martedì 5 maggio 2020

GIOVANNI LANDI - Om Iveco – Brescia

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Sono nato nel 1935, nella periferia della città, in una zona operaia. Sono entrato in fabbrica nel ’52 perché ci lavorava mio papà, che era un anziano uomo Fiat. Sono passato dalla scuola alla fabbrica, dopo le commerciali, e ci sono rimasto fino a quando sono andato in pensione nell’88, dopo 36 anni di lavoro. Durante la guerra ero un bambino e mi ricordo i bombardamenti sulla periferia industriale e la ferrovia. 

Sono entrato in Om come apprendista, ho frequentato per un anno i corsi interni della scuola Fiat e poi sono entrato in produzione. I primi due anni ho lavorato nell’area montaggio motori, poi, siccome mio papà lavorava nella manutenzione sono passato anch’io lì e ci sono stato per parecchi anni. Erano gli anni in cui la Fim si organizzava in azienda e l’impegno sindacale mi ha assorbito completamente.
Non ho mai fatto carriera e sono uscito come operaio di terzo livello.
Vivevo in una realtà di periferia rossa. Lì c’era tutto il contrasto tra i poveri di matrice comunista e di matrice cattolica. Io ero legato all’ambiente della parrocchia, dell’Azione cattolica. La mia sensibilità sociale è nata in quell’ambiente. L’impegno sindacale e l’impegno politico sono stati un po’ una conseguenza di questa condizione. Ho fatto l’esperienza delle Acli. In fabbrica lavorava il presidente delle Acli, Michele Capra, era un impiegato, che poi è diventato anche parlamentare ed era stato una grossa figura della resistenza bresciana. Le Acli allora contavano 30mila iscritti e avevano circoli un po’ ovunque. Ho incontrato Capra la prima volta quando sono stato eletto nella commissione interna, io ero un ragazzino e lui un uomo maturo, un autodidatta.
E’ stata un’esperienza che mi ha fatto crescere molto. Si faceva contrattazione ad un livello alto. Mensilmente c’era un incontro tra commissione interna e azienda a cui partecipava il direttore generale, l’ing. Beccaria, che poi è diventato il primo responsabile Iveco quando l’Om è confluita con Fiat e Spa nella nuova società che ha unito gli stabilimenti di Torino, Milano, Suzzara e Brescia.
L’incontro mensile avveniva sulla base di un ordine del giorno che si preparava unitariamente nell’ambito della commissione interna e poi c’era il confronto con l’azienda, a volte anche forte. Durante gli incontri l’ing. Beccaria ci poneva i problemi della concorrenza, del commercio e per me è stato un fattore di crescita. Questo avveniva verso la fine degli anni 50. In quel periodo, sotto la guida di Michele Capra, che era anche il leader culturale dei lavoratori cattolici in azienda, era maturata l’esigenza avere un sindacato provinciale un po’ più dinamico, aperto. In quell’occasione abbiamo conosciuto un funzionario, Franco Castrezzati, e insieme a lui siamo riusciti a rinnovare democraticamente la Fim bresciana. Ero giovane, ma Capra mi portava con sé e ho partecipato a tutti gli incontri, anche a quelli più riservati, nei quali si è costruito questo rinnovamento. Ho incontrato il professor Guido Baglioni, che era all’ufficio formazione. Noi avevamo un progetto: quello di rinnovare il sindacato dei metalmeccanici, perché dopo il ’48 si i dirigenti erano un po’ logorati, seduti e l’ambiente nelle fabbriche si era appesantito. Con l’anticomunismo certi imprenditori ne avevano approfittato. Noi avevamo percepito che c’era la voglia di cambiare. Capra aveva avuto fiuto, sapeva interpretare lo spirito del pastore.
Io ho trascorso i primi anni alla Om senza mai fare un’ora di sciopero. Avevo sentito quello che avevano fatto i lavoratori prima del 52, quando il momento della lotta era stato valorizzato, ma ora si viveva un clima pesante. Addirittura, le porte dei gabinetti avevano il buco per consentire alle guardie di controllare ogni attimo della vita in fabbrica. Spostarsi da un reparto all’altro era praticamente impossibile. Il clima era brutto. Allora ci siamo detti che l’anticomunismo andava interpretato correttamente. Sui valori nessun dubbio, ma nella concretezza del lavoro si doveva cambiare e abbiamo cambiato il sindacato. Queste scelte scandalizzarono un po’ l’ambiente cattolico, anche se alcune figure forti come il card. Bevilacqua, avendo cultura e ‘spalle larghe’, ci hanno permesso di non prendere dei fulmini, come in occasione delle battaglie contro il premio antisciopero. In quell’occasione qualcuno chiese l’intervento anche di papa Montini, bresciano, allora cardinale a Milano. Castrezzati, appena eletto, aveva quella freschezza e quella sensibilità che gli consentivano di mantenere rapporti con quei personaggi del mondo cattolico, figure che quando parlavano nessuno era in grado di contraddire.  
C’era anche la preoccupazione per i posti di lavoro, che la Fiat potesse reagire in malo modo alla nostra azione. L’ing. Beccaria ci diceva che ciò che facevamo a Brescia a Torino non veniva capito. “La è un altro mondo”.
Ma noi siamo andati avanti con grande coerenza. E’ stata una delle cose più belle che ho vissuto in quel periodo. Mi ricordo Castrezzati che aveva anche difficoltà economiche proprio per essere ligio alle proprie scelte. Allora i sindacalisti facevano fatica a mantenere la famiglia. La stessa cosa più in piccolo valeva anche per i lavoratori che si impegnavano in azienda. Io ero giovane e non ero sposato, ma c’erano amici con i figli che per fare certe lotte avevano i frigoriferi vuoti.
E’ stata bella la lotta contro il premio antisciopero, perché i contenuti e i valori erano tali che ne valeva la pena. Ma la Fiat ci diceva che quello strumento le serviva, perché doveva programmare il numero di macchine che dovevano essere prodotte. In quella situazione abbiamo sentito l’importanza del coordinamento sindacale di gruppo. Siamo andati a Torino, dove peraltro c’era il problema della scissione della Fim con l’uscita di Arrighi e dei quadri che erano passati con lui. Arrighi ha tentato di venire anche a Brescia, ma noi lo abbiamo contestato e non ha avuto successo. Alla Om avevamo una componente sindacale Fiom duttile, con quadri nuovi disposti a dare fiducia, anche a delegare in certi momenti. Il quadro comunista della Fiom certe volte sembrava stalinista ma conosceva il valore del mettersi insieme, del combattere la controparte e tra di noi c’era rispetto, ben conoscendo la forza della Fiat e cosa si doveva costruire insieme per contrastarla.
Questo voleva dire cambiare anche la Fim nazionale. In quel periodo avevamo conosciuto Pierre Carniti, un giovane sindacalista che faceva l’operatore a Monza, Castrezzati si muoveva bene anche a livello nazionale e così individuammo Luigi Macario come sostituto di Volontè. A Brescia abbiamo cambiato Lucchesi. Ero giovane, ma quel periodo di forti cambiamenti l’ho vissuto tutto direttamente e per me è stata una fortuna. Ho partecipato a tanti incontri. Sono entrato nel direttivo nazionale.
Grazie al nostro impegno in Om siamo diventati maggioranza, sia tra gli impiegati che tra gli operai. Avevamo tanti attivisti e bravi quadri, ma anche tanti iscritti.
Siamo così arrivati al periodo delle grandi lotte degli anni ‘60 e ‘70 alla Fiat. Un anno, nel ‘69, siamo andati cinque volte a manifestare a Torino. Io sono stato processato perché una di quelle mattine, alle 4, ho difeso un nostro attivista davanti ai cancelli dell’azienda. Si partiva la sera prima con il pullman, perché abbiamo capito che se non si fermava Mirafiori il contratto non si faceva. In quel periodo ho visto i primi movimenti degli studenti che erano lì sulle portinerie della Fiat. Erano lotte pesanti.
Quando sono entrato in fabbrica il nostro salario era mediamente del 30% superiore a quello dell’Enel o della Sip. Dopo tante battaglie i nostri erano i salari tra i più bassi dell’industria metalmeccanica. Però abbiamo fatto salti di qualità enormi dal punto di vista dei diritti. Un tempo le ore di permesso sindacale non erano retribuite e non si potevano fare assemblee in fabbrica: poi  siamo riusciti ad ottenere la prima assemblea e tutto il resto.

In quegli anni a Brescia il sindacato aveva un potere infinito: rapporto con la cultura, con le università, con gli studenti e in quel periodo è nata l'attenzione alle tematiche più generali. E io ho preso un po’ le distanze dalla segreteria provinciale della Fim. Eravamo d’accordo a livello organizzativo, sulla costruzione del sindacato unitario, la Flm, ma era il pansidacalismo che secondo me non era la soluzione giusta per la realtà italiana.
Io ero impegnato nella Dc, nella corrente che prima era stata di Pastore, Forze Nuove, e poi di Donat Cattin. Noi della Om abbiamo fatto eleggere Capra come parlamentare, aprendo anche una sottoscrizione tra i lavoratori. Nel paese Dc e Pci si scontravano ma in fabbrica comunisti e democristiani condividevano le stesse scelte. Il punto di sintesi per noi erano le Acli, e non il partito ma la corrente. Il riferimento era di tipo culturale e all’interno di un partito interclassista era motivato anche uno scontro forte. Ma tutto ciò non era vissuto come una contraddizione, ma come un percorso naturale.
La vicenda degli autoconvocati è emersa quando Carniti aveva spinto verso una forma di pansidacalismo esasperato e tra di noi ci siamo detti che questa linea a livello strategico non era una vincente. Noi avevamo bene in mente quale doveva essere il ruolo dei partiti. Per noi Aldo Moro e Donat Cattin rappresentavano il meglio della nostra parte, mentre nella sinistra c’era Enrico  Berlinguer. Si doveva tentare di mettere insieme queste due esperienze. Fuori da questa strada, per noi c’erano motivi di forte preoccupazione. Vivevamo una situazione difficile, con il terrorismo delle Brigate rosse. L’arrivo alla presidenza del consiglio di Bettino Craxi non ci è piaciuto e Carniti aveva fatto con lui l’accordo di San Valentino sull’abolizione del punto unico di contingenza.
Mi ricordo che ad un incontro nazionale della Cisl, Massacesi, allora dirigente Iri, dopo l’accordo sul punto unico di contingenza, disse: adesso che avete ottenuto tutto sulla parte economica, cosa andrete a chiedere? La risposta fu: noi faremo le riforme. Ma secondo me non toccava al sindacato fare le riforme. Il punto unico di contingenza era stata una scelta populista.
Nel nostro gruppo avevamo fatto delle riflessioni sulla spesa pubblica, dicevamo che il sindacato doveva affrontare i nodi della spesa: che doveva responsabilmente contribuire al suo controllo, ad esempio eliminando le pensioni baby.
Per noi la decisione del governo Craxi sulla contingenza è stato un gesto di arroganza. Nel consiglio di fabbrica ne abbiamo discusso e ci siamo detti che dovevano dare una risposta. Dopo di noi si sono mossi altri consigli di fabbrica è la vicenda ha acquistato una dimensione più ampia. Noi abbiamo cercato di metterci i contenuti, ma la vicenda è nata così, senza grandi piani. Sapevamo la complessità della situazione e che sarebbe stato difficile reggere a lungo. Noi ci siamo mossi anche contro il referendum, a nostro avviso un errore.
In quel periodo facevamo anche riflessioni sul processo di burocratizzazione del sindacato. La nostra tesi era che il sindacato bresciano, che era partito con Castrezzati, una segretaria e un operatore Cattabriga, si era appesantito. Abbiamo fatto anche esperimenti per portare gente al sindacato e poi farla rientrare in fabbrica con quattro o cinque quadri di qualità. Era una situazione difficile, ma era importante e molte cose come portare i volantini nelle fabbriche o gestire la contrattazione aziendale, i delegati le sapevano fare.
Con la Fim provinciale in quegli anni abbiamo avuti momenti di grande conflittualità presentando liste contrapposte al congresso di Manerbio del 1977, ma abbiamo sempre perso (ricorda sorridendo).

Nonostante la rottura tra le confederazioni dopo l’accordo di San Valentino e il referendum, alla Om i rapporti con la Fiom proseguirono positivamente. Bisogna tenere anche presente che abbiamo avuto piazza della Loggia, fatti traumatici che ci hanno unito. Inoltre, alla Om è passato un po’ il meglio della Fiom, stavano in azienda per alcuni anni e poi uscivano, per cui noi conoscevamo un po’ tutta la dirigenza nazionale. I rapporti erano cordiali.
Però abbiamo fatto anche grosse battaglie in contrasto con la Fiom. Quando c’è stato il grande scontro con la Fiat, che si è concluso con la marcia dei 40mila a Torino, e a Torino hanno bloccato i cancelli a lungo, c’era qualcuno che voleva che si facesse la stessa cosa anche a Brescia. Noi abbiamo scelto di fare non più di quattro ore di sciopero alla settimana. Una forma di lotta agile e che ci ha salvaguardati, mentre la Fiom spingeva inasprire gli scioperi. Sono stati scontri a non finire.

Avevamo dei rapporti culturali con alcune riviste dell’area cattolica - noi pubblicavamo Appunti – e prima che partisse la battaglia con la Fiat ci siamo detti che era utile andare a parlare con Prodi, che aveva costituito una commissione sull’automobile e di cui in una occasione avevo conosciuto la moglie. Così, prima di iniziare la vertenza siamo andati a trovarlo io, Gaffurini, Paletti e un altro. Lui ci disse: guardate che la Fiat sta lasciando la Spagna, dove ha abbandonato la Seat, è un momento in cui non ha bisogno di produrre, guardate che fate un buco nell’acqua.
Sulla scorta anche di queste considerazioni noi in Om abbiamo fatto uno scontro violento con la Fiom per evitare di fare l’errore che poi è stato fatto a Torino.

Anche mia moglie era impegnata sindacalmente, membro di commissione interna, i figli sono cresciuti e io quasi non me ne sono accorto, tutto era sulle spalle della moglie che però non me lo ha mai rinfacciato. Certo non mancano gli episodi: la sera io tornavo tardi e a letto tenevo la luce accesa per leggere. Una sera mi sono trovato sul letto un foglio con su scritto “sono stufa”. Mi sono sposato nel ’69, nel pieno delle battaglie sindacali.
Il giorno dell’attentato di Piazza della loggia ero alla manifestazione, nel mezzo della piazza. Sono seguiti momenti e giorni di grande tensione. Le famiglie a casa erano preoccupate, volevano sapere dove ci trovavamo, come stavamo. C’era gente che voleva andare a bruciare la sede del Movimento sociale. Seguirono grandi mobilitazioni.

Eravamo parte della cultura cattolico democratica, con molti collegamenti, con rapporti con il meglio di questa cultura. Facevamo ogni anno un importante convegno.

Per un po’ di anni dopo essere andato in pensione mi sono dedicato al lavoro con gli extracomunitari, ora faccio solo il nonno. Abbiamo creato i primi centri di accoglienza inizialmente con gli albanesi, poi con gli altri.               
Sono stato segretario del comitato cittadino della Dc a Brescia.
Sono profondamente preoccupato anche oggi per la burocratizzazione del sindacato.
I primi momenti di formazione li abbiamo fatti con Baglioni, un lavoro di formazione importante proposto dalla Cisl.