domenica 3 maggio 2020

VINCENZO BOMBARDIERI - Cisl - Bergamo

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006 

Da operaio addetto alle fosse di colaggio a membro del consiglio di amministrazione della Dalmine: chi l’avrebbe detto? Ho cominciato presto a lavorare. Sono a nato a Bergamo il 19 dicembre 1926. Ottenuta la licenza elementare ho dovuto subito rimboccarmi le maniche. Cercavo di guadagnare qualcosa con lavoretti occasionali, per aiutare i miei a superare le tante difficoltà economiche di quei tempi. Mio papà era invalido al lavoro ed io ero il secondo di quattro fratelli. Non era facile arrivare a fine mese. 
Nel maggio del 1942 trovai il primo lavoro vero e proprio, come apprendista. Contemporaneamente frequentai il biennio di scuola per aggiustatori meccanici (1942/43). Ma la mia esperienza lavorativa e professionale è strettamente collegata alla Dalmine. Il primo contatto avvenne attraverso la scuola officina aziendale, per un corso di “aggiustatore meccanico” e nel marzo 1943 venni assunto come apprendista alla manutenzione meccanica nel reparto trivellazione. Lì cominciò la vera vita di fabbrica.

Ebbi la fortuna di incontrare persone in gamba, speciali. Una di queste fu un personaggio fondamentale per la storia di Bergamo: il capo officina Aurelio Colleoni, che poi sarebbe diventato segretario della Cisl e in seguito senatore. Su suo consiglio cominciai a partecipare ai “raggi aziendali”. Fu un incontro molto importante. L’educazione ricevuta in famiglia e più in generale in ambito parrocchiale mi portarono a rivolgere la mia attenzione a tutto ciò che in fabbrica si faceva per difendere la dignità dei lavoratori. Con Colleoni ed altri parlavamo di problemi sociali e di quanto accadeva in quel momento: del fascismo e poi della guerra
I dirigenti della fabbrica erano fascisti e non si poteva parlare liberamente. Riuscivamo a organizzare degli incontri, per confrontarci sulla situazione lavorativa ma anche sull’attualità politica e sociale e sul futuro, solo approfittando della pausa mensa. Erano momenti importanti e lì cominciò a nascere in me l’interesse per i problemi sociali e il desiderio di saperne sempre di più, per essere più preparato a dare un contributo attivo quando sarebbe finita la guerra. 

L’inizio della mia attività lavorativa e di dipendente della Dalmine coincise con la fase cruenta dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, dai quali l’azienda stessa fu drammaticamente colpita. Ricordo ancora come fosse oggi. Erano le undici e dieci del 6 luglio del 1944 quando un attacco aereo, in pieno giorno, bombardò l’azienda causando più di 300 morti e centinaia di feriti tra i lavoratori. Fu terribile. Tutti correvano a prestare soccorso, scavavano come disperati tra le macerie. I morti vennero portati tutti nella chiesa parrocchiale, ma non tutti erano riconoscibili. Uno strazio terribile. Fu però un’occasione importante di solidarietà, di coesione per essere utili. Partecipai anch'io, anche se ero giovanissimo, agli scavi tra le macerie per recuperare i morti. C’era una grande solidarietà che ci unì ancora di più. 

Da subito attribuimmo tutta la responsabilità della tragedia al comandante tedesco, che non fece suonare la sirena d’allarme per non interrompere le colate in corso. Ma non meno pesanti furono le responsabilità imputabili al clima di “fascistizzazione” culturale della fabbrica, voluto dall’allora direttore, ingegnere Costantino Rocca, e denunciato fortemente dall’Aurelio Colleoni come “inquadramento particolarmente grave dell’ambiente a opera del Ras Prearo, nel quadro della fascistizzazione voluta dall’ingegner Rocca”. 

Nel bombardamento la gran parte degli impianti andò distrutta. Fu una lacerante ferita per le maestranze e la popolazione dalminese e bergamasca. La ricostruzione oltretutto fu lenta, anche perché finita la guerra la Dalmine dovette affrontare la riconversione della sua produzione, passando da “prodotti bellici” a “prodotti civili”. A ciò si sommarono i problemi derivati dal nuovo clima di fine guerra e dalla volontà del Comitato di liberazione nazionale aziendale, composto da esponenti della Dc, Pci, Psi e Partito d’Azione, di “ripulire” l’azienda da coloro che avevano collaborato e si erano compromessi con il fascismo e con la Repubblica di Salò. 

In tale contesto si avviò una ristrutturazione aziendale che portò ad una serie di licenziamenti, a partire dal marzo 1946. Non essendo capofamiglia, anch'io venni inserito nella lista dei licenziabili. Il piano di ristrutturazione però fu in parte alleggerito da un accordo aziendale che prevedeva la possibilità di emigrare in Belgio per lavorare alle dipendenze di un’azienda siderurgica e mineraria. Accettai e nel luglio 1946 partii per il Belgio, dove rimasi fino alla fine del luglio 1949. All’inizio mi occupai della riparazione dei carrelli della miniera, poi venni assegnato agli altiforni. Un lavoro decisamente duro, faticosissimo. 

In questa fabbrica-miniera presi contatto con rappresentanti della Jeunesse Ouvrier, allora molto influente, e partecipai a incontri con la presenza del fondatore e presidente, mons. Cardye, successivamente nominato cardinale. Furono momenti molto importanti, perché parlare con altri operai, confrontarmi e discutere su come cambiare le cose, mi piaceva molto e mi permise di alleggerire le fatiche e la tensione generata da un lavoro realmente disumano. Proprio nel corso di questi incontri maturai la decisione di iscrivermi al sindacato cristiano del Belgio e partecipai alle varie riunioni nella sede di Liegi. Formatomi in Italia nelle file del Giac (Azione cattolica) e delle Acli, nella missione cattolica di Seraing costituii il gruppo “Jounesse ouvriere” di Azione Cattolica, coinvolgendo altri immigrati italiani coi quali organizzai, nel tempo libero, attività culturali e ricreative. Un gruppo che mi diede moltissime soddisfazioni, tanto che rientrato in Italia alla fine del 1949, più di una volta fui invitato in Belgio per partecipare a manifestazioni di carattere sindacale e politico. 

Di nuovo alla Dalmine 
Quando seppi che alla Dalmine erano riprese le assunzioni, inoltrai domanda dando la disponibilità per qualsiasi lavoro o impiego. Fui richiamato all’inizio del 1950. 

Al mio rientro trovai una realtà molto diversa da quella che avevo lasciato. Le ferite del bombardamento erano ancora aperte nella memoria delle maestranze e dei dalminesi, anche se alleviate dalla riconquistata libertà e dalla prospettiva della ricostruzione: il tutto cementato da un forte sentimento antifascista, dalla partecipazione alle lotte sindacali e ai primi scioperi contro il “carovita”. 

Fui destinato al reparto acciaieria Martin come operaio di 1° gruppo, aiuto fossa di colaggio. In seguito divenni manovratore gru nel piazzale, dal giugno del 1951, e manovratore gru caricatrice forni Martin dal’56 al ’69. 

Il lavoro in reparto acciaieria non era uno scherzo: si stava per ore davanti ai forni aperti, con un caldo infernale. Era anche pericoloso, perché non c’era nulla di automatizzato e per caricare i forni si entrava col braccio. Fatica e pericoli, però, cementavano la solidarietà tra i lavoratori. Quando qualcuno arrivava che non stava bene lo si metteva in un angolo e si faceva il suo lavoro. Il clima era di leale amicizia, di solidarietà, e forse anche questo contribuì a farmi interessare in modo sempre più intenso ai problemi degli operai e alle condizioni di lavoro. 

In quegli anni lottavamo per avere uno stipendio che riconoscesse il fatto che il lavoro in siderurgia era più pesante, più disagiato di altri. Chiedevamo indennità per il lavoro a caldo e premi di produzione: anche gli operai dovevano trarre qualche vantaggio dal fatto che il bilancio dell’azienda andava bene. I risultati non mancavano, perché i rapporti con i responsabili della direzione erano sempre stati tenuti in modo costruttivo, almeno da parte nostra (Cisl). Più difficili furono le lotte di tutte le industrie siderurgiche o metalmeccaniche, che venivano imposte dall’alto dalle segreterie nazionali o regionali. 

Commissario 
Il primo risultato tangibile del nostro impegno per i lavoratori della Dalmine arrivò nel 1959, quando alle elezioni della Commissione interna del reparto acciaierie risultai, con mia grande sorpresa, primo eletto nella lista degli operai. Primo anche del rappresentante del reparto acciaierie: uno della Cgil che metteva soggezione, se non timore, a tutti gli operai. Io ero esattamente il suo opposto. Del resto le amicizie, le esperienze di lavoro, gli insegnamenti della famiglia, i contatti col sindacato cristiano in Belgio mi avevano portato ad avvicinarmi con forza e decisone al mondo del sindacato cattolico. 

Il risultato elettorale e la nomina a presidente della commissione interna diedero il via all’impegno sempre più intenso come rappresentante sindacale di fabbrica, a contatto con la Cisl di Bergamo e i dirigenti di allora della Cisl. Tra questi anche Colleoni che per premiarmi mi nominò presidente del primo precongresso della Cisl bergamasca. Una soddisfazione grandissima, non priva però di difficoltà: non ero un parlatore, avevo la quinta elementare, non ero niente di speciale, non mi sentivo all’altezza insomma. Comunque, me la cavai. 

In fabbrica ormai mi sapevo muovere bene. Riuscivo a gestire al meglio anche i grandi scontri con la Cgil: ne ho fatti diversi, ho preso anche una sediata sulla schiena. Nelle riunioni intersindacali, sulle questioni generali, il clima era diverso, molto più disteso. Valeva il principio dell’unità, del lavoro fatto bene e con criterio. Le trattative in notturna, le riunioni di notte e di sera tardi sono sempre state positive. In azienda, invece, la competizione tra sindacati era fortissima, così come la gelosia. Avevo amici della Cgil che davanti ai lavoratori mi insultavano perché volevano dimostrare che erano contro, dovevano esprimere davanti agli altri una certa cattiveria e una certa distanza. Ma il cuore era un’altra cosa e lo dimostra il fatto che con quel delegato della Cgil che mi colpì la schiena con una sedia si sviluppò negli anni un rapporto molto bello. 

Le direzioni comunque ne approfittavano, facevano apposta a metterci contro. La più grossa lite con il delegato di fabbrica della Cgil avvenne a causa di un capo del personale che per divertirsi gli diceva “Guardi, mi mandi Bombardieri al suo posto per piacere…”. Il confronto con i rappresentanti dell’azienda era forte, serrato. Gli scontri non mancavano, ma erano carichi di stima reciproca. Basta pensare che quando venni via dalla Dalmine la direzione mi scrisse una lettera di riconoscimento per il lavoro svolto, anche da rappresentante sindacale. 

In quegli anni ottenemmo risultati importanti, per migliorare le condizioni di vita degli operai. Uno dei problemi più grossi erano gli infortuni sul lavoro. Non c’era sicurezza. In generale nelle aziende, in particolare nelle acciaierie dove moltissimi morivano a causa delle ustioni. Grazie alle trattative e agli accordi, la situazione è gradualmente migliorata. Ma non è stato facile. Ricordo che in un periodo, a inizio anni ’60, l’azienda addirittura arrivò a proibirci di entrare nei reparti per verificare le condizioni di lavoro. Avevamo libero accesso solo agli uffici. In Dalmine, del resto, ho visto alternarsi dirigenti veramente bravi e anche grandi filibustieri, parcheggiati in attesa di essere spostati in un altro posto. Le partecipazioni statali erano un po’ così. Davano lavoro a persone anche brave che però non avevano idea di cosa fosse la siderurgia. 

Infortuni o altro, le trattative aziendali hanno spesso evidenziato le tensioni con la Cgil. Eravamo divisi: abbiamo fatto scioperi nostri e non abbiamo partecipato a scioperi proclamati dalla Cgil. I lavoratori però tutto sommato ci hanno sempre capito e seguito, tanto che alla Dalmine riuscimmo a diventare maggioranza dello stabilimento. Venne premiato il fatto che pensavamo veramente ai problemi del lavoratore, cercavamo un contatto vero per capire le sue esigenze. Se un operaio non si trovava bene si cercava di cambiargli posto, se veniva punito si andava a parlare con l’azienda per cercare di ridurre la penalità. Grazie a questo continuo contatto diretto il lavoratore capiva che il rappresentante sindacale si interessava dei suoi problemi e cercava di risolverli. E’ stato un periodo molto bello, anche se faticoso. Arrivavano anche le mogli degli operai a chiedere se avevamo bisogno, se potevano fare qualcosa. A proposito di mogli, non posso non dire quanto fu importante la mia. Tre figli, un marito sempre assente, per lei non è certo stato facile. Le devo molta riconoscenza. Andavo, venivo, tornavo tardi, ma lei mi ha sempre capito e sostenuto. E’ stata una vita durissima. Quando si andava a fare gli scioperi magari si partiva alle quattro del mattino per arrivare al posto convenuto: allora avevamo una sola macchina e dovevamo utilizzarla per tutte le iniziative. 

L’impegno in Cisl 
Il mio percorso in Cisl passò negli anni attraverso tutta la trafila di rito. Al congresso provinciale della Fim Cisl del 1959 venni eletto nella segreteria provinciale dei metalmeccanici e nel 1964 passai alla segreteria della Cisl di Bergamo. Nel ’68 assunsi la carica di reggente dell’unione territoriale di Bergamo: Colleoni era stato eletto al Senato e le cariche politiche e sindacali erano incompatibili per la Cisl. 

Al congresso del 1969 venni ufficialmente chiamato a ricoprire la carica di segretario generale della Cisl di Bergamo. Nello stesso anno entrai nel consiglio confederale nazionale e del consiglio di amministrazione nazionale dello Ial, mentre a livello provinciale venni chiamato a far parte del Consiglio di amministrazione della Iacp e livello regionale entrai nel consiglio regionale Cisl e nel comitato regionale Inps per i ricorsi. 

Nel 1970 la Dalmine mi diede l’aspettativa sindacale. Tre anni dopo, al congresso fui confermato segretario generale della Cisl bergamasca. Ottenere una carica così importante, per un ex operaio che aveva interrotto gli studi dopo la quinta elementare, era sorprendente. Mi sono sempre considerato un semplice, anche un po’ inadeguato al ruolo. Basta pensare che presi il diploma di scuola media inferiore solo nel 1974. Da privatista. Mi accompagnò un dirigente del sindacato della scuola della Cisl: in un paese della provincia, alla tenera età di 48 anni, seduto tra i banchi con i ragazzini di tredici anni sostenni il mio esame. 

Segretario generale 
Quando venni eletto segretario generale, il lavoro cambiò ma fu altrettanto complesso. Quando Colleoni si dimise ero in segreteria, perché rappresentavo i metalmeccanici ed per di più ero in un’azienda importante come la Dalmine, ma non ero un leader. Non ero uno che poteva diventare segretario generale. Sarebbe stato meglio Calvi, se non si fosse ammalato proprio nel periodo in cui Colleoni se ne andò da Bergamo. In Cisl allora lavorava a pieno tempo un gruppo di giovani. Facevano le loro proposte e richieste all’allora segreteria e quando ci fu il vuoto di potere spinsero perché diventassi io segretario generale. Io cercai di oppormi, di fare resistenza. Non pensavo affatto di essere la persona più adatta. E infatti le difficoltà non mancarono. Arrivai in sede che sulla mia scrivania non c’era nemmeno un pezzo di carta, non sapevo da che parte cominciare. Poi arrivò Pagani e mi aiutò ad orientarmi. Lui era più astuto, più preparato, più forte. Io non ero mai stato il capo, anche nei metalmeccanici: ero in segreteria ma non ero il numero uno. Non fu affatto facile sostituire Colleoni alla segreteria generale. Non solo perché lui era una persona eccezionale, ma anche perché io, per carattere, faticavo a sentirmi all’altezza dell’incarico. Avevo davanti persone molto brave e capaci e dover prendere io decisioni di grande responsabilità mi mise più volte in difficoltà. Ero intimidito. Alcuni dirigenti poi erano contrari alla questione dell’incompatibilità e lasciavano intendere che ne avessi approfittato per prendere il posto di Colleoni. Ricordo ancora uno di questi big della Cisl bergamasca di allora, che appena uscito dalla sede fresco di nomina mi disse: <<Adesso vai a casa, studia un po’ la rivoluzione francese e vedrai come andrai a finire>>. Questo era il clima. Fortunatamente, in segreteria erano tutti giovani e insieme riuscimmo ad avviare una fase molto più democratica, aperta. Tutti collaboravamo, ci aiutavamo ad andare avanti. Non era facile per nessuno e in particolare per me la segreteria generale era una responsabilità notevole: io, operaio, abituato per anni nella commissione interna della Dalmine dove riuscivo a fare bene quello che si doveva fare, ero disorientato. 

Vivevo una continua lotta con me stesso. Le riunioni coi segretari erano il momento più delicato perché avevano tutti più esperienza di me in quel ruolo. Pur tra mille difficoltà e dubbi, però, sono riuscito a reggere in un periodo, dal ’68 al 76, tutt’altro che facile e molto delicato. Bisognava andare nelle scuole, parlare nelle aziende. Penso che in fondo il fatto che in segreteria vi fossero persone giovani, molto motivate, fu uno dei fattori che aiutò la Cisl bergamasca ad attraversare quegli anni e a rafforzarsi. 

Nel periodo della segreteria generale, infatti, abbiamo fatto cose egregie. Abbiamo anche creduto a quello che si diceva in quel periodo dell’unità sindacale, nonostante a livello regionale ci dicessero: <<Ma no, è una barzelletta, non si riesce>>. Invece noi, a Bergamo, abbiamo fatto anche i congressi di scioglimento delle categorie più importanti: metalmeccanici, tessili, edili. E nel ’74, a Dalmine, anche il congresso di scioglimento dell’Unione, per dimostrare con chiarezza la nostra intenzione di realizzare l’unità. Ma quando è arrivato il momento che Cgil e Uil facessero la loro parte è saltato tutto. Anche loro dovevano accettare di scioglierci e mettersi insieme, ma la Cgil era troppo legata al Partito comunista. 

Abbiamo fatto marcia indietro, ma è stato un peccato. Avevo fatto tutto il possibile, pensando seriamente che si potesse realizzare l’unità, anche se chi aveva vissuto in fabbrica le tensioni con Cgil e Uil sapeva che sarebbe stato difficile. 

Sul fronte dei problemi del territorio, la questione più importante di quegli anni fu la crisi del tessile. Erano il settore produttivo e la categoria più forte, i metalmeccanici venivano dopo. Ma le crisi più grosse nelle nostre valli coinvolsero le aziende tessili, solo apparentemente recuperate con l’abbigliamento che tempo due-tre anni è entrato in crisi. La situazione era più tranquilla con gli edili e i metalmeccanici. Avevamo buone aziende come la Magrini, la Dalmine, l’Italsider: con loro abbiamo fatto le vertenze più grosse, portando a casa anche risultati postivi. Erano anni delle grandi lotte, dei grandi problemi. Anche qui da noi si è sentito l’eco dei fatti di Milano e Brescia. Abbiamo partecipato alla lotta contro il terrorismo con manifestazioni pubbliche, forti. Bergamo veniva definita la “culla del vaticano”, ma avevamo personaggi di sinistra molto duri, radicali, pronti a far saltare in aria tutto. Ogni tanto accadevano episodi duri, di estremismo, sia di destra che di sinistra, e bisognava lottare coi denti e con le unghie per difendere la democrazia. Più volte abbiamo dovuto intervenire con durezza, chiamando i lavoratori a schierarsi contro. 

Ho avuto anche scontri forti con la confederazione, quand’ero segretario generale. Ad esempio sulla verticalizzazione: ero contrario, perché non lasciava spazio alle categorie più deboli e le penalizzava. Uno degli scontri più forti fu quando ci rifiutammo di fare uno sciopero per la siderurgia, ero nella segreteria dei metalmeccanici, perché avevamo già ottenuto i risultati voluti. Luigi Macario e Antonino Pagani arrivarono a Bergamo come due disperati, li ricordo bene. Io sostenevo che per noi la trattativa era conclusa, avevamo ottenuto risposte alle nostre richieste: perché scioperare ancora? Sarebbe stato difficile farlo capire ai lavoratori. <<Per solidarietà con gli altri>>, mi risposero. Un altro scontro forte, con Macario e Pagani, che poi ritrovai sui banchi del Senato, fu generato da uno sciopero che stavamo portando avanti da otto giorni. Questa volta arrivarono a Bergamo per calmarci, spiegandoci che mettevamo in difficoltà gli altri. Dovevamo mollare, accontentarci di quello era stato ottenuto a livello nazionale. Alla fine capitolammo, in nome dell’interesse generale. 

Senatore 
Riflettendoci, mi rendo conto che le mie grandi svolte di carriera sono avvenute sempre su proposta di altri. Anche il passaggio alla politica, nel ‘76. Insistettero perché mi candidassi al Senato. La Democrazia Cristiana aveva sempre avuto un parlamentare proveniente dal mondo del lavoro: per dare continuità a questa tradizione mi proposero la candidatura al Senato della Repubblica, collegio di Treviglio. Accettai su pressione di amici, anche sinceramente non mi sentivo all’altezza di un simile compito. Comunque, alle elezioni per la settima legislatura ottenni 88mila voti e venni eletto. Sapevo di contare sul sostegno elettorale di chi mi aveva proposto, ma essere eletto fu comunque una grande sorpresa. Chi avrebbe mai detto che io, ex operaio, sarei andato a Roma a fare il senatore? Io certo non lo avrei mai pensato. 

La Dalmine mi concesse l’aspettativa politica e fui eletto anche per l’ottava e nona legislatura. Durante l’esperienza parlamentare continuai a occuparmi di sociale e fui relatore di diverse proposte: dalla legge sulla piccola riforma dell’Inps a quella che istituì i prepensionamenti per le aziende in crisi, per la siderurgia, per i minatori e i frontalieri. Dal disegno di legge sulla riforma delle pensioni di invalidità (legge 222) alla riforma del collocamento, passando la nuova legge sulla formazione professionale e quella che istituisce l’indennità per i malati di tubercolosi. Durante l’attività parlamentare continuai ovviamente a occuparmi anche della Dalmine e cercai di intervenire, anche con interrogazioni parlamentari, in difesa della Spa, perché non le venissero affidate aziende in difficoltà produttive, per garantire la salvaguardia del patrimonio aziendale della società. In quegli anni degli incarichi in difesa della Dalmine conobbi Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, che in accordo con l’amministratore delegato delle acciaierie (Rag. Testa), nel 1988 mi inserì nel consiglio di amministrazione della Dalmine, dove rimasi fino al 1994. Poi seguirono altri incarichi, sempre per la Dalmine, in qualità di presidente onorario del comitato tecnico di orientamento per le strategie di comunicazione e formative, quindi consulente nei corsi per "Supporter" per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Furono grandi soddisfazioni, per un ex operaio come me. 

Nonostante la parentesi politica romana e l’impegno come consigliere comunale di Bergamo, la passione per l’impegno sindacale non si è mai affievolita. Dal 1997 infatti, sono presidente dell’Antea di Bergamo, l’associazione di volontariato per la terza età promossa dalla Fnp Cisl. E non ho alcuna voglia di “andare in pensione”.