Sono nato il 16 luglio 1942 a Desio. Dopo le tre
commerciali sono andato a lavorare, ma più avanti ho ripreso a studiare e mi
sono diplomato ragioniere al Carlo Cattaneo di Milano serale. Il papà era un
brianzolo e la madre di Paderno Dugnano, il papà era un falegname e la mamma lavorava
come tappezziere, erano legati al mondo del mobile perché nella nostra zona erano
tutti occupati nel settore.
Erano tre i mestieri della Brianza: il sacerdote,
il falegname, il contadino. La famiglia era cattolica e il nonno è stato un
fondatore delle leghe bianche e della Cooperativa agricola di consumo nel 1913,
socio numero tre- E’ morto in combattimento nella prima guerra mondiale il 31
marzo 1917. La funzione della Chiesa nella creazione delle cooperative di
consumo è stata fondamentale, sempre i parroci hanno guidato la gente ad
autopromuoversi. Le cooperative nascevano per i mezzi agricoli e per il
sostentamento fra i soci.
Ho iniziato a lavorare molto giovane come garzone di
un panettiere durante l'estate, poi ho fatto il panettiere per un paio d'anni. Ho
imparato subito, ma i miei compagni di lavoro mi hanno detto che siccome ero
diventato troppo bravo avrei dovuto cercarmi un altro posto. Allora, infatti,
oltre alla paga base veniva corrisposta una somma a quintalato di pane
prodotto, una sorta di cottimo ma con un tetto fisso, per cui se io producevo
di più toglievo una parte di paga a loro. Lasciato il panificio sono andato in
fabbrica a fare il falegname, il lavoro che ho amato di più, all'Arredamenti
Borsani, come prima di me mia nonna, mia mamma e mio fratello. L’azienda
diventerà Tecno Borsani, leader nel campo dell'arredamento. Ero un ebanista
addetto alla costruzione dei mobili bar basculanti che avevano sul frontale i
quadri di Fontana. Mi ricordo bene Lucio Fontana che veniva in azienda a
ritagliare le immagini da inserire nel mobile. Mi piaceva moltissimo fare il
falegname e ancora oggi lavoro il legno.
Lì, dopo il servizio militare, ho iniziato ad
organizzare il sindacato. Fino a quel momento in quell'azienda nessuno aveva mai
fatto sciopero. Quando me ne sono andato "sia ringraziato Dio"
dissero. Il mio impegno dava fastidio, anche se mi rispettavano, e dava
fastidio anche il mio andare a scuola. Facevo nove ore in fabbrica, poi
prendevo il treno e scendevo in piazza Cadorna e andavo in piazza Vetra a piedi
per risparmiare i soldi del tram. Tornavo a casa all'una di notte. La scuola
era impegnativa e non regalava nulla. C'erano i primi movimenti studenteschi e
anche nelle scuole serali si erano costituite l'Associazione nazionale studenti
serali di sinistra e l'Associazione italiana lavoratori studenti un po' più di
centro moderato, però dal punto di vista dei risultati dello studio l'impegno
richiesto era sempre massimo.
Ho lavorato in quell'azienda fino al novembre del
1968, quando sono uscito per sei mesi in sperimentazione al sindacato a
Seregno, in Brianza. Devo dire che è andata subito bene. Ho trovato la zona con
poco più di duecento iscritti e l'ho lasciata con duemila. A conclusione di
questa prima esperienza non volevo rimanere al sindacato, ma rientrare in
azienda, e invece i segretari di allora: Filippazzi, Pelacchini, Sandro
Pastore, Mario Colombo, mi hanno convinto a restare. Ho frequentato il corso
lungo a Firenze. Nel 1972 ho lasciato Seregno e sono entrato in segreteria
provinciale dove mi sono occupato del settore del legno. Allora la categoria
era divisa in due: legno ed edili, poi ci fu l’unificazione e nacque la Filca. Prima
il sindacato del legno si chiamava Fullav. Al settore del legno erano collegati
molto altri contratti collaterali come misure lineari, penne e pennini,
spazzole e pennelli, discografici. E’ stata un'esperienza interessante, una
grande scuola sindacale perché il contratto nazionale di questi settori, che
erano piccolissimi, veniva fatto in Confindustria a Milano, in via Brisa.
Nell'ambito dell'edilizia c'erano poi i contratti dei lapidei, delle cave e
anche questi si discutevano a Milano. Da Roma non si muovevano per questi
piccoli settori e lasciavano a noi la trattativa e così ho avuto l'occasione di
imparare molto del lavoro sindacale. Nel 1977 sono diventato segretario
generale della Filca di Milano fino al 1979. Nel ‘79 sono entrato nella
segreteria regionale della Filca e sono diventato segretario generale fino al
1988. Quell'anno si sono presentati due casi: il primo era la richiesta di
Franco Marini di andare a Roma insieme a Raffaele Bonanni, il quale mi disse
che ci sarebbe andato se fossi andato anch’io, ma io avevo dei problemi con i
miei genitori anziani e sono rimasto a Milano. Allora mi proposero di entrare
nella segreteria regionale della Cisl. Il mio passaggio probabilmente è stato
un record. La decisione è avvenuta all'hotel Nasco, alle due di notte, alla
presenza di Franco Marini. La mattina successiva ero a Pavia per partecipare ad
una riunione della Filca, mi ha chiamato Zaverio Pagani per annunciarmi l’indicazione
che arrivava dal segretario generale della Cisl e nel giro di una settimana è
stato convocato il consiglio generale e sono stato eletto nella segreteria
della Cisl lombarda. Segretario generale in quel momento era Sandro Antoniazzi
e io ho seguito il settore organizzativo fino al luglio 1993. Potevo contare su
due validissimi collaboratori come Cornelio Fontana e Carlo Bramati e abbiamo
fatto compiere all'organizzazione un bel salto di qualità, anche grazie a un
forte impegno formativo, con l'obiettivo di far superare gli steccati che
esistevano tra territorio e territorio, tra categoria e categoria.
In quegli anni ho avuto la ventura di scontrarmi con
la mia categoria di provenienza e non fu uno scontro facile, infatti fui
deferito ai probiviri confederali perché sostenevo l'intangibilità della
confederalità, cioè ritenevo che la gestione degli enti bilaterali toccasse
alla confederazione, cosa che si è rivelata corretta. Io provenivo dall’esperienza
delle casse edili e non ho mai tolto nulla al loro ruolo, ma l'esperienza delle
Casse edili è unica e non poteva essere replicata in altre realtà. In settori
molto piccoli bisognava strutturare un’organizzazione con una visione più
confederale, più intercategoriale. Tutte le categorie dell'industria erano
d'accordo, la Filca si mise di traverso. Ci fu una querelle che durò a lungo
con documenti e contro documenti, alla fine però è passata la mia linea. Mentre
mi occupavo di queste vicende e venivano realizzati gli accordi nazionali che
davano sempre più spazio alla bilateralità e alla confederalità, iniziò a
svilupparsi concretamente l'idea di dar vita all'Ente bilaterale lombardo
dell'artigianato. La controparte mi chiese di impegnarmi nella costruzione
della nuova struttura. Non esisteva nulla e mi ricordo che il primo bollettino
lo facemmo con un collage di pezzi fotocopiati e lo portammo così alle Poste
per la spedizione, ma ci siamo arrangiati e l'ente è cresciuto. Quando ho
lasciato il 31.12.1999 l'ente era in buona salute con 65mila imprese associate
e 213mila dipendenti iscritti ai fondi. Con i contratti di solidarietà abbiamo
salvato numerosi posti di lavoro perché allora non c'era la cassa integrazione
in deroga. E’ stata una grande soddisfazione.
Mentre ero ancora all'Elba, il sindaco di Bollate,
Giovanni Nizzola, mi propose di candidarmi con lui nella lista Città per
cambiare. Fui eletto e nominato assessore ai servizi sociali e devo dire che mi
hanno impegnato molto e anche questa è stata una grande esperienza. Ma devo
molto alla mia esperienza precedente come segretario organizzativo alla Cisl
regionale. La scuola vera è stata quella lì.
Ho fatto l'assessore per cinque anni e a conclusione
del mandato, nel 2004, mi sono candidato sindaco per il centrosinistra. Mi sono
presentato alla cittadinanza il 12 maggio 2004 e l'unica condizione che avevo
posto era che il giorno dopo avrei partecipato al raduno degli alpini a
Trieste. Dieci giorni dopo il Consiglio regionale della Lombardia votò la
nascita del comune di Baranzate, questo comportò la sospensione delle elezioni
a Bollate perché si modificavano le liste elettorali. Con il prefetto Ferrante
ebbi degli scontri non da poco, ma non ci fu niente da fare. Facemmo anche un
ricorso alla Corte costituzionale contro la nascita del nuovo comune e io fui il
primo firmatario. Il nostro referente era il professor Valerio Onida e vincemmo
alla grande perché la Corte costituzionale accettò l'idea di un referendum che
coinvolgesse tutta la popolazione di Bollate e non solo i baranzatesi. Il 78%
dei votanti disse di no alla nascita del nuovo comune, ma siccome l'esito del
referendum non era vincolante la Regione Lombardia diede comunque il via alla
separazione di Baranzate. Nel frattempo la situazione era mutata e ho ritirato
la mia candidatura.
In quei mesi erano maturate le condizioni per il
ritiro delle deleghe alle Asl per la gestione dei servizi sociali. È nata così
l'Azienda speciale consortile, una delle prime in Lombardia, e sono diventato
il presidente. Una richiesta che mi ha fatto l'assemblea dei sindaci e da dieci
anni sono qui.
Gli alpini sono stati una grande esperienza di vita.
Credo che un periodo di servizio militare, magari più breve, dovrebbero farlo
tutti perché si impara veramente che cos'è la solidarietà. Sono partito il 7
luglio 1963 e sono tornato a casa il 5 ottobre 1964. Ho fatto quindici mesi.
Nel 1965 mi sono iscritto all'associazione e quest'anno ho preso la medaglia
per i cinquant'anni di militanza. Ero iscritto alla sezione di Limbiate poi,
quando mi sono sposato, sono venuto ad abitare a Bollate. Nel 2010 sono
diventato presidente della sezione milanese dell'associazione degli alpini di
tutta la provincia.
Ho scelto la Cisl perché venivo da un ambiente
cattolico ed è stata una scelta abbastanza naturale. Vicino a dove lavoravo
c’era la Snia Viscosa dove era molto forte la Federchimici e ho conosciuto i
rappresentanti della Cisl, anche se a Varedo erano minoritari perché comandava
la Uil. Quando sono rientrato dal servizio militare, mio fratello era già
impegnato nella Cisl e sono entrato in contatto con Leopoldo Merlo, l'operatore
di zona, a cui feci controllare la busta paga, scoprendo così che nella mia
azienda eravamo in arretrato di ben tre contratti nazionali: non si prendevano
le 96 lire di mensa al giorno, la tuta all'anno non veniva data, e altro
ancora. Per risolvere la questione andammo in Assolombarda e per me è stata la
prima esperienza di trattativa sindacale. In Assolombarda venne facilmente
riconosciuta la nostra ragione, gli arretrati ammontavano a circa 300mila lire
ciascuno. La paga mensile in quel momento era di 90mila lire. Con queste cifre
i lavoratori compresero immediatamente qual era l'utilità del sindacato e
quanto fosse importante stare uniti. Facemmo così la prima raccolta per le
iscrizioni che prevedevano che nelle buste paga venisse messo un assegno e
raccogliemmo 108 iscritti alla Cisl e otto alla Cgil su un totale di 180
lavoratori. Con la prima elezione della commissione interna sono stato nominato
presidente sulla base dell'accordo nazionale del 1966 che prevedeva questa
figura. Fu una marcia trionfale perché il risultato che avevamo ottenuto aveva
reso molto evidente quanto fosse importante il nostro impegno. Negli anni
successivi la trattativa per le qualifiche portò ulteriori benefici economici
anche perché i lavoratori erano quasi tutti operai specializzati.
Risolti i problemi di salario e di inquadramento la
prima vera battaglia che facemmo in azienda fu sull'ambiente. Noi lavoravamo un
legno africano, la noce mansonia, che produce una polvere talmente fine che
dopo alcuni giorni di lavoro con quel materiale immancabilmente il naso
iniziava a sanguinare. In quegli anni ho partecipato a un convegno della Filca
a Treviso proprio sul legno di mansonia e lì portai la mia esperienza.
Successivamente quel legno è stato proibito perché era molto nocivo, provocava
delle allergie incredibili, delle malattie polmonari e noi abbiamo lottato per
questo e per l'introduzione di sistemi di depurazione dell'aria.
Sul finire degli anni Sessanta i grandi movimenti
che si sviluppano nel '68, '69 cambiano profondamente anche il clima in
azienda. C'è un episodio molto importante proprio a cavallo dei mesi caldi di
fine ’68. In occasione di uno sciopero siamo tutti fuori dalla fabbrica e in
quel momento passa il padrone si ferma e rivolto a me dice: “Tu domani sei
licenziato”. Ero diventato la bestia nera, ma ero convinto che se una persona
fa il proprio dovere non ha mai nulla da temere e infatti non avvenne niente.
Il titolare tentò anche di fare un’assemblea con i dipendenti dicendo che
l'azienda era una grande famiglia e io mi alzai dicendo che ero orfano. Il
giorno successivo allo sciopero, prima di riprendere il lavoro i miei compagni
della commissione interna andarono in direzione a chiedere se la minaccia di
licenziamento nei miei confronti fosse stata vera perché se era vera nessuno
avrebbe ripreso il lavoro. La vicenda finì in niente e il lavoro riprese
normalmente, però il fatto di aver avuto una capacità di reazione di quel tipo
da parte di tutti i lavoratori della fabbrica segnò un cambiamento di clima
importante.
La partecipazione è sempre stata significativa e
anzi andava crescendo. L'unico elemento che frenava un po' era la presenza del
movimento studentesco che noi non vedevamo molto bene. Un giorno Mario Capanna
e Luigi Cipriani vennero a Meda con l'intenzione di insegnarci come si doveva
fare un picchetto e noi li abbiamo mandati via dicendogli che potevano starsene
alla Statale perché noi sapevamo che la voglia di riscatto nasceva dalla
fabbrica. Non ci sono mai stati problemi per la partecipazione dei lavoratori
sia per le vicende interne che per gli scioperi del contratto nazionale, che
per le grandi battaglie sulle riforme, una disponibilità che comincia a scemare
dopo la metà degli anni Settanta.
I padroni facevano fatica a capire cosa stava
succedendo, a capire i tempi nuovi. Fu un fatto così inaspettato che ne furono
scioccati, tant'è che più avanti, quando si riebbero da questa fase per loro difficile,
avviarono una reazione che fu di destra. Poi acquisirono consapevolezza, ma in
quel momento non capivano e di fronte agli scioperi e alle nostre
rivendicazioni quasi non erano in grado di reagire. Ho seguito per anni tutta
la zona del legno a nord di Milano, da Cormano fino su a Giussano, e ovunque ho
colto questo atteggiamento di sorpresa. Pensavano che ancora una volta la
grande balena bianca della Brianza li avrebbe in qualche modo protetti. La
Democrazia cristiana alle elezioni superava il 50% e sia gli imprenditori che
la maggior parte di noi sindacalisti veniva dallo stesso ambiente. Ma in tutti
i miei anni di impegno sindacale non ho mai fatto politica, perché l'autonomia
nella Cisl è una cosa sacra.
I primi anni da sindacalista avevo molta diffidenza
nei confronti dei colleghi della Cgil, c'era una differenza culturale profonda
perché la Cisl valorizzava l'uomo, la persona e la contrattazione. Eravamo
attenti anche ai modelli di comportamento, loro invece erano molto più spicci.
Prima che andassi militare facemmo un'assemblea in
un bar fuori dall'azienda perché avevamo il problema del cottimo e venne un
sindacalista della Cgil, il compagno Visconti, che per due ore ci parlò del
compagno Togliatti e noi siamo stati lì ad ascoltarlo, ma poi abbiamo chiesto: “E
il cottimo?”. Per noi era importante perché c'era chi ne approfittava, c'era
chi lavorava come un matto e chi invece si imboscava e poi tutto veniva
ripartito. Gli abbiamo detto: "Caro compagno Visconti a noi del compagno
Togliatti non interessa niente, siamo ancora come prima e invece vogliamo
risolvere il nostro problema".
La Cgil teneva la piazza, ma la Cisl è sempre stata
presente in tutte le sue articolazioni e il nostro dovere l'abbiamo fatto fino in
fondo. Quando la nostra organizzazione di categoria o confederale dichiarava
uno sciopero noi eravamo sempre pronti a fare volantinaggi, ad affiggere
cartelli, a fare tutto quello che serviva per assicurare la riuscita nel
migliore dei modi. Non siamo stati al carro di nessuno. Certo i numeri erano
quelli che erano, loro erano molto più forti, la tradizione della Camera del
lavoro era di lunga durata. Nei paesi in quegli anni la presenza sindacale era
in gran parte quella della Cgil, noi fino a quel momento stavamo soprattutto
negli oratori come a Cesano Maderno, Seveso, Meda. Per rafforzare la Cisl
abbiamo dovuto fare un’azione particolare: siccome tutte le grandi imprese
erano in maggioranza Cgil, abbiamo operato nelle piccole imprese, quelle che
loro lasciavano in disparte. Facevamo dieci tessere da una parte, cinque
dall'altra. Con questa strategia, nel 1977 in Cassa edile abbiamo raggiunto la
maggioranza tra la sorpresa generale.
Alla Filca sperimentavamo una modalità di fare
sindacato po' particolare per via degli edili e della loro esperienza della
Cassa edile e delle quote di servizio. Le quote di servizio per noi erano in
qualche modo un riconoscimento del lavoro che i sindacalisti facevano nei mesi d'inverno
in cui i cantieri erano fermi. Le prendevano anche le imprese. Ho sempre
sostenuto che questo era un elemento importante e che le altre categorie
avrebbero dovuto copiare l'organizzazione degli edili, e infatti l'idea
dell'ente bilaterale parte da quell'esperienza, ma allora si faceva fatica.
Perché era difficile costruire un sindacato che doveva mediare e contrattare.
Le categorie facevano fatica a comprendere questa
modalità di organizzazione, nel settore del legno in qualche modo eravamo
vicini alle categorie industriali e bisogna dire che nelle nostre iniziative di
formazione sui temi contrattuali utilizzavamo molti docenti che venivano dal
settore metalmeccanico perché i processi in fabbrica erano gli stessi
dell’industria.
In quegli anni ero soprattutto Filca, così come gli
altri lavoratori erano espressione essenzialmente della loro categorie di
provenienza, ognuno era fiero della propria appartenenza. L’idea della verticalizzazione
in Cisl subiva molto l'influenza di altre esperienze sindacali, in particolare
di quella statunitense.
Eravamo per l'incompatibilità con le cariche
politiche e molto rapidamente coloro che si opponevano sono stati esclusi. Mi
ricordo all'inizio la resistenza di Lorenzo Cattaneo della Fisba e di altri del
pubblico impiego, ma a Milano e in Lombardia sostanzialmente il problema si
risolse senza grandi scontri, anche perché alla fine la decisione
dell'autonomia venne assunta a livello confederale. Il primo congresso
confederale a cui ho partecipato è stato quello del 1969 a Roma, dove
l'avvocato Paolo Sala, che sosteneva l'incompatibilità, si prese una sediata in
testa da parte di De Grassi, un sindacalista di Trieste. In quel momento Bruno Storti
era ancora in Parlamento, ma dopo il congresso si dimise da parlamentare. Fu una
grande battaglia di civiltà. Sono convinto che la Cisl è cresciuta proprio
perché ha saputo distinguersi dagli altri con il principio dell'incompatibilità
e dell'autonomia. Una battaglia che ho condiviso fino in fondo e la mia
vicinanza alla Dc non ha mai influito in alcun modo sulle mie scelte sindacali.
Nel 1969 a Milano nasce la Filca con l'unificazione del
legno e dell'edilizia e si inizia a parlare di egualitarismo, ma mentre in
fabbrica nel settore del legno questo trova degli sbocchi e delle applicazioni
puntuali, nell'edilizia difficilmente progredisce. Nei cantieri la differenza
tra il manovale e l'operaio qualificato è notevole, anche per la presenza di
manodopera scarsamente istruita.
Alla Fondazione convitto per l'arte edilizia in via
Paravia, la scuola edile, ogni anno arrivavano fino a cinquecento ragazzi dal
sud. Questi si fermavano nel convitto e venivano formati nelle diverse specializzazioni
del settore. Alla fine del corso venivano tutti collocati. Il nostro cappellano
era don Gino Rigoldi e anche lì ci furono problemi di droga. In una simile
situazione era assai difficile parlare di egualitarismo. Il primo egualitarismo
era dare il lavoro a tutti, quello sì era importante. In un contratto del legno
noi chiedemmo 90 lire di aumento e loro ce ne diedero 110, uguali per tutti, ma
quello non era l'egualitarismo per il quale ci si batteva perché le differenze
si creavano attraverso l'inquadramento, gli scatti, le qualifiche.
Nel settore del legno c'erano molte donne occupate,
ad esempio nel settore dell'imbottito, e negli anni Settanta si arrivò al
superamento delle differenze conquistando “pari lavoro uguale pari salario”. Le
operaie partecipavano attivamente agli scioperi, in molti casi anche più degli
stessi uomini, e diverse di loro furono elette delegate. Me ne ricordo una alla
Cassina, Carla Cesaro. Qualche delegata c'era anche nei grandi uffici delle
imprese maggiori del settore edile.
Nel 1973 con l'esplodere della crisi energetica, in
molti casi ci si ritrovò senza lavoro, si stava in fabbrica con le mani in
mano, ma non ci furono licenziamenti. I lavoratori erano impegnati nelle
attività di manutenzione, normalmente c'era la consapevolezza di una fase di
passaggio non molto lunga e non ci furono grandi ripercussioni sull'occupazione.
L'approvazione dello Statuto dei lavoratori ha
creato la possibilità di entrare in fabbrica e in quel periodo mi sono
divertito moltissimo e credo di aver dato il meglio di me nelle assemblee. Era
quello che mi mancava, prima si volantinava e si facevano riunioni fuori dalla
fabbrica. La mia prima assemblea è stata alla Fratelli Tragni di Lentate sul
Seveso, lì lavorava Maurizio Mariani che ha lasciato anche lui la fabbrica per
impegnarsi nel sindacato. Si emozionava e quando l'ho portato la prima volta in
assemblea ha vomitato. All'inizio non molti venivano alle assemblee, qualcuno
aveva timore, era una novità, poi piano piano la partecipazione è cresciuta e
le assemblee sono diventate un grande momento di partecipazione. Lo Statuto dei
lavoratori ha cambiato profondamente la modalità di lavorare dell'operatore
sindacale nell'approccio ai luoghi di lavoro.
Al Centro studi di Firenze ci insegnavano come fare
volantini e poi c'era una gara che premiava il volantino d'oro, il volantino
d'argento e il volantino di bronzo. L'obiettivo era quello di abituarci a usare
il linguaggio giusto per ogni occasione e questo valeva anche per le assemblee.
Ho preso parte alla costruzione del percorso
unitario che si è sviluppato negli anni Settanta con la nascita della
Federazione dei lavoratori edili. Ma ripensando ora a quei momenti, devo dire
che forse ci ho creduto poco. L'unità che prevedeva una divisione al 33% per
ciascuna delle tre organizzazioni era una bufala perché, in una situazione in
cui la Uil che pure essendo nettamente minoritaria rivendicava sempre il suo
33%, la realtà era falsata. Mi rendo conto che era comunque un passo avanti
rispetto a quello che c'era prima ed era il modo per stare insieme. Prima era
solo l'incontro di tre, adesso era un organismo con proprie regole ed istituti.
Ho vissuto direttamente tutta la fase della
divisione interna alla Cisl tra chi era favorevole all'unità e chi era
contrario. Io ero pro Storti, vedevo Scalia come un restauratore, espressione
della parte peggiore della Sicilia che rifiutava di modernizzarsi, e quelli che
aveva riunito, come Sironi degli elettrici e la Fisba, erano tutti coloro che
non volevano nessun cambiamento e non erano interessati alle novità dello
Statuto dei lavoratori. Nella Fisba vigeva ancora il rapporto diretto con la
Democrazia cristiana e i coltivatori diretti, mentre gli elettrici erano legati
al sottobosco delle imprese di Stato. A Milano non ci furono dubbi sullo
schierarsi contro Scalia e sostenemmo con la nostra solidarietà gli elettrici
che erano stati commissariati.
I lavoratori vivevano queste questioni non
direttamente, ma perché venivano riportate tra di loro, però i più
sindacalizzati dibattevano di questi temi. Si tenga conto che avevamo anche una
presenza tra i lavoratori di alta professionalità, come negli uffici della Metropolitana
milanese o di altre grandi aziende e queste persone discutevano attivamente
anche delle questioni interne all'organizzazione.
La scelta dell'autonomia che ha sempre
caratterizzato la nostra azione è emersa ancor di più in occasione dei governi
di unità nazionale. Certo era un fatto politico importante, mi ricordo che
insieme a Filippazzi tornavamo in treno da Roma e ci hanno fermati a Lodi dove
ci hanno annunciato che era stato rapito Moro. In quel periodo ero contro i
comunisti perché volevano fare l'alleanza con i bottegai, sulla base di
un'esperienza simile nata in Francia. Ero profondamente contrario e spiegavo
che non avevamo nulla in comune con loro, mentre il Pci sosteneva che si
dovesse costruire una grande alleanza con tutte le forze economiche produttive.
Devo però dire che in quel periodo c'era maggior rispetto tra tutti, ci si
accettava di più, si imparava a stare insieme diversamente. Il sindacato in
qualche modo ha subito le scelte della politica, ma di fronte a un governo di
unità nazionale era un atteggiamento di responsabilità.
Esaurita l'esperienza dei governi di unità nazionale
anche il rapporto unitario tra le organizzazioni sindacali si è sfilacciato,
l'unità era fallita e la Federazione ormai non diceva più nulla. Anche quel
poco che si era costruito unitariamente si era perso, questo non voleva dire
che si cancellava il rispetto reciproco, anzi si continueranno a fare
iniziative comuni, battaglie condivise, ma ognuno deciderà per sé.
Personalmente ho vissuto la fine di quell'esperienza quasi come un fatto
positivo perché ormai la Federazione unitaria non offriva più nulla, stare
insieme per stare insieme non serviva più. Avevamo depauperato tutto quello che
era stato costruito in precedenza e ora l'unità era solo una finzione. Meglio
andare ognuno per la propria strada con la propria autonomia.
L'esperienza sindacale è stata tutta la mia vita, 25
anni di Cisl a tempo pieno, molti di più come iscritto, mi hanno cambiato l’esistenza.
Mi reputo una persona fortunata. Innanzitutto perché la Cisl è stata una grande
scuola di vita dove ho conosciuto gente eccezionale, mi ha dato la possibilità
di crescere intellettualmente, culturalmente e professionalmente e poi perché
c'era una grande idealità e la convinzione di fare qualcosa per gli altri e di
farlo con umiltà, mettendo in gioco i nostri talenti. Non avrei potuto
immaginare diversamente la mia vita, questo lo riconosco fino in fondo.
Avrei potuto continuare il mio percorso in Cisl, ma
ho chiuso quando il segretario generale Savino Pezzotta mi ha messo accanto un
mio ex collega della Filca, Cesare Regenzi, che avevo salvato dandogli un posto
in segreteria quando è stato licenziato. Sono contento di quello che ho fatto e
non ho mai sgomitato, al punto che sono entrato in conflitto, non da poco, con
la mia ex categoria e forse ho lasciato al momento giusto. Mi sono rimesso in
discussione in un'altra avventura, dando vita all’Ente lombardo bilaterale
dell'artigianato (Elba), che oggi funziona e lavora.
La cultura della Cisl ha inciso profondamente
nell'azione sindacale, se pensiamo solo a qual era la contrarietà della Cgil
alla contrattazione aziendale, che oggi invece è patrimonio dell'intero
sindacato italiano, e alla finzione che qualcuno vuole ancora mantenere nella
centralità del contratto nazionale che non regge più. Questo vale per il
risparmio contrattuale, per la previdenza integrativa, elementi che furono alla
base della riflessione dei padri fondatori della Cisl e che sono entrati nella
cultura generale del sindacato. È difficile che gli altri lo ammettano, ma
l'esperienza sindacale innovativa in Italia è quella cislina. La Cisl oggi ha
ancora qualcosa da dire.
La storia della Cisl è una bella storia fatta il più
delle volte da uomini e donne silenziose. Se penso all'umiltà nell'impegno dei
delegati al sorgere della Cisl, vituperati, maltrattati a parole dai compagni
della Cgil, al lavoro malpagato fatto dalle strutture di zona e dalle nostre
impiegate che lavoravano anche di notte per far girare il ciclostile, per produrre
volantini, con Sandro Pastore che diceva che non aveva i soldi per pagarle e
gli dava qualche giorno di ferie. Alcune di loro avevano anche tre mesi di
ferie arretrate. Ho conosciuto uomini e donne che hanno creduto fortemente in
un impegno per il riscatto dei lavoratori attraverso il loro sindacato e ho
sempre guardato con grande interesse e fiducia a queste persone. Ricordo
Filippazzi, vecchio meccanico della Saffa, che si alzava alle tre di notte per
venire in Brianza a fare i picchetti, lui che abitava a Casalpusterlengo, con
cui stavamo in ufficio fino alle otto, otto e mezza di sera e io che quasi dovevo
imporgli di andare via prima. Aveva quattro figli. Ha fatto due anni di
sanatorio a Sondalo perché è stato picchiato a sangue dai compagni dopo
l'attentato a Togliatti, non ha mai avuto un sentimento di odio, sempre di
perdono. Sono stati questi comportamenti uno degli elementi decisivi
dell'affermarsi della Cisl. Ho visto tanta gente credere profondamente in ciò
che faceva e questo indubbiamente ha lasciato il segno.