Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Sono nato nel 1935, nella periferia della città, in una zona operaia. Sono entrato in fabbrica nel ’52 perché ci lavorava mio papà, che era un anziano uomo Fiat. Sono passato dalla scuola alla fabbrica, dopo le commerciali, e ci sono rimasto fino a quando sono andato in pensione nell’88, dopo 36 anni di lavoro. Durante la guerra ero un bambino e mi ricordo i bombardamenti sulla periferia industriale e la ferrovia.
Sono entrato in Om come
apprendista, ho frequentato per un anno i corsi interni della scuola Fiat e poi
sono entrato in produzione. I primi due anni ho lavorato nell’area montaggio
motori, poi, siccome mio papà lavorava nella manutenzione sono passato anch’io
lì e ci sono stato per parecchi anni. Erano gli anni in cui la Fim si
organizzava in azienda e l’impegno sindacale mi ha assorbito completamente.
Non ho mai fatto carriera e
sono uscito come operaio di terzo livello.
Vivevo in una realtà di
periferia rossa. Lì c’era tutto il contrasto tra i poveri di matrice comunista
e di matrice cattolica. Io ero legato all’ambiente della parrocchia,
dell’Azione cattolica. La mia sensibilità sociale è nata in quell’ambiente.
L’impegno sindacale e l’impegno politico sono stati un po’ una conseguenza di
questa condizione. Ho fatto l’esperienza delle Acli. In fabbrica lavorava il
presidente delle Acli, Michele Capra, era un impiegato, che poi è diventato
anche parlamentare ed era stato una grossa figura della resistenza bresciana.
Le Acli allora contavano 30mila iscritti e avevano circoli un po’ ovunque. Ho
incontrato Capra la prima volta quando sono stato eletto nella commissione
interna, io ero un ragazzino e lui un uomo maturo, un autodidatta.
E’ stata un’esperienza che
mi ha fatto crescere molto. Si faceva contrattazione ad un livello alto.
Mensilmente c’era un incontro tra commissione interna e azienda a cui
partecipava il direttore generale, l’ing. Beccaria, che poi è diventato il
primo responsabile Iveco quando l’Om è confluita con Fiat e Spa nella nuova
società che ha unito gli stabilimenti di Torino, Milano, Suzzara e Brescia.
L’incontro mensile avveniva
sulla base di un ordine del giorno che si preparava unitariamente nell’ambito
della commissione interna e poi c’era il confronto con l’azienda, a volte anche
forte. Durante gli incontri l’ing. Beccaria ci poneva i problemi della concorrenza,
del commercio e per me è stato un fattore di crescita. Questo avveniva verso la
fine degli anni 50. In quel periodo, sotto la guida di Michele Capra, che era
anche il leader culturale dei lavoratori cattolici in azienda, era maturata
l’esigenza avere un sindacato provinciale un po’ più dinamico, aperto. In
quell’occasione abbiamo conosciuto un funzionario, Franco Castrezzati, e
insieme a lui siamo riusciti a rinnovare democraticamente la Fim bresciana. Ero
giovane, ma Capra mi portava con sé e ho partecipato a tutti gli incontri,
anche a quelli più riservati, nei quali si è costruito questo rinnovamento. Ho
incontrato il professor Guido Baglioni, che era all’ufficio formazione. Noi
avevamo un progetto: quello di rinnovare il sindacato dei metalmeccanici,
perché dopo il ’48 si i dirigenti erano un po’ logorati, seduti e l’ambiente
nelle fabbriche si era appesantito. Con l’anticomunismo certi imprenditori ne
avevano approfittato. Noi avevamo percepito che c’era la voglia di cambiare.
Capra aveva avuto fiuto, sapeva interpretare lo spirito del pastore.
Io ho trascorso i primi anni
alla Om senza mai fare un’ora di sciopero. Avevo sentito quello che avevano
fatto i lavoratori prima del 52, quando il momento della lotta era stato
valorizzato, ma ora si viveva un clima pesante. Addirittura, le porte dei
gabinetti avevano il buco per consentire alle guardie di controllare ogni
attimo della vita in fabbrica. Spostarsi da un reparto all’altro era
praticamente impossibile. Il clima era brutto. Allora ci siamo detti che
l’anticomunismo andava interpretato correttamente. Sui valori nessun dubbio, ma
nella concretezza del lavoro si doveva cambiare e abbiamo cambiato il
sindacato. Queste scelte scandalizzarono un po’ l’ambiente cattolico, anche se
alcune figure forti come il card. Bevilacqua, avendo cultura e ‘spalle larghe’,
ci hanno permesso di non prendere dei fulmini, come in occasione delle
battaglie contro il premio antisciopero. In quell’occasione qualcuno chiese
l’intervento anche di papa Montini, bresciano, allora cardinale a Milano.
Castrezzati, appena eletto, aveva quella freschezza e quella sensibilità che
gli consentivano di mantenere rapporti con quei personaggi del mondo cattolico,
figure che quando parlavano nessuno era in grado di contraddire.
C’era anche la
preoccupazione per i posti di lavoro, che la Fiat potesse reagire in malo modo
alla nostra azione. L’ing. Beccaria ci diceva che ciò che facevamo a Brescia a
Torino non veniva capito. “La è un altro mondo”.
Ma noi siamo andati avanti
con grande coerenza. E’ stata una delle cose più belle che ho vissuto in quel
periodo. Mi ricordo Castrezzati che aveva anche difficoltà economiche proprio
per essere ligio alle proprie scelte. Allora i sindacalisti facevano fatica a
mantenere la famiglia. La stessa cosa più in piccolo valeva anche per i
lavoratori che si impegnavano in azienda. Io ero giovane e non ero sposato, ma
c’erano amici con i figli che per fare certe lotte avevano i frigoriferi vuoti.
E’ stata bella la lotta
contro il premio antisciopero, perché i contenuti e i valori erano tali che ne
valeva la pena. Ma la Fiat ci diceva che quello strumento le serviva, perché
doveva programmare il numero di macchine che dovevano essere prodotte. In
quella situazione abbiamo sentito l’importanza del coordinamento sindacale di
gruppo. Siamo andati a Torino, dove peraltro c’era il problema della scissione
della Fim con l’uscita di Arrighi e dei quadri che erano passati con lui.
Arrighi ha tentato di venire anche a Brescia, ma noi lo abbiamo contestato e
non ha avuto successo. Alla Om avevamo una componente sindacale Fiom duttile,
con quadri nuovi disposti a dare fiducia, anche a delegare in certi momenti. Il
quadro comunista della Fiom certe volte sembrava stalinista ma conosceva il
valore del mettersi insieme, del combattere la controparte e tra di noi c’era
rispetto, ben conoscendo la forza della Fiat e cosa si doveva costruire insieme
per contrastarla.
Questo voleva dire cambiare
anche la Fim nazionale. In quel periodo avevamo conosciuto Pierre Carniti, un
giovane sindacalista che faceva l’operatore a Monza, Castrezzati si muoveva
bene anche a livello nazionale e così individuammo Luigi Macario come sostituto
di Volontè. A Brescia abbiamo cambiato Lucchesi. Ero giovane, ma quel periodo
di forti cambiamenti l’ho vissuto tutto direttamente e per me è stata una
fortuna. Ho partecipato a tanti incontri. Sono entrato nel direttivo nazionale.
Grazie al nostro impegno in
Om siamo diventati maggioranza, sia tra gli impiegati che tra gli operai.
Avevamo tanti attivisti e bravi quadri, ma anche tanti iscritti.
Siamo così arrivati al
periodo delle grandi lotte degli anni ‘60 e ‘70 alla Fiat. Un anno, nel ‘69,
siamo andati cinque volte a manifestare a Torino. Io sono stato processato
perché una di quelle mattine, alle 4, ho difeso un nostro attivista davanti ai
cancelli dell’azienda. Si partiva la sera prima con il pullman, perché abbiamo
capito che se non si fermava Mirafiori il contratto non si faceva. In quel
periodo ho visto i primi movimenti degli studenti che erano lì sulle portinerie
della Fiat. Erano lotte pesanti.
Quando sono entrato in
fabbrica il nostro salario era mediamente del 30% superiore a quello dell’Enel
o della Sip. Dopo tante battaglie i nostri erano i salari tra i più bassi
dell’industria metalmeccanica. Però abbiamo fatto salti di qualità enormi dal
punto di vista dei diritti. Un tempo le ore di permesso sindacale non erano
retribuite e non si potevano fare assemblee in fabbrica: poi siamo riusciti ad ottenere la prima assemblea
e tutto il resto.
In quegli anni a Brescia il
sindacato aveva un potere infinito: rapporto con la cultura, con le università,
con gli studenti e in quel periodo è nata l'attenzione alle tematiche più
generali. E io ho preso un po’ le distanze dalla segreteria provinciale della Fim.
Eravamo d’accordo a livello organizzativo, sulla costruzione del sindacato
unitario, la Flm, ma era il pansidacalismo che secondo me non era la soluzione
giusta per la realtà italiana.
Io ero impegnato nella Dc,
nella corrente che prima era stata di Pastore, Forze Nuove, e poi di Donat
Cattin. Noi della Om abbiamo fatto eleggere Capra come parlamentare, aprendo
anche una sottoscrizione tra i lavoratori. Nel paese Dc e Pci si scontravano ma
in fabbrica comunisti e democristiani condividevano le stesse scelte. Il punto
di sintesi per noi erano le Acli, e non il partito ma la corrente. Il
riferimento era di tipo culturale e all’interno di un partito interclassista
era motivato anche uno scontro forte. Ma tutto ciò non era vissuto come una
contraddizione, ma come un percorso naturale.
La vicenda degli
autoconvocati è emersa quando Carniti aveva spinto verso una forma di
pansidacalismo esasperato e tra di noi ci siamo detti che questa linea a
livello strategico non era una vincente. Noi avevamo bene in mente quale doveva
essere il ruolo dei partiti. Per noi Aldo Moro e Donat Cattin rappresentavano
il meglio della nostra parte, mentre nella sinistra c’era Enrico Berlinguer. Si doveva tentare di mettere
insieme queste due esperienze. Fuori da questa strada, per noi c’erano motivi
di forte preoccupazione. Vivevamo una situazione difficile, con il terrorismo
delle Brigate rosse. L’arrivo alla presidenza del consiglio di Bettino Craxi
non ci è piaciuto e Carniti aveva fatto con lui l’accordo di San Valentino
sull’abolizione del punto unico di contingenza.
Mi ricordo che ad un
incontro nazionale della Cisl, Massacesi, allora dirigente Iri, dopo l’accordo
sul punto unico di contingenza, disse: adesso che avete ottenuto tutto sulla
parte economica, cosa andrete a chiedere? La risposta fu: noi faremo le
riforme. Ma secondo me non toccava al sindacato fare le riforme. Il punto unico
di contingenza era stata una scelta populista.
Nel nostro gruppo avevamo
fatto delle riflessioni sulla spesa pubblica, dicevamo che il sindacato doveva
affrontare i nodi della spesa: che doveva responsabilmente contribuire al suo
controllo, ad esempio eliminando le pensioni baby.
Per noi la decisione del
governo Craxi sulla contingenza è stato un gesto di arroganza. Nel consiglio di
fabbrica ne abbiamo discusso e ci siamo detti che dovevano dare una risposta.
Dopo di noi si sono mossi altri consigli di fabbrica è la vicenda ha acquistato
una dimensione più ampia. Noi abbiamo cercato di metterci i contenuti, ma la
vicenda è nata così, senza grandi piani. Sapevamo la complessità della
situazione e che sarebbe stato difficile reggere a lungo. Noi ci siamo mossi
anche contro il referendum, a nostro avviso un errore.
In quel periodo facevamo
anche riflessioni sul processo di burocratizzazione del sindacato. La nostra
tesi era che il sindacato bresciano, che era partito con Castrezzati, una
segretaria e un operatore Cattabriga, si era appesantito. Abbiamo fatto anche
esperimenti per portare gente al sindacato e poi farla rientrare in fabbrica
con quattro o cinque quadri di qualità. Era una situazione difficile, ma era
importante e molte cose come portare i volantini nelle fabbriche o gestire la
contrattazione aziendale, i delegati le sapevano fare.
Con la Fim provinciale in
quegli anni abbiamo avuti momenti di grande conflittualità presentando liste
contrapposte al congresso di Manerbio del 1977, ma abbiamo sempre perso
(ricorda sorridendo).
Nonostante la rottura tra le
confederazioni dopo l’accordo di San Valentino e il referendum, alla Om i
rapporti con la Fiom proseguirono positivamente. Bisogna tenere anche presente
che abbiamo avuto piazza della Loggia, fatti traumatici che ci hanno unito.
Inoltre, alla Om è passato un po’ il meglio della Fiom, stavano in azienda per
alcuni anni e poi uscivano, per cui noi conoscevamo un po’ tutta la dirigenza
nazionale. I rapporti erano cordiali.
Però abbiamo fatto anche
grosse battaglie in contrasto con la Fiom. Quando c’è stato il grande scontro
con la Fiat, che si è concluso con la marcia dei 40mila a Torino, e a Torino
hanno bloccato i cancelli a lungo, c’era qualcuno che voleva che si facesse la
stessa cosa anche a Brescia. Noi abbiamo scelto di fare non più di quattro ore
di sciopero alla settimana. Una forma di lotta agile e che ci ha salvaguardati,
mentre la Fiom spingeva inasprire gli scioperi. Sono stati scontri a non
finire.
Avevamo dei rapporti
culturali con alcune riviste dell’area cattolica - noi pubblicavamo Appunti – e
prima che partisse la battaglia con la Fiat ci siamo detti che era utile andare
a parlare con Prodi, che aveva costituito una commissione sull’automobile e di
cui in una occasione avevo conosciuto la moglie. Così, prima di iniziare la
vertenza siamo andati a trovarlo io, Gaffurini, Paletti e un altro. Lui ci
disse: guardate che la Fiat sta lasciando la Spagna, dove ha abbandonato la
Seat, è un momento in cui non ha bisogno di produrre, guardate che fate un buco
nell’acqua.
Sulla scorta anche di queste
considerazioni noi in Om abbiamo fatto uno scontro violento con la Fiom per
evitare di fare l’errore che poi è stato fatto a Torino.
Anche mia moglie era
impegnata sindacalmente, membro di commissione interna, i figli sono cresciuti
e io quasi non me ne sono accorto, tutto era sulle spalle della moglie che però
non me lo ha mai rinfacciato. Certo non mancano gli episodi: la sera io tornavo
tardi e a letto tenevo la luce accesa per leggere. Una sera mi sono trovato sul
letto un foglio con su scritto “sono stufa”. Mi sono sposato nel ’69, nel pieno
delle battaglie sindacali.
Il giorno dell’attentato di
Piazza della loggia ero alla manifestazione, nel mezzo della piazza. Sono
seguiti momenti e giorni di grande tensione. Le famiglie a casa erano
preoccupate, volevano sapere dove ci trovavamo, come stavamo. C’era gente che
voleva andare a bruciare la sede del Movimento sociale. Seguirono grandi
mobilitazioni.
Eravamo parte della cultura
cattolico democratica, con molti collegamenti, con rapporti con il meglio di
questa cultura. Facevamo ogni anno un importante convegno.
Per un po’ di anni dopo essere
andato in pensione mi sono dedicato al lavoro con gli extracomunitari, ora
faccio solo il nonno. Abbiamo creato i primi centri di accoglienza inizialmente
con gli albanesi, poi con gli altri.
Sono stato segretario del
comitato cittadino della Dc a Brescia.
Sono profondamente
preoccupato anche oggi per la burocratizzazione del sindacato.
I primi momenti di
formazione li abbiamo fatti con Baglioni, un lavoro di formazione importante
proposto dalla Cisl.