martedì 19 maggio 2020

CLAUDIO DE ALBERTIS - Presidente Assimpredil-Ance - Milano

Intervista realizzata in occasione della pubblicazione del libro “Angeli senza ali. Morti bianche e sicurezza sul lavoro. Il caso Lombardia”, a cura di Costantino Corbari e Angelico Corti, Edizioni Lavoro, Roma, 2008 

Concorrenza sfrenata 
Contrastare il lavoro nero, aumentare i controlli e la sorveglianza nei cantieri, per diffondere maggiormente la pratica della prevenzione e il rispetto delle norme, valorizzare le imprese che investono in prevenzione e sicurezza sono gli obiettivi per il futuro che si è data Assimprendil-Ance, associazione che rappresenta circa 7 mila imprese edili delle province di Milano, Lodi, Monza e Brianza. Li ha ricordati ai suoi associati, in occasione dell’assemblea annuale del 29 ottobre 2007, lo stesso Claudio De Albertis, presidente di Assimpredil-Ance dal 2006. Cinquantasette anni, milanese, De Albertis dal ’90 è presente nel mondo associativo sia nazionale che locale, con incarichi che vanno dalla presidenza del Centredil-Ance Lombardia alla presidenza dell’Ance nazionale. In parallelo continua ad occuparsi dell’azienda di famiglia, la Borio Mangiarotti, specializzata nella promozione e nella costruzione immobiliare, una delle prime società del settore ad ottenere la certificazione di qualità. 

Presidente, nonostante alcuni lievi segnali di miglioramento, l’edilizia continua a pagare il prezzo più alto, perché? 
Il primo dato da considerare è che il nostro lavoro è indubbiamente molto rischioso. Si svolge in condizioni molto difficili: all’aria aperta, spesso in altezza, o addirittura sotto terra, negli scavi. Questo è il vero motivo per cui lavorare in edilizia, in cantiere è diverso che lavorare in uno stabilimento. Il nostro settore, con l’agricoltura, è il più a rischio proprio per le condizioni oggettive in cui si opera. 
Il secondo dato è che proprio in virtù di questo, storicamente, qui a Milano da più di cent’anni le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni sindacali hanno creato gli enti paritetici, tra cui quello sulla sicurezza, sulla formazione, che spingono molto per cercare di ridurre questo fenomeno. Tant’è vero che in quest’area geografica i successi si sono avuti. Se guardiamo al tasso di irregolarità, contributiva e quant’altro, un fattore che molto può incidere sul numero degli infortuni, vediamo che nelle costruzioni in Lombardia è molto più basso che altrove. E senz’altro più basso che la media del settore manifatturiero. Inoltre, se parliamo di infortuni in edilizia dobbiamo ricordare che i dati Inail del 2006 registrano una sensibile diminuzione, pari al 14%, nonostante siamo in una fase di aumento dell’occupazione e della produttività. 
Detto questo, gli incidenti sono comunque sempre troppi e uno dei problemi è che i sistemi associativi come il nostro tentano di fare formazione, prevenzione, ad una serie di imprese che sono ancora un numero limitato rispetto alla grandissima platea del settore. In Italia ci sono 620 mila imprese edili iscritte alle Camere di commercio, di cui 200 mila sono società di capitali. Un numero spropositato, non c’è paragone tra la domanda e l’offerta. Nella maggior parte dei casi, poi, le aziende del nostro settore sono microbi, siamo un settore prevalentemente artigiano. E tutta questa pletora di imprese piccolissime, poco possono fare strutturalmente per quanto riguarda la for­mazione, la cultura della sicurezza e la prevenzione. Questo è un dato di fatto. Per cui lo sforzo che si deve fare è veramente colossale, immane. Non c’è dubbio, però, che se ci sono dei risultati, questa è la strada su cui continuare. 

Quanto investono le aziende in prevenzione degli infortuni? 
Non possiamo sapere quanto ogni singola azienda investe per la sicurezza e la prevenzione, possiamo dire quanto investe il sistema. E investe molto. In base agli ultimi dati rilevati, nel 2005-06 il costo a carico delle imprese per la formazione alla sicurezza relativo, come contributo, al costo dei corsi e retribuzione per le ore di frequenza, è stato pari a circa 1 milione e mezzo di euro. Sono risorse del sistema che vengono destinate ai vari organismi che si occupano di formazione, strettamente legata al problema sicurezza, e di controlli. A questi si associano gli impegni che molte aziende fanno sul piano della promozione della prevenzione. 

I sindacati lamentano però che si fa poca formazione d’ingresso... 
C’è un obbligo di formazione per i nuovi assunti, un numero di ore che vanno fatte. 

Sì, ma ci sono controlli che quest'obbligo venga rispettato? 
I controlli è difficile farli. Comunque dai nostri dati risulta che tra il 1998 e il 2006 ben 1.456 operai e 158 tecnici hanno partecipato agli incontri informativi obbligatori sulla sicurezza della durata minima di due giornate. Il problema è che il mercato non può sopportare 620 mila aziende. C’è una frammentazione del sistema enorme, molte sono società unipersonali. E siccome andremo verso momenti non così favorevoli come sono stati questi ultimi nove anni, i problemi si moltiplicheranno e la competizione diventerà addirittura folle. 
Nonostante questo, tutti cerchiamo di spingere al massimo sulla strada della formazione e della prevenzione e se dei risultati ci sono vuol dire che in fondo ci si arriva anche attraverso l’impegno delle piccole aziende. L’Inail parla di una riduzione del 16% degli infortuni mortali nel 2006, non è uno scherzo. 
Non dimentichiamo però che nel cumulo degli incidenti mortali vengono calcolati dall’Inail anche gli incidenti in itinere, che in altri settori, come l’industria meccanica, non ci sono. Questo è un bene, perché vuol dire che si attiva la copertura assicurativa, ma vuol dire anche che la percentuale di infortuni cresce moltissimo. Un dato da addebitare alle strade o ai cantieri? È una delle cose che mi fa arrabbiare moltissimo. 

In questo universo di microimprese, quanto pesa la concorrenza in termini di insicurezza? 
Il dramma è che la fortissima concorrenza del settore si traduce nella ricerca del prezzo più basso da parte del committente, pubblico o privato che sia. Non c’è la consapevolezza che a un tal prezzo si ha un tal prodotto, a fronte di prestazioni e tempi conseguenti. La capacità dell’impresa, a quel dato prezzo, di dare prestazioni e di garantire i tempi e le condizioni di lavoro ottimali, paradossalmente sembra passare in second’ordine. Sia nel pubblico che nel privato. 
Questo è ancora più paradossale oggi, che con le ultime leggi c’è una responsabilità solidale di committente, appaltatore e subappaltatore. E anche se molti puntano il dito sul mondo degli appalti pubblici, nel mondo privato è quasi peggio. Sono pochi i committenti che hanno la consapevolezza di dover analizzare una serie di questioni nel valutare un lavoro. E questo obiettivo si può raggiungere se si diffonde la cultura della sicurezza e delle responsabilità, ma anche una maggiore cultura del prodotto inteso in senso lato. 

Troppa concorrenza, secondo alcuni è anche colpa del fatto che è troppo facile diventare impresa, lei cosa ne pensa? 
È vero. Credo che per fare certi lavori che implicano grandi responsabilità sarebbe importante avere una sorta di patentino e di verifica. Però, nel momento in cui ci sono 620 mila imprese, i buoi sono già scappati dal recinto. 

Che fare, allora? 
Alcuni hanno proposto di fissare per legge un anno zero, dal 1° gennaio 2008, e da quel momento ammettere solo imprese che abbiano una sorta di «patentino». Non sono d’accordo. O abbiamo il coraggio di dire «Da domani si verificano i requisiti, in ragione della complessità del lavoro, dell’organizzazione della patrimonializzazione, management, della professionalità, dei corsi di formazione, dell’adesione alle strutture paritetiche associative», e quindi passo all’esame tutte le imprese per selezionarle, oppure non si va da nessuna parte. 
Il problema è che tutte le volte che ci siamo confrontati con le altre associazioni non siamo mai riusciti ad arrivare a una proposta condivisa. È molto difficile, perché l’ambizione del piccolo è di fare i lavori del medio o del grande. E l’ambizione del grande è restringere il mercato dei piccoli. Per quanto mi riguarda, poi, sono concettualmente alieno agli albi. Eventualmente si può considerare l’opzione delle adesioni volontarie, però con parametri che rispettano l’autonomia dell’organizzazione, dei fattori della produzione. 

Quanto può aiutare a disciplinare il settore il fatto che il Documento unico di regolarità contributiva sia stato esteso a tutti? Pare che pochi committenti lo chiedano... 
No, non è vero. Il documento unico viene chiesto da tutti, perché negli appalti pubblici è d’obbligo. E negli appalti privati, all’atto del ritiro della concessione edilizia devo dire quali sono le imprese che presentano il documento unico. 
Il punto è che il documento unico di regolarità contributiva, che certo ha contribuito a ridurre il tasso di illegalità, ha sostanzialmente fatto emergere la cosiddetta «fascia grigia»; quei lavoratori che pagavano solo una quota di contributi. Perché se io voglio far lavorare dei lavoratori in nero, Durc o non Durc, si sfugge a questa logica. Tanto che alcuni anni fa si era pensato, e oggi se ne riparla, di abbinare al Dure il concetto della congruità: andare a verificare che a fronte di un dato lavoro la somma dei contributi e degli stipendi sia adeguato o raggiunga un certa soglia o livello in percentuale. 
La strada è questa, ma dev’essere regolamentata molto bene, per capire che cosa succede se uno non raggiunge, per esempio, questa soglia: si può mettere a posto? Può fare il ravvedimento operoso? E se è un’impresa regolare? Rimane comunque il fatto che anche questa soluzione non esclude del tut­to che ci siano lavoratori in nero. 

Cos’avete fatto, come associazione, per promuovere il tema della sicurezza? 
Oltre alle campagne di informazione, siamo impegnati sul campo attraverso l’Ente scuola edile milanese (Esem), il Comitato paritetico territoriale per la prevenzione degli infortuni, l’igiene e l’ambiente di lavoro in edilizia (Cpt), la cassa edile, che lavorano su questi temi e organizzano iniziative serrate. Noi, poi, sul piano dell’informazione, della cultura della sicurezza spendiamo tantissimo. 
Le campagne danno ritorni di immagine, ma quello che contano sono i convegni e tutto il lavoro informativo presso le imprese. Inoltre credo che la cultura della sicurezza vada radicata in tutti fin da quando si è bambini, ragazzi. E quindi se si volesse spendere di più in cultura della sicurezza, soprattutto in edilizia, bisognerebbe farlo nelle scuole. Anche noi su questo stiamo portando avanti qualche ragionamento. 

Com’è il rapporto con le organizzazioni sindacali? 
Il rapporto è buono, non abbiamo avuto mai grande conflittualità. Da decenni ormai siamo entrambi negli organismi bilaterali, siamo diventati un modello. E anche se non sempre gli sforzi vanno a buon fine, direi che il rapporto è sufficientemente virtuoso. Abbiamo sempre lavorato e discusso all’insegna del rispetto dei reciproci ruoli. E questo è molto importante. 

Oltre il 50% dei lavoratori in edilizia, ormai, è costituito da stranieri. Questo pone problemi particolari per le attività di prevenzione? 
Purtroppo pone problemi colossali, per la prevenzione degli infortuni. Prima di tutto dal punto di vista della lingua. Basta pensare che ormai le organizzazioni paritetiche distribuiscono regolarmente a tutti pubblicazioni sulla sicurezza multilingue. Quando gli operatori del Cpt, o anche del nostro comitato interno, si recano nei cantieri, tengono corsi e lezioni utilizzando materiale visivo o scritto bilingue. In generale, nei cantieri, il fatto di avere oltre la metà di lavoratori stranieri pone grandi problemi di comunicazione, di linguaggio. Inoltre molto spesso riscontriamo grandi differenze anche nel modo di lavorare: alcuni sono eccezionali, altri non hanno nessuna intenzione di lavorare, di stare attenti, e spesso sono un pericolo, per loro e per gli altri. Siamo di fronte a un problema enorme, tant’è vero che gli sforzi si stanno raddoppiando, da parte di tutti. 

Come imprenditore, come vive il problema della sicurezza? 
Senza esagerare, ogni sera ringrazio il cielo di essere ancora vivo. Non è un caso se molti dei figli degli imprenditori edili non fanno il mestiere dei padri. Le responsabilità oggi sono incredibili, le norme sono complesse, le carte sono cumuli. E spesso la mattina ci si chiede: ma come faccio a riempire tutte le carte, stare attento a interpretare tutte quelle norme e poi nella pratica assolvere consapevolmente tutti i compiti e tutte quelle responsabilità? 

Anche lei dunque ritiene che le nuove normative siano un impaccio per le aziende? 
Soprattutto nell’ultimo periodo sono state approvate leggi che portano sanzioni sia amministrative che penali eccessive. Come minimo ormai si paga più di 250 euro che vanno fino a 250 mila euro. Cifre spaventose, spropositate per le aziende. Devono essere commisurate alla realtà produttiva, se no non hanno senso. Allora si dica che le chiudiamo tout-court. 

I controlli ci sono? 
Sì, ma siccome i controllori sono molto pochi, si concentrano sui cantieri più rilevanti e la marea di piccoli finisce per non essere assoggettata a controlli. È inevitabile che sia così, anch’io farei lo stesso perché è un problema di economia di scala. 

Non crede che in quest’ottica, anche il ricorso ai subappalti andrebbe frenato? 
Io sono tra quelli che pensano che il subappalto non sia un male in se stesso, è un modello organizzativo come un altro. Il vero problema qual è? Il rispetto delle regole. Io devo subappaltare lavorazioni a imprese reali, che facciano quel lavoro con .ina propria autonoma organizzazione. 
Trovo assurde le leggi nell’ambito dei lavori pubblici che vogliono vincolare le imprese a una percentuale di subappalto. Era il 30%, si parla di portarlo al 50%. Ma che senso ha 30 o 50? Il problema è un altro. Se il subappalto è veritiero, io devo poter subappaltare, nel rispetto delle regole. Mi si applichi il concetto della congruenza, che insieme al Durc della regolarità contributiva mi dà il quadro della mia azienda. E mi si chieda di rispondere per tutto quello che devo. Ma le norme non devono andare a influire sulla mia capacità di regolare i fattori della produzione. 

L’obiettivo «tasso infortuni zero» è raggiungibile? 
Possiamo fare ancora moltissimo e certamente tutti gli sforzi devono essere rivolti a quell’obiettivo, ma è un’utopia. Certo bisogna tentare, lottare, il numero dei morti sul lavoro ha raggiunto proporzioni mostruose. Se ottenessimo anche una riduzione del 2-3-4-5% l’anno avremmo risultati clamorosi. Ma dire «Da domani mattina tasso infortuni zero» no, non è credibile.