutare il paese a
uscire da una situazione di difficoltà. C’erano, Lama e Macario, con Carniti
alle spalle, il vero leader, e Benvenuto. Eravamo nella sede della Cgil.
Ricordo che hanno firmato l’accordo di notte e quando sono tornati i tre
segretari generali, qualcuno li ha presi per il collo, ed erano fimmini. Perché
la Fim a Torino e anche a Milano stava a sinistra, a sinistra anche del Pci.
Quando andavo a
Torino stavo più volentieri con la Cgil, mi sentivo più a casa mia, come quando
andavo alle Acli, ma in casa Fim non c’entravo per nulla. Eravamo in epoca di
terrorismo, c’erano delegati che venivano alle riunioni con me e poi me li sono
trovati in prigione. Alla Om sono stati trovati dei volantini, ma non c’era un
filo di intolleranza e il nostro impegno politico non ha lasciato spazio ad
estremismi. Appena qualcuno andava un poco sopra le righe veniva immediatamente
ripreso. Il terrorismo rosso da noi non ha trovato spazio e in tutta la
provincia bresciana gli episodi sono stati pochi. Ma a Torino era dura.
Nel 1980 il sindaco di Torino era Diego Novelli e la Cgil
era su una posizione moderata, mentre la Fiom, sostenuta da Sabatini, che era
il segretario che seguiva la Fiat, aveva commesso l’errore di dar corda a
quella gente ed è stato messo in trappola. I trenta giorni di occupazione sono
stati decisi da un errore, alla fine di un coordinamento nel momento in cui
erano presenti solo poche persone. Era un metodo che usavano spesso, quando si
votava loro vincevano sempre e i più
scatenati erano i delegati Fim. E a me questo dava fastidio. Noi della Om non
eravamo d’accordo con quella lotta e in quei trenta giorni abbiamo fatto di
tutto per sbloccare la situazione. Purtroppo è stata una sconfitta che poi si è
sentita. Lì è nata la fine del sindacato glorioso della Flm.
Nell’80, 81 in
occasione delle elezioni per il rinnovo dei delegati, non sono stato eletto,
perché i miei compagni di lavoro vedevano che ero sempre in giro e non ero mai
in fabbrica e loro volevano uno che fosse sempre lì. Io ho cercato di spiegare
che quando andavo via a loro non succedeva niente: “posso sempre intervenire se
c’è bisogno e, anzi, posso forse fare di più per il reparto”. Ma non mi hanno
ascoltato e hanno scelto un altro. Il giorno dopo la pubblicazione dei
risultati sono tornato a lavorare nel mio reparto e i miei compagni erano
sorpresi di vedermi. Allora ho dovuto spiegare che io facevo il sindacalista
perché loro mi eleggevano come delegato di linea, cosa che evidentemente non era
chiara a tutti. Sono rimasto nel mio reparto per un po’, poi sono andato un
paio di mesi a lavorare a Grottaminarda, in uno stabilimento Fiat dove
costruiscono gli autobus e mi sono fatto un’esperienza nuova. A quel punto sono
stato chiamato al sindacato e sono uscito dalla fabbrica per due anni come
operatore Fim. Noi sostenevamo la rotazione degli incarichi, così nell’83 sono
rientrato e mi ha sostituito Sandro Pasotti.
Come operatore
ho incontrato una difficoltà oggettiva, perché non avevo più l’esperienza della
contrattazione, mentre nelle aziende era un periodo abbastanza difficile, i
problemi erano quotidiani e bisognava darsi da fare. Operavo nella zona sud
della città, nella bassa e in tutta la zona di Sant’Eufemia, dove c’erano una
serie di aziende che sono entrate in crisi una dopo l’altra e che ora non ci
sono più.
Quando sono
rientrato sono stato nuovamente eletto delegato e ho fatto il coordinatore
della Fim in azienda. Nel frattempo c’è stata la rottura dell’unità sindacale e
mi sono impegnato nell’organizzazione della presenza Fim, nella costruzione
delle liste con propri delegati, fino al 1993, quando sono andato in pensione.
Due mesi prima mi aveva chiamato il segretario della Fim perché venissi di
nuovo a lavorare al sindacato. Ho smesso il venerdì alla Om e il lunedì ero già
al lavoro in Fim e insieme a Pasotti seguivo la zona di Palazzolo, Montichiari
e davo una mano a lui perché era rimasto da solo. L’ho fatto per circa due
anni, poi sono passato in città accanto a una giovane operatrice. Negli ultimi
mesi in cui sono rimasto in Fim sono passato part time, perché nel frattempo
sono diventato nonno ed era giunto il tempo di lasciare. La mia esperienza
sindacale Fim è finita nel 1996.
Da pensionato ho
fatto le assemblee sulla riforma delle pensioni. Andare dalla gente a dire che
dovevano lavorare di più non è stata un’esperienza molto facile.
Mi sono
impegnato con i pensionati, con un’idea precisa, però, quella di cercare di
integrare i pensionati con la categoria. L’idea non è passata e io ho lasciato.
A me non piace fare solo le pratiche, a me piace la politica. Adesso faccio il
nonno e basta. Sono sempre andato a funghi e ci vado ancora. Gli amici sono
ancora quelli della Om.
Quando mi hanno
chiamato a fare l’operatore per la prima volta ero segretario della Dc del mio
paese, Roncadelle, e ho dovuto dare le dimissioni perché era incompatibile.
All’inizio degli anni ’80 in paese abbiamo fatto l’alleanza tra democristiani,
socialisti e comunisti, perché pensavo che la strada della politica fosse
quella di mettere insieme operai, lavoratori e ceto medio.
Nelle Acli sono
stato conigliere provinciale, ma il mio interesse prevalente è sempre stata la
politica e, più in piccolo, il sindacato ma dentro la politica. Noi avevamo la
fortuna di essere formati fin da ragazzi e le Acli ci hanno dato questo
spirito, poi in Om ho trovato un gruppo sindacale e politico che la pensava
come me.
Il rapporto con
in comunisti è nato perché fin da ragazzino nella mia famiglia si faceva
politica. Andavamo ad attaccare i manifesti, strappavamo quelli degli altri,
avevamo dieci anni. Abitavamo in campagna e mio papà faceva il contadino. Mia
mamma era la “capa” delle donne e una volta che avevano lasciato a casa uno
perché era comunista, è andata dal padrone a protestare perché quello era un
brav’uomo, un lavoratore anche se era comunista. Questa è l’idea che mi hanno
trasmesso i miei.
Questo è anche
l’insegnamento di Papa Giovanni XXIII: “Combatti l’errore ma non l’errante”.
Questo è stato il mio slogan di vita. Io non sono mai stato un comunista, ma
non sono mai stato contro i comunisti. Avevano una carica e un impegno
notevole. Il mondo cattolico si accontentava di una pacca sulla spalla, ma
quelli invece spiegavano che c’era il rischio che ti dava la pacca era anche
quello che ti imbrogliava, ti sfruttava.
In Om si
eleggeva un parlamentare della Dc. Il primo fu Capra, poi Rossignoli. Capra era
un impiegato, Rossignoli un operaio. Ha fatto l’assessore a Brescia e poi è
andato in Parlamento. Landi era il leader del gruppo e l’animatore di tutte le
iniziative in Om, ma lui non ha mai avuto cariche. L’unico incarico che ha
avuto è stato quello di segretario cittadino della Dc. A volte sindacato e
politica si confondevano, io lo dicevo, ho litigato anche con loro “voi di
sindacato non sapete nulla, sindacato è contrattazione, è conoscere i problemi,
affrontarli, è anche occuparsi delle cose piccole”.
L’esperienza
della Lega democratica è una cosa che mi ha affascinato: Scoppola, Ardigò,
Prodi, Ruffilli questi intellettuali veniva gestiti organizzativamente degli
operai e loro avevano una venerazione per questa gente, perché dicevano:
“queste persone hanno fatto la quinta elementare e la terza media con le 150
ore, ma riescono a mettere in moto idee grosse”.
C’è stato un
periodo in cui Prodi ha seguito l’auto ed è diventato commissario per il
settore che stava morendo, era stato anche in Giappone. Un giorno siamo andati
a Bologna nel suo studio e gli abbiamo spiegato come funzionava la Fiat e il
settore. Eravamo in tre: io, Landi e Maffetti Francesco o Dante (pare usasse
entrambi i nomi), era il vecchio del gruppo Om, il saggio. Era stato in
segreteria Fim, restando però in fabbrica. Io ero quello che conosceva la
situazione dal punto di vista sindacale. Questa era la forza del gruppo della
Om: tu fai il ministro, io faccio l’operaio, ma anch’io ho qualcosa da dire che
vale e deve contare.
Landi aveva
questa grande idea: l’operaio deve essere classe dirigente. Questo era il suo
pallino.
A Prodi ho
spiegato il meccanismo degli incentivi alla Fiat: si discuteva del perché gli
operai non si impegnavano nel lavoro all’Alfa Romeo. Una persona perché deve
impegnarsi a lavorare? Innanzitutto per guadagnare, perché alla Fiat non si
ragiona in termini di carriera o di capacità professionale, essendo
l’organizzazione un po’ parastatale. Quindi si doveva trovare un meccanismo per
incentivare la gente.
Ho partecipato a
diverse iniziative formative sindacali, ma quando erano troppo tecniche a me
non piacevano molto, preferivo le occasioni dove si discuteva di grandi
questioni. Però ho sempre sostenuto la necessità che nei bilanci della Fim si
impegnassero maggiori risorse per la formazione.
Il mio impegno
politico e sindacale mi occupava totalmente e con la famiglia è stato un po’ un
problema, anche se mia moglie ha accettato di buon grado questa condizione. Ci
siamo conosciuti da ragazzini, abbiamo avuto due figlie e io per rimanere
vicino a loro mi sono sempre impegnato nella scuola in tutti gli organismi di
partecipazione: consiglio di classe, d’istituto, di circolo, distrettuale. Mia
moglie qualche volta mi rimproverava: stai via quindici giorni, sempre in giro
tra Torino e Roma, torni a casa con la busta paga ridotta dalle ore di sciopero
fatte in azienda ma cui tu non hai partecipato mentre io faccio fatica ad
arrivare alla fine del mese. Stando in giro, anche se ero spesato, qualche
spesa in più ce l’avevo, magari si usciva in compagnia, si andava al cinema,
tutte spese che rimanendo a casa non avresti e se uno non voleva approfittarne,
pesavano sul suo portafoglio. Se poi dovevo usare la macchina per andare alle
riunioni a Brescia o nei dintorni erano altre spese che pesavano sul bilancio
familiare. Devo dire, però, che sono riuscito a trasmetterle la mia idea: “io
non porterò mai a casa soldi ne carriere, ma cultura, esperienze, conoscenze e
questo lo trasmetteremo alle figlie”. Nonostante le difficoltà e tirando la
cinghia le figlie hanno studiato si sono laureate tutte e due. In un incontro
con gli operai della Iveco, che era diventata europea, con inglesi, spagnoli,
francesi abbiamo confrontato le buste paga e i bilanci familiari ed è emerso
che io non avrei dovuto farcela ad arrivare a fine mese. Per fortuna una figlia
ha cominciato a fare alcuni lavoretti d’estate e anche l’altra trovava qualcosa
da fare, così mi sono costruito la casa.
A casa magari
mia moglie mi rimproverava, ma se qualcuno fuori mi criticava, magari facendo
battute sul fatto che con i miei impegni avrei guadagnato dei soldi, diventava
una belva. Perché per noi la coerenza era una questione d’orgoglio, nessuno ti
doveva attaccare da questo punto di vista.
In Om non c’è
mai stato il problema del tesseramento al sindacato. Si dava per scontato che
la Fiom fosse il braccio e noi la mente. Loro avevano la forza per organizzare
gli scioperi, noi avevamo la strategia. Una simile situazione ci aveva fatto un
po’ sedere non c’erano le motivazioni e io non ho mai fatto campagna per il
tesseramento, anche quando sono uscito come operatore, anche quando ormai
l’unità sindacale si era rotta. L’Om è stata l’ultima azienda bresciana dove ci
si è divisi. Non si è mai curato il tesseramento e dopo, quando si è tentato,
era tardi, perché la Fiom era organizzata e noi no. Per noi era tutto più
difficile, la massa degli operai era costituita da persone inquadrate al terzo
e quarto livello e la Fiom usava la demagogia, mentre noi eravamo abituati a
fare i ragionamenti e faticavamo a farci capire, non c’era più spazio. Noi
andavamo a parlare di ferie scaglionate e di part time, loro chiedevano sempre
di più, anche se poi non portavano a casa niente, ma dicevano che la
responsabilità era nostra, che ci tiravamo indietro.
Ora non eravamo
più ascoltati come negli anni precedenti. Il fatto di essere democristiani, di
contare nel mondo della politica, un tempo ci dava forza, ma poi anche questo è
finito. Bodrato, che era torinese, era il nostro referente politico e quando
andavo alla riunioni a Torino, prima di andare in Cisl, passavo a trovarlo.
Dopo di noi non sono emersi altri dirigenti. Dopo il ’76 nessuno è uscito dalla
Om per fare l’operatore, pur essendo la fabbrica più grossa di Brescia. Questo
è stato un limite di quel gruppo che non ha saputo creare nuove figure in grado
di sostituirli, questo perché erano troppo distanti dai lavoratori.
Una volta ho
rischiato di prenderle. Era un periodo duro, con una trattativa aperta e appena
tornato da Torino in automobile sono subito andato in assemblea. L’oratore era
Pedò, poi dovevo intervenire io per la Fim. E’ saltato su un esagitato, un
iscritto Fiom, che ha urlato contro di me: “mentre noi siamo qui a fare
sciopero c’è qualcuno che va in ferie”. In mia difesa è intervenuto un delegato
della Fiom, spiegando che non ero in fabbrica non perché stavo in ferie ma
perché ero impegnato nelle trattative.
A parte quella
volta io non ho mai avuto problemi particolari nelle assemblee, perché usavo un
linguaggio concreto e conoscevo i problemi, mentre se parlavano Paletti o
Gaffurini, che usavano un linguaggio pesante e difficile, spesso i lavoratori
li fischiavano e a volte li offendevano.
Nella vicenda
degli autoconvocati io non ero d’accordo sulle scelte fatte dalla Fim in Om,
anche la Bonafini e Rossignoli non erano d’accordo. Landi, invece, si è
immolato sull’altare dell’accordo politico, Paletti, che era arrivato dopo, ha
fatto un po’ il portavoce ed è intervenuto alla manifestazione di Piazza San
Giovanni. Avevo sentito Andreatta a Brescia affermare: datemi la scala mobile
semestrale e sarete voi a offrirla come sindacato, e io vi difenderò, ma se non
me la date ve la porteranno via tutta. Io ero d’accordo con lui. In quella
vicenda ci siamo spaccati e sono sorti problemi anche sul piano personale.
Si alimentava
anche la polemica con Carniti dicendo che lui usava i soldi dei democristiani (gli
scritti alla Cisl) per fare una politica da socialista.
Anche sul tema
della concertazione ci siamo divisi. Paletti era un rigido, con Gaffurini mi
trovavo un po’ di più, molti dei vecchi leader erano già in pensione.
Ogni tanto Landi
diceva: ricominciano, ma quando tu per dieci anni sei andato oltre, scatenando
i delegati della Om contro la Fim e la Cisl, poi non si riesce più a tornare
indietro. E per questo alla fine sono venuto via male: mi dicevano "ma
cosa sei lì a fare alla Fim?". Ma era stata una scelta mia, nessuno mi
aveva obbligato, e io vedevo che alla Beretta, alla Tlm nelle altre fabbriche
si faceva sindacato, si facevano le tessere, alla Om non si riusciva.
Nel 1973, quando
sono entrato in Om, c’erano ancora 7 o 8 dei nove commissari eletti. Avevano
ancora il loro monte ore, la loro tutela, perché gli accordi interconfederali
non avevano sciolto le commissioni interne, anche se di fatto non c’erano più.
Alcuni di loro in quel periodo di intermezzo furono utilizzati come operatori
per non perdere le risorse di cui disponevano. La Fiat non ha mai riconosciuto
i consigli di fabbrica. Lei riconosceva gli eletti come rsa o esperti delle
rappresentanze e divisi per comitati. Se noi mandavamo una lettera firmata
consiglio di fabbrica o esecutivo del consiglio di fabbrica, tornava indietro.
Dovevamo firmare le rsa.
Uni di questi
ultimi commissari Fiom rimasti nel 1975 o 76 venne licenziato dall’azienda. Ero
a casa per il ponte di San Pietro e arrivò una telefonata che convoca
l’esecutivo della Om. Il giorno precedente l’inizio del ponte, l’ultimo
commissario della Fim, Santo Minessi, che era anche delegato, e un gruppetto di
lavoratori, erano in un reparto con un tempista che stava facendo i tempi di
una lavorazione e il delegato Fiom lo ha spintonato un po’ violentemente.
Questo è andato in ospedale, mentre per il delegato è scattata immediatamente
la sospensione. Il lunedì mattina venne immediatamente proclamato lo sciopero
con il blocco di tutte le officine e tutti sono usciti sui cancelli per protestare
contro la sospensione. Abbiamo fatto ricorso in tribunale. Poi, sempre con la
mediazione di Trebeschi, siamo riusciti a farlo riassumere. La Fiat però non
voleva riassumere un commissario che aveva compiuto un gesto del genere. Era
l’epoca del terrorismo e gli episodi di violenza non potevano essere tollerati,
ma la mediazione raggiunta precisò che veniva riassunto un lavoratore e non un
commissario. Raggiunta l’intesa, un esperto della Fiom giunto appositamente da
Bologna per seguire la vicenda dal punto di vista legale, disse che il testo
non era perfetto, ma a quel punto la Fim si oppose a che venisse modificato
l’accordo, minacciando altrimenti di lasciare la Fiom da sola. A quel punto
tutto si chiuse sulla base della mediazione e il lavoratore rientrò al suo
posto.