domenica 3 maggio 2020

LUIGI LAMBERTI - Om Iveco – Brescia

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Sono nato nel 1943 a Roncadelle, dove vivo ancora oggi. Sono sposato con due figlie e tre nipotini, che sono il mio impegno attuale. Da 11 anni sono in pensione. Sono uno dei fortunati pensionati giovani. Ho cominciato a lavorare nel 1956, a 13 anni, e a 14 sono stato assicurato, così dopo 35 anni e pochi mesi sono andato in pensione, non ancora cinquantenne. Il primo lavoro significativo è stato in una fabbrica di rimorchi, la Rimorchi Orlandi, dove ho fatto la tessera del sindacato.

Ci lavoravano 120 persone, c'era la commissione interna, con un commissario Fim e uno Fiom, e dopo un po' che ero lì sono stato avvicinato da uno di costoro che mi ha chiesto di iscrivermi. Ero già vicino ai valori della Cisl, perché militavo nelle Acli. Poi sono andato in Marina per due anni. Quando sono tornato l'azienda era in difficoltà. In verità era una politica aziendale assumere un bel numero di apprendisti e dopo un po' di anni lasciarne a casa una parte che ormai erano diventati operai e costavano di più.
Durante quel periodo di crisi, la direzione ha mandato a chiamare il commissario della Fim, che aveva dieci figli, e gli ha detto che se si continuava a fare gli scioperi avrebbe avuto dei problemi. E' stato in quell'occasione che mi è nata la voglia di fare sindacato. Eravamo un gruppo di giovani e il mio primo impegno fu quello di distribuire dei volantini agli scioperanti, ma alla fine della vicenda mi sono trovato tra i licenziati. Il pretesto fu un fatto che oggi fa sorridere. Una mattina, dopo avere distribuito dei volantini davanti al cancello, me ne erano rimasti alcuni che ho portato con me sul posto di lavoro per utilizzare come carta igienica, perché nei bagni della fabbrica non ce n'era. Il capo reparto mi ha visto con quei volantini e me li ha ritirati. Io ho preteso che me li restituisse, cosa che lui ha fatto, ma poi ho trovato il mio nome nell'elenco dei licenziati. Era il 1970 circa.
Alla Orlandi ho imparato a lavorare. Sono entrato come apprendista, poi ho fatto tutta la trafila e ho avuto la qualifica come saldatore. Si riparavano camion oppure si facevano delle modifiche agli automezzi della Om. La mia vita di lavoro l'ho sempre passata in mezzo ai camion. Allora se avevi un mestiere il lavoro si trovava. Anche se quello era un periodo critico non sono mai stato disoccupato. Dopo il licenziamento ho fatto un po' di mesi in diverse officine di riparazione di camion. Poi sono entrato in una piccola azienda sempre di autoriparazioni. Ci lavorava anche il titolare e il sindacato non c'era. Eravamo una cinquantina di persone, ma l’officina è presto fallita. Allora ci siamo organizzati per gestire la situazione. Mi sono impegnato in prima persona e il fatto di avere qualche esperienza e di conoscere qualcuno nel sindacato ci ha aiutati. Ho chiamato la Fim che ci ha seguiti nel periodo del fallimento.

Nel febbraio 1973 sono entrato alla Om e nell'ottobre dello stesso anno sono stato eletto delegato. E' stato un percorso veloce, perché conoscevo già il sindacato e c'erano dei delegati che mi conoscevano. Appena assunto, ho fatto per alcuni mesi diversi lavori, poi sono stato inserito nella linea di montaggio. Era un lavoro che non mi piaceva. Ed è stata forse anche quella una molla che mi ha spinto ad impegnarmi direttamente, perché sulla linea soffrivo quel lavoro sempre obbligato e ripetitivo cui non ero abituato. Il lavoro in catena o l'accetti e ti adatti, oppure lo rifiuti. La mia esperienza di lavoro mi portava spesso a dialogare e confrontarmi con i capi sull'organizzazione del lavoro che molte volte consideravo sbagliata. Per questo mi hanno eletto delegato.
C'era l'unità sindacale, ma c'era il gruppo Fim che si caratterizzava, faceva le sue riunioni. Il consiglio di fabbrica quell'anno era composto da 120 persone. Dopo un anno sono entrato nell'esecutivo del cdf, di cui facevano parte 7 o 9 delegati, perché mi piaceva, perché davo disponibilità anche se ero già sposato. Dopo un altro anno e qualche mese sono andato per la prima volta al coordinamento Fiat e sono entrato in un mondo enorme. Era il 1975.

Nel frattempo, con le 150 ore, che sono state conquistate con il contratto del '73, ho fatto la terza media. Io avevo fatto fino alla seconda quand'ero ragazzino e poi sono andato a lavorare. Le lezioni sono partite ad aprile del '74 e sono terminate a settembre. Sono state le prime organizzate dal sindacato e gestite da noi. Negli anni successivi le ho seguite come consiglio di fabbrica. Noi mandavamo un centinaio di persone per volta a scuola e qualcuno doveva seguire queste persone, ed è toccato a me. Le 150 ore sono state una grande intuizione e una grande esperienza per tanti lavoratori, che prendevano in mano i libri dopo tanto tempo. Il primo anno si fece solo politica, ma in quelli successivi si iniziò a studiare di più.
Durante il periodo della scuola c'è stato l'attentato di Piazza della Loggia. Siamo stati tutti impegnatissimi e influenzati moltissimo da questa vicenda e onestamente di scuola ne abbiamo fatta poca.

Il giorno dell’attentato io ero in piazza. E' un'esperienza che ti matura come fossero dieci anni di vita sindacale. A Brescia c'era un clima particolare e i miei compagni della catena di montaggio che di solito partecipavano alle manifestazioni, quella mattina avevano espresso dei timori. La giornata era brutta, pioveva, ed erano venuti in pochi.
In un primo momento, subito dopo l’esplosione, si è cercato di organizzare la piazza. Vicino a Castrezzati c'erano un paio di delegati della Om. All'una siamo rientrati in fabbrica dove l'azienda aveva già detto a tutti di andare a casa per timore che potesse accadere qualcosa in fabbrica. C'erano solo alcuni capi in giro e uno di questi, quando ci ha visto arrivare, si è messo a scappare. Noi l'abbiamo bloccato e gli abbiamo detto "Guarda che non ti facciamo niente. Ma non hai vergogna, neanche di fronte ai morti". 
Dopo l'attentato abbiamo sollecitato tutti alla massima partecipazione. Eravamo la fabbrica più grande della provincia e quindi avevamo maggiori responsabilità. I delegati alla Om erano veloci nel prendere le decisioni, erano organizzati, disponevano di permessi, e quindi spesso erano chiamati a fare servizio d'ordine in occasione di manifestazioni e iniziative sindacali. Siamo stati la notte a fare i turni di sorveglianza e servizi d'ordine in piazza, cui ho sempre partecipato.
Il giorno successivo abbiamo fatto rientrare la gente in fabbrica, per poterla organizzare, perché se stavano a casa era difficile raggiungerli, e abbiamo dichiarato lo sciopero per il giorno dei funerali. Il ministro del lavoro è venuto in fabbrica a fare un comizio. Al funerale io ero dietro le bare, e durante la cerimonia mi sono messo dietro il palco. C’erano gli extraparlamentari, che erano tanti, che spingevano, da Sant'Agata e da Piazza Vittoria. E noi tra loro, il palco e le bare, e la polizia. Mi ricorderò sempre che c'era un operatore che stava riprendendo la folla. Si sentiva il fruscio del nastro che girava e un poliziotto gli ha strappato dalle mani la cinepresa. Era la psicologia della bomba.

Il '74 per me è stato un anno di grandi esperienze emotive e umane più che strettamente sindacali.

Nel 1975 vado al coordinamento Fiat. Alla prima riunione c'era la “Tbc”: Trentin, Benvenuto e Carniti. C’erano più di mille delegati e si discuteva della piattaforma dell’integrativo Fiat. All’ordine del giorno c’erano anche gli investimenti del Mezzogiorno, perché fare l’integrativo Fiat voleva dire fare richieste politiche. Si chiedeva di realizzare degli stabilimenti al sud: adesso ci sono impianti a Termini Imerese, Grottaminarda, Val di Sangro, Termoli. Era una piattaforma tutta politica, nel senso buono del termine, con la sola richiesta di un piccolo aumento salariale. Andando al coordinamento Fiat cominciai a capire la distanza tra l’esperienza bresciana e quella di gruppo. La nostra era un’esperienza locale, a Torino si parlava di grandi questioni nazionali.
Bisogna anche tenere conto che in quel periodo come Om eravamo in contestazione con la Fim, per cui nel coordinamento nazionale c’era un solo rappresentante della Fim proveniente dalla Om. Io andavo al coordinamento insieme a Gianni Pedò e ad alcuni delegati Fiom che poi sono diventati il gruppo dirigente dei metalmeccanici della Cgil. E che già allora contestavano l’integrativo Fiat In quel periodo era venuto a Brescia come segretario Claudio Sabatini. Noi avevamo un certa alleanza con lui, essenzialmente per ragioni di contrasto con la Fim, ma era una cosa strana che mi piaceva poco. A me andava bene il rapporto con i comunisti, ma il legame con Sabatini lo consideravo un po’ anomalo.
In questa fabbrica il rapporto tra democristiani e comunisti è stato sempre essenziale, una scelta di fondo. Era una scelta quasi obbligata, perché nel gruppo Fiat il sindacato delle piccole cose non si faceva, gli accordi erano tutti nazionali, si faceva politica e poca contrattazione aziendale. Io dicevo ai miei compagni: “Voi non conoscete il lavoro, e neanche sindacato, il sindacato contratta”, ma lì non era possibile.
Nel 1975 la Fiat aveva mandato in Om Gaboardi, un bresciano pronto a fare un accordo sulle ferie scaglionate. La flessibilità contrattata era una nostra rivendicazione, ma quando siamo arrivati al dunque la Fiom non ha firmato. Un risultato positivo sarebbe servito a livello politico per dire che si poteva concedere un po’ di flessibilità per un migliore utilizzo degli impianti ottenendo in cambio ilo riconoscimento del ruolo del sindacato aziendale su queste questioni. Per illustrare i vantaggi della flessibilità si cercava di semplificare, di tradurre in un linguaggio pratico e comprensibile a tutti. Spiegavamo che andare in ferie a giugno o a settembre era una conquiste, che voleva dire un milione circa di aumento, con quello che si risparmiava ad andare in vacanza in quel periodo. Purtroppo non c’erano le condizioni e non se n’è fatto nulla. Vista la chiusura della Fiom, la Fiat a quel punto ha detto che ci avrebbe pensato lei. E’ stata una sconfitta grossa perché la flessibilità è stata requisita dagli imprenditori e ora si vedono i risultati. Noi chiedevamo anche il part time perché pensavamo a come conciliare lavoro e famiglia. Una battaglia sostenuta dalla Bonafini, che era impiegata alla Om ed è diventata parlamentare europea, ma non abbiamo ottenuto nulla.

I lavoratori su questi temi erano distanti dal sindacato, perché il livello era troppo alto. Mentre nei reparti si discuteva di cottimo, di qualifiche, di posti di lavoro il sindacato era impegnato in discussioni di principio e queste si facevano a Torino.
Appena eletto delegato ho partecipato alla definizione dei tempi per il camioncino nuovo e quella è stata un’esperienza enorme. Queste questioni si decidevano in azienda, ma per il resto i lavoratori ci sentivano lontani. I delegati Om discutevano di temi da segreteria nazionale e poco di questioni aziendali e la gente che lavora tutti i giorni non era molto interessata ai temi generali.
Ma alla Om tutta la vicenda sindacale è sempre stata così: oltre cinquemila operai che quasi non potevano discutere delle loro condizioni di lavoro, senza poter contrattare, salvo qualche piccola questione, qualche qualifica. Ma di sindacato vero, quello che contratta quotidianamente, se ne faceva poco. Di conseguenza anche il rapporto tra Fim e Fiom era tutto politico e rispecchiava l’idea di fondo che stava dietro ogni nostra scelta: che era quella per cui abbiamo litigato con la Fim, e cioè che l’unità sindacale avrebbe prodotto l’unità delle forze popolari. Lo scontro con Castrezzati è stata su questa questione.
Adesso che ci si trova, da veri amici, siamo d’accordo sul dire che quella è stata una vera battaglia, per qualcosa che valeva la pena, non per i posti. E’ stata una grande cosa. Noi ritenevamo che l’unità sindacale fosse uno strumento, oltre che sindacale, utile alla politica. "Negli anni successivi altri hanno fatto lo stesso ragionamento in casa Cisl, ma non con la stessa dignità".

Non sempre eravamo d’accordo sulle azioni da condurre in azienda. Una di queste volte fu in occasione del caso Mario Bianchi, un handicappato che nel 1976 si era piazzato con una tenda davanti ai cancelli. La vicenda era sorta perché la Fiat aveva rifiutato di farlo entrare in azienda, nonostante fosse un’assunzione obbligatoria. Gli pagava lo stipendio, ma non lo voleva in fabbrica perché diceva che era pericoloso per sé e per gli altri. Era una situazione pesante, stava in carrozzina, e la prima volta che l’ho visto le sue condizioni mi hanno colpito. Lui però voleva il proprio posto di lavoro. Era il periodo della campagna elettorale del 1976. L’azienda gli aveva offerto in alternativa la gestione di un’edicola di giornali oppure cento milioni, ma lui aveva rifiutato. Allora io e un delegato della Uilm siamo andati a parlare con il papà, perché avevamo paura che fosse strumentalizzato, ma il padre ci disse: se riuscite a convincerlo per me va bene, ma lui niente.
I medici gli avevano assegnato prima un’invalidità al 99 per cento e poi l’avevano trasformata al 100 per cento. Nel frattempo, in azienda era venuto Umberto Agnelli e noi gli abbiamo illustrato il problema, ma lui ci disse che con un’invalidità al 100% in Fiat non sarebbe entrato, perché per la Fiat avrebbe voluto dire dover assumere migliaia di persone in quelle condizioni e nessuna legge lo obbligava, ma se avesse avuto riconosciuto solo il 99% allora la situazione sarebbe stata diversa, perché l’azienda non avrebbe potuto dire di no. A quel punto non c’era possibilità di soluzione, allora abbiamo tentato un’altra strada. Con l’aiuto di Rossignoli, che faceva parte della Commissione sanità della Camera, abbiamo chiesto di andare a vedere cosa era successo.
Abbiamo organizzato una grande manifestazione, con tutti gli operai che sono rimasti fuori dai cancelli, e siamo andati a piedi e in bicicletta davanti al Palazzo della sanità. Fu una manifestazione molto vivace e siamo riusciti ad ottenere che i medici gli rifacessero le visite. Gli venne riassegnato il 99% di invalidità, inoltre è emerso che lui non avrebbe potuto peggiorare ma anzi era destinato a recupera qualcosina e a migliorare.
Nonostante questo la Fiat continuava a non volerlo farlo entrare. Un giorno la Fiom aveva organizzato un corteo interno. Ad un certo punto del corteo degli operai si è staccato un gruppetto che si è precipitato verso i cancelli che davano vero gli uffici, prendendo alla sprovvista le guardie. Così il corteo, con davanti la macchina con dentro il sindacalista della Fiom, ha deviato ed è arrivato alla palazzina degli impiegati bloccandoli all’interno dalla mattina alle 10 fino alla sera. In breve tempo sono arrivati Cremaschi, Sabatini e altri a dire di togliere il blocco e di uscire. Noi non eravamo d’accordo con la Fiom interna, ma io ero lì. Nelle prime due ore ho tentato di convincere i delegati a lasciar perdere, poi ho parlato con la direzione per cercare di sbloccare la situazione, ma ad un certo punto la segreteria del capo del personale mi disse di lasciar perdere perché ormai la situazione non era più nelle mani dei responsabili dello stabilimento di Brescia. Sono arrivati i carabinieri e si sono messi sulla porta mentre cresceva la tensione. Il vicequestore mi disse che i carabinieri erano lì per garantire la possibilità agli impiegati di uscire, altrimenti era sequestro di persona. Era già arrivata la denuncia della Fiat in tal senso. Per evitare ulteriori tensioni mi sono adoperato a spiegare agli operai che i carabinieri erano lì per tutelare il nostro diritto alla protesta.
All’uno abbiamo cercato di far uscire qualche impiegato. Abbiamo fatto dei cordoni di delegati, creando un passaggio tra la massa degli operai, ma i primi usciti non avevano fatto ancora tre passi che un delegato, da dietro le spalle di un operaio, diede un calcio a uno che cercava di passare. Questi sono tornati immediatamente nella palazzina uffici. A quel punto la Polizia disse che dovevamo andarcene noi. Nel frattempo era arrivato anche Castrezzati, insieme ad altri della Fim. Anche se noi eravamo in dissenso volevamo aiutare a trovare la strada per uscire da quella situazione. Ad un certo punto abbiamo detto che se non smettevano ce ne saremmo andati, ma i lavoratori hanno gridato anche contro di noi. Tra loro c’era anche un cugino di mia moglie. In quel momento ho avuto un po’ di paura. Noi non temevamo di rischiare, ma quando sapevamo cosa si rischiava.
Poi ha iniziato a piovere, ma gli operai non si sono mossi fino alle dieci di sera e i dirigenti della Fiom si sono dati da fare ad accompagnare fuori dalla fabbrica gli operai per evitare il peggio. Pedò, Sabatini e Cremaschi chiedevano una mano anche a noi, ma gli abbiamo risposto che visto quel che era accaduto, potevano anche arrangiarsi.
Quando si era d’accordo queste cose non succedevano e avevamo sempre il controllo della situazione, si riusciva a fermare o far passare tutto ciò che sui voleva. Altrimenti potevano essere guai. Quando c’erano degli scioperi di reparto e la direzione ci diceva che avrebbe mandato a casa gli operai perché mancavo i pezzi, eravamo in grado di far riprendere a lavorare le persone che producevano quei pezzi, indipendentemente che ci fosse un delegato della Fim o della Fiom.
La vicenda è durata quasi 60 giorni, tutto il periodo della campagna elettorale, e si è conclusa con la mediazione del sindaco Trebeschi. Era venuto anche in azienda nonostante fosse convalescente di una malattia al fegato, e la conclusione è andata avanti per quattro giorni e quattro notti in Loggia. E’ stata un’esperienza molto significativa, sia dal punto di vista politico che sindacale, e istruttiva anche dal punto di vista giuridico.

 Ho fatto anche un’altra esperienza nazionale, è stato quando hanno tolto le festività. Io ero presente quelle notti in cui si contrattavano con il governo Andreotti le condizioni per aiutare il paese a uscire da una situazione di difficoltà. C’erano, Lama e Macario, con Carniti alle spalle, il vero leader, e Benvenuto. Eravamo nella sede della Cgil. Ricordo che hanno firmato l’accordo di notte e quando sono tornati i tre segretari generali, qualcuno li ha presi per il collo, ed erano fimmini. Perché la Fim a Torino e anche a Milano stava a sinistra, a sinistra anche del Pci.
Quando andavo a Torino stavo più volentieri con la Cgil, mi sentivo più a casa mia, come quando andavo alle Acli, ma in casa Fim non c’entravo per nulla. Eravamo in epoca di terrorismo, c’erano delegati che venivano alle riunioni con me e poi me li sono trovati in prigione. Alla Om sono stati trovati dei volantini, ma non c’era un filo di intolleranza e il nostro impegno politico non ha lasciato spazio ad estremismi. Appena qualcuno andava un poco sopra le righe veniva immediatamente ripreso. Il terrorismo rosso da noi non ha trovato spazio e in tutta la provincia bresciana gli episodi sono stati pochi. Ma a Torino era dura.
Nel 1980 il  sindaco di Torino era Diego Novelli e la Cgil era su una posizione moderata, mentre la Fiom, sostenuta da Sabatini, che era il segretario che seguiva la Fiat, aveva commesso l’errore di dar corda a quella gente ed è stato messo in trappola. I trenta giorni di occupazione sono stati decisi da un errore, alla fine di un coordinamento nel momento in cui erano presenti solo poche persone. Era un metodo che usavano spesso, quando si votava loro vincevano sempre  e i più scatenati erano i delegati Fim. E a me questo dava fastidio. Noi della Om non eravamo d’accordo con quella lotta e in quei trenta giorni abbiamo fatto di tutto per sbloccare la situazione. Purtroppo è stata una sconfitta che poi si è sentita. Lì è nata la fine del sindacato glorioso della Flm.

Nell’80, 81 in occasione delle elezioni per il rinnovo dei delegati, non sono stato eletto, perché i miei compagni di lavoro vedevano che ero sempre in giro e non ero mai in fabbrica e loro volevano uno che fosse sempre lì. Io ho cercato di spiegare che quando andavo via a loro non succedeva niente: “posso sempre intervenire se c’è bisogno e, anzi, posso forse fare di più per il reparto”. Ma non mi hanno ascoltato e hanno scelto un altro. Il giorno dopo la pubblicazione dei risultati sono tornato a lavorare nel mio reparto e i miei compagni erano sorpresi di vedermi. Allora ho dovuto spiegare che io facevo il sindacalista perché loro mi eleggevano come delegato di linea, cosa che evidentemente non era chiara a tutti. Sono rimasto nel mio reparto per un po’, poi sono andato un paio di mesi a lavorare a Grottaminarda, in uno stabilimento Fiat dove costruiscono gli autobus e mi sono fatto un’esperienza nuova. A quel punto sono stato chiamato al sindacato e sono uscito dalla fabbrica per due anni come operatore Fim. Noi sostenevamo la rotazione degli incarichi, così nell’83 sono rientrato e mi ha sostituito Sandro Pasotti.
Come operatore ho incontrato una difficoltà oggettiva, perché non avevo più l’esperienza della contrattazione, mentre nelle aziende era un periodo abbastanza difficile, i problemi erano quotidiani e bisognava darsi da fare. Operavo nella zona sud della città, nella bassa e in tutta la zona di Sant’Eufemia, dove c’erano una serie di aziende che sono entrate in crisi una dopo l’altra e che ora non ci sono più.
Quando sono rientrato sono stato nuovamente eletto delegato e ho fatto il coordinatore della Fim in azienda. Nel frattempo c’è stata la rottura dell’unità sindacale e mi sono impegnato nell’organizzazione della presenza Fim, nella costruzione delle liste con propri delegati, fino al 1993, quando sono andato in pensione. Due mesi prima mi aveva chiamato il segretario della Fim perché venissi di nuovo a lavorare al sindacato. Ho smesso il venerdì alla Om e il lunedì ero già al lavoro in Fim e insieme a Pasotti seguivo la zona di Palazzolo, Montichiari e davo una mano a lui perché era rimasto da solo. L’ho fatto per circa due anni, poi sono passato in città accanto a una giovane operatrice. Negli ultimi mesi in cui sono rimasto in Fim sono passato part time, perché nel frattempo sono diventato nonno ed era giunto il tempo di lasciare. La mia esperienza sindacale Fim è finita nel 1996.

Da pensionato ho fatto le assemblee sulla riforma delle pensioni. Andare dalla gente a dire che dovevano lavorare di più non è stata un’esperienza molto facile.
Mi sono impegnato con i pensionati, con un’idea precisa, però, quella di cercare di integrare i pensionati con la categoria. L’idea non è passata e io ho lasciato. A me non piace fare solo le pratiche, a me piace la politica. Adesso faccio il nonno e basta. Sono sempre andato a funghi e ci vado ancora. Gli amici sono ancora quelli della Om.

Quando mi hanno chiamato a fare l’operatore per la prima volta ero segretario della Dc del mio paese, Roncadelle, e ho dovuto dare le dimissioni perché era incompatibile. All’inizio degli anni ’80 in paese abbiamo fatto l’alleanza tra democristiani, socialisti e comunisti, perché pensavo che la strada della politica fosse quella di mettere insieme operai, lavoratori e ceto medio.
Nelle Acli sono stato conigliere provinciale, ma il mio interesse prevalente è sempre stata la politica e, più in piccolo, il sindacato ma dentro la politica. Noi avevamo la fortuna di essere formati fin da ragazzi e le Acli ci hanno dato questo spirito, poi in Om ho trovato un gruppo sindacale e politico che la pensava come me.
Il rapporto con in comunisti è nato perché fin da ragazzino nella mia famiglia si faceva politica. Andavamo ad attaccare i manifesti, strappavamo quelli degli altri, avevamo dieci anni. Abitavamo in campagna e mio papà faceva il contadino. Mia mamma era la “capa” delle donne e una volta che avevano lasciato a casa uno perché era comunista, è andata dal padrone a protestare perché quello era un brav’uomo, un lavoratore anche se era comunista. Questa è l’idea che mi hanno trasmesso i miei.
Questo è anche l’insegnamento di Papa Giovanni XXIII: “Combatti l’errore ma non l’errante”. Questo è stato il mio slogan di vita. Io non sono mai stato un comunista, ma non sono mai stato contro i comunisti. Avevano una carica e un impegno notevole. Il mondo cattolico si accontentava di una pacca sulla spalla, ma quelli invece spiegavano che c’era il rischio che ti dava la pacca era anche quello che ti imbrogliava, ti sfruttava.

In Om si eleggeva un parlamentare della Dc. Il primo fu Capra, poi Rossignoli. Capra era un impiegato, Rossignoli un operaio. Ha fatto l’assessore a Brescia e poi è andato in Parlamento. Landi era il leader del gruppo e l’animatore di tutte le iniziative in Om, ma lui non ha mai avuto cariche. L’unico incarico che ha avuto è stato quello di segretario cittadino della Dc. A volte sindacato e politica si confondevano, io lo dicevo, ho litigato anche con loro “voi di sindacato non sapete nulla, sindacato è contrattazione, è conoscere i problemi, affrontarli, è anche occuparsi delle cose piccole”. 
L’esperienza della Lega democratica è una cosa che mi ha affascinato: Scoppola, Ardigò, Prodi, Ruffilli questi intellettuali veniva gestiti organizzativamente degli operai e loro avevano una venerazione per questa gente, perché dicevano: “queste persone hanno fatto la quinta elementare e la terza media con le 150 ore, ma riescono a mettere in moto idee grosse”.
C’è stato un periodo in cui Prodi ha seguito l’auto ed è diventato commissario per il settore che stava morendo, era stato anche in Giappone. Un giorno siamo andati a Bologna nel suo studio e gli abbiamo spiegato come funzionava la Fiat e il settore. Eravamo in tre: io, Landi e Maffetti Francesco o Dante (pare usasse entrambi i nomi), era il vecchio del gruppo Om, il saggio. Era stato in segreteria Fim, restando però in fabbrica. Io ero quello che conosceva la situazione dal punto di vista sindacale. Questa era la forza del gruppo della Om: tu fai il ministro, io faccio l’operaio, ma anch’io ho qualcosa da dire che vale e deve contare.
Landi aveva questa grande idea: l’operaio deve essere classe dirigente. Questo era il suo pallino.
A Prodi ho spiegato il meccanismo degli incentivi alla Fiat: si discuteva del perché gli operai non si impegnavano nel lavoro all’Alfa Romeo. Una persona perché deve impegnarsi a lavorare? Innanzitutto per guadagnare, perché alla Fiat non si ragiona in termini di carriera o di capacità professionale, essendo l’organizzazione un po’ parastatale. Quindi si doveva trovare un meccanismo per incentivare la gente.

Ho partecipato a diverse iniziative formative sindacali, ma quando erano troppo tecniche a me non piacevano molto, preferivo le occasioni dove si discuteva di grandi questioni. Però ho sempre sostenuto la necessità che nei bilanci della Fim si impegnassero maggiori risorse per la formazione.

Il mio impegno politico e sindacale mi occupava totalmente e con la famiglia è stato un po’ un problema, anche se mia moglie ha accettato di buon grado questa condizione. Ci siamo conosciuti da ragazzini, abbiamo avuto due figlie e io per rimanere vicino a loro mi sono sempre impegnato nella scuola in tutti gli organismi di partecipazione: consiglio di classe, d’istituto, di circolo, distrettuale. Mia moglie qualche volta mi rimproverava: stai via quindici giorni, sempre in giro tra Torino e Roma, torni a casa con la busta paga ridotta dalle ore di sciopero fatte in azienda ma cui tu non hai partecipato mentre io faccio fatica ad arrivare alla fine del mese. Stando in giro, anche se ero spesato, qualche spesa in più ce l’avevo, magari si usciva in compagnia, si andava al cinema, tutte spese che rimanendo a casa non avresti e se uno non voleva approfittarne, pesavano sul suo portafoglio. Se poi dovevo usare la macchina per andare alle riunioni a Brescia o nei dintorni erano altre spese che pesavano sul bilancio familiare. Devo dire, però, che sono riuscito a trasmetterle la mia idea: “io non porterò mai a casa soldi ne carriere, ma cultura, esperienze, conoscenze e questo lo trasmetteremo alle figlie”. Nonostante le difficoltà e tirando la cinghia le figlie hanno studiato si sono laureate tutte e due. In un incontro con gli operai della Iveco, che era diventata europea, con inglesi, spagnoli, francesi abbiamo confrontato le buste paga e i bilanci familiari ed è emerso che io non avrei dovuto farcela ad arrivare a fine mese. Per fortuna una figlia ha cominciato a fare alcuni lavoretti d’estate e anche l’altra trovava qualcosa da fare, così mi sono costruito la casa.
A casa magari mia moglie mi rimproverava, ma se qualcuno fuori mi criticava, magari facendo battute sul fatto che con i miei impegni avrei guadagnato dei soldi, diventava una belva. Perché per noi la coerenza era una questione d’orgoglio, nessuno ti doveva attaccare da questo punto di vista.

In Om non c’è mai stato il problema del tesseramento al sindacato. Si dava per scontato che la Fiom fosse il braccio e noi la mente. Loro avevano la forza per organizzare gli scioperi, noi avevamo la strategia. Una simile situazione ci aveva fatto un po’ sedere non c’erano le motivazioni e io non ho mai fatto campagna per il tesseramento, anche quando sono uscito come operatore, anche quando ormai l’unità sindacale si era rotta. L’Om è stata l’ultima azienda bresciana dove ci si è divisi. Non si è mai curato il tesseramento e dopo, quando si è tentato, era tardi, perché la Fiom era organizzata e noi no. Per noi era tutto più difficile, la massa degli operai era costituita da persone inquadrate al terzo e quarto livello e la Fiom usava la demagogia, mentre noi eravamo abituati a fare i ragionamenti e faticavamo a farci capire, non c’era più spazio. Noi andavamo a parlare di ferie scaglionate e di part time, loro chiedevano sempre di più, anche se poi non portavano a casa niente, ma dicevano che la responsabilità era nostra, che ci tiravamo indietro.
Ora non eravamo più ascoltati come negli anni precedenti. Il fatto di essere democristiani, di contare nel mondo della politica, un tempo ci dava forza, ma poi anche questo è finito. Bodrato, che era torinese, era il nostro referente politico e quando andavo alla riunioni a Torino, prima di andare in Cisl, passavo a trovarlo. Dopo di noi non sono emersi altri dirigenti. Dopo il ’76 nessuno è uscito dalla Om per fare l’operatore, pur essendo la fabbrica più grossa di Brescia. Questo è stato un limite di quel gruppo che non ha saputo creare nuove figure in grado di sostituirli, questo perché erano troppo distanti dai lavoratori.
Una volta ho rischiato di prenderle. Era un periodo duro, con una trattativa aperta e appena tornato da Torino in automobile sono subito andato in assemblea. L’oratore era Pedò, poi dovevo intervenire io per la Fim. E’ saltato su un esagitato, un iscritto Fiom, che ha urlato contro di me: “mentre noi siamo qui a fare sciopero c’è qualcuno che va in ferie”. In mia difesa è intervenuto un delegato della Fiom, spiegando che non ero in fabbrica non perché stavo in ferie ma perché ero  impegnato nelle trattative.
A parte quella volta io non ho mai avuto problemi particolari nelle assemblee, perché usavo un linguaggio concreto e conoscevo i problemi, mentre se parlavano Paletti o Gaffurini, che usavano un linguaggio pesante e difficile, spesso i lavoratori li fischiavano e a volte li offendevano.

Nella vicenda degli autoconvocati io non ero d’accordo sulle scelte fatte dalla Fim in Om, anche la Bonafini e Rossignoli non erano d’accordo. Landi, invece, si è immolato sull’altare dell’accordo politico, Paletti, che era arrivato dopo, ha fatto un po’ il portavoce ed è intervenuto alla manifestazione di Piazza San Giovanni. Avevo sentito Andreatta a Brescia affermare: datemi la scala mobile semestrale e sarete voi a offrirla come sindacato, e io vi difenderò, ma se non me la date ve la porteranno via tutta. Io ero d’accordo con lui. In quella vicenda ci siamo spaccati e sono sorti problemi anche sul piano personale.
Si alimentava anche la polemica con Carniti dicendo che lui usava i soldi dei democristiani (gli scritti alla Cisl) per fare una politica da socialista.
Anche sul tema della concertazione ci siamo divisi. Paletti era un rigido, con Gaffurini mi trovavo un po’ di più, molti dei vecchi leader erano già in pensione.
Ogni tanto Landi diceva: ricominciano, ma quando tu per dieci anni sei andato oltre, scatenando i delegati della Om contro la Fim e la Cisl, poi non si riesce più a tornare indietro. E per questo alla fine sono venuto via male: mi dicevano "ma cosa sei lì a fare alla Fim?". Ma era stata una scelta mia, nessuno mi aveva obbligato, e io vedevo che alla Beretta, alla Tlm nelle altre fabbriche si faceva sindacato, si facevano le tessere, alla Om non si riusciva.

Nel 1973, quando sono entrato in Om, c’erano ancora 7 o 8 dei nove commissari eletti. Avevano ancora il loro monte ore, la loro tutela, perché gli accordi interconfederali non avevano sciolto le commissioni interne, anche se di fatto non c’erano più. Alcuni di loro in quel periodo di intermezzo furono utilizzati come operatori per non perdere le risorse di cui disponevano. La Fiat non ha mai riconosciuto i consigli di fabbrica. Lei riconosceva gli eletti come rsa o esperti delle rappresentanze e divisi per comitati. Se noi mandavamo una lettera firmata consiglio di fabbrica o esecutivo del consiglio di fabbrica, tornava indietro. Dovevamo firmare le rsa.
Uni di questi ultimi commissari Fiom rimasti nel 1975 o 76 venne licenziato dall’azienda. Ero a casa per il ponte di San Pietro e arrivò una telefonata che convoca l’esecutivo della Om. Il giorno precedente l’inizio del ponte, l’ultimo commissario della Fim, Santo Minessi, che era anche delegato, e un gruppetto di lavoratori, erano in un reparto con un tempista che stava facendo i tempi di una lavorazione e il delegato Fiom lo ha spintonato un po’ violentemente. Questo è andato in ospedale, mentre per il delegato è scattata immediatamente la sospensione. Il lunedì mattina venne immediatamente proclamato lo sciopero con il blocco di tutte le officine e tutti sono usciti sui cancelli per protestare contro la sospensione. Abbiamo fatto ricorso in tribunale. Poi, sempre con la mediazione di Trebeschi, siamo riusciti a farlo riassumere. La Fiat però non voleva riassumere un commissario che aveva compiuto un gesto del genere. Era l’epoca del terrorismo e gli episodi di violenza non potevano essere tollerati, ma la mediazione raggiunta precisò che veniva riassunto un lavoratore e non un commissario. Raggiunta l’intesa, un esperto della Fiom giunto appositamente da Bologna per seguire la vicenda dal punto di vista legale, disse che il testo non era perfetto, ma a quel punto la Fim si oppose a che venisse modificato l’accordo, minacciando altrimenti di lasciare la Fiom da sola. A quel punto tutto si chiuse sulla base della mediazione e il lavoratore rientrò al suo posto.