Sono nata a Villa Carcina il
28.2.50. Ho studiato fino alla terza media. Avevo 19 anni quando sono stata
assunta come operaia alla Eredi Gnutti Metalli. Appena entrata in azienda mi
hanno messo su una macchina per trafilare il filo. La Gnutti era una fabbrica
leader, e ci lavoravano settecento persone. Era l’unica azienda di Lumezzane
che non produceva ne rubinetti ne posaterie, ma semilavorati di rame e ottone
che poi vendeva alle fabbriche della zona. C’erano reparti di fonderia e prima
lavorazione. Prima ho lavorato in
un’officina dove c’erano solo cinque persone e il sindacato non era presente.
Le aziende di Lumezzane si
chiamavano tutte Gnutti. Quando i camionisti stranieri arrivavano in paese e
chiedevano di Gnutti era difficile indicare loro la strada.
Il paese era fortemente
industrializzato, con fabbriche anche grandi, seppure non come la Gnutti, ma
erano fabbriche dove il padrone pagava la cena il sabato sera. Da noi questo
paternalismo non esisteva e c’era un normale rapporto sindacato azienda.
Ho fatto un’esperienza
politica in gioventù aclista a 15 anni e sono entrata nella Dc a 18, ma avevo già cominciato a
macinare politica in famiglia. Mio padre aveva rifiutato la tessera fascista
per cui non aveva potuto fare l’impiegato in Comune, è stato nel Comitato di
liberazione in fabbrica, avevo uno zio che faceva il sindaco.
Era l’unica in cui si faceva
politica rispetto ad una zona molto chiusa. Dopo tredici giorni di lavoro ero a
distribuire i volantini dei Cub.
Ho fatto la mia prima
tessera sindacale della Fim. Lavoravo in coppia con un membro della commissione
interna della Fiom. Trascorsi i regolari dodici giorni dal mio ingresso in
fabbrica, il tredicesimo mi ha chiesto se facevo la tessera al sindacato. Io ho
detto che l’avrei fatta ma ho chiesto “che sindacato è?” e lui, di rimando “qui
siamo tutti uguali”, ma io ho richiesto che tessera voleva farmi fare e lui mi
ha detto che era della Fiom. “Non prendertela – risposi – ma io preferisco fare
quella della Fim”. Mi ricordo che eravamo al primo piano e lui mi ha
indirizzato da un rappresentante della Fim in un altro reparto a piano terra.
Ci sono andata e quando gli ho chiesto di fare la tessera mi ha chiesto in
quale reparto lavoravo e quando gliel’ho detto era sorpreso perché dove
lavoravo io erano tutti iscritti alla Fiom.
In occasione della nascita
del primo consiglio di fabbrica sono stata eletta delegato, poi sono entrata
nel direttivo provinciale della Fim, dal ‘73 al ’92. Nel consiglio generale
della Cisl ho fatto cinque o sei mandati.
Le mie scelte mi sono
costate, non tanto la carriera, ma soprattutto il pregiudizio da parte
dell’azienda, perché ero l’unica donna che faceva sindacato. In azienda
lavoravano molte donne, in particolare nel mio reparto erano parecchie, tutte
tranquille casa, chiesa e lavoro e improvvisamente si sono trovati per caso una
donna delegato. Per anni io a Lumezzane
sono stata individuata come la rompiscatole. In quel momento ero l’unica
delegata donna, negli anni successivi ne sono emerse altre. Oltretutto, grazie
anche ai miei impegni e la mia preparazione, non ero proprio l’ultima della
compagnia, poi mi hanno temprato le prime esperienze.
Una delle prime fu la
richiesta, nel ‘72/’73 del passaggio di categoria per le donne che facevano lo
stesso lavoro degli uomini, chiedendo che venissero trattate allo stesso modo.
Il capo del personale mi rispose che “per tradizione alle donne non si dà la
categoria”. Allora abbiamo iniziato la nostra protesta con una nuova forma di
sciopero: quando si rompeva il filo sulla macchina invece di infilarlo
nuovamente nella macchina ci fermavamo perché quel lavoro era previsto come
mansione degli operai che avevano una categoria superiore, noi donne non
l’avevamo e quindi non lo facevamo anche se ne eravamo in grado. E questo
voleva dire non fare niente tutto il giorno. Anche quella volta siamo andati a
discutere all’associazione industriali: dopo sette ore di trattativa, alle
11,30 di sera e dopo tante chiacchiere, un funzionario dell’Aib ci disse di no.
Il giorno successivo in fabbrica abbiamo deciso di continuare la nostra
protesta. Ad un certo punto venne da me il capo del personale, dottor Gaboardi,
che poi è diventato il capo del personale del gruppo Iveco, dicendo che ci
avrebbe concesso 35 lire di aumento, mentre il passaggio di categoria voleva
dire un aumento di 30 lire. Al che io ho risposto di no, che non ci
interessavano tanto i soldi quanto il fatto che a parità di lavoro ci dovesse
essere parità di trattamento. La nostra decisione ci ha fatto vincere. Un primo
gruppo di donne ottenne di fare immediatamente il passaggio di categoria e
altre successivamente, ma l’importante era il principio. In quell’occasione
l’Aib venne tenuta fuori dall’intesa perché i padroni temevano che il concetto
di parità si trasferisse anche alle altre aziende di Lumezzane.
In quell’ambiente io
risultavo un po’ strana: democristiana, amica dei comunisti, andavo a fare le
riunioni alla casa del popolo che in paese chiamavano “casa del diavolo”.
C’è stato un periodo che ero
ufficialmente in azienda, ma causa del mio incarico ero sempre fuori perché, in
occasione delle assemblee congressuali e di quelle per il contratto, c’era un
gruppetto di delegati che usciva dalle fabbriche per andare nelle aziende più piccole. Siccome
avevamo un bel monte ore e la possibilità di utilizzarle, il sindacato
utilizzava noi delegati per gestirle. In quel periodo c’era abbastanza unità
con la Fiom, per cui, di fatto, anche se non ufficialmente, ho fatto un periodo
quasi a tempo pieno.
Un’esperienza interessante è
stata quella del consiglio di zona unitario, il primo nato a livello nazionale.
Per un bel periodo ha funzionato. E’ stato nel ‘74, ‘75.
Ci fu un periodo che
Lumezzane era diventato un po’ il centro dell’attività sindacale. Abbiamo fatto
diverse battaglie sul sociale, come quella per ottenere dalle aziende un
contributo dell’uno per cento per costruire una mensa interzonale. Il solo
fatto di chiederlo fu un grosso risultato, tenendo conto della mentalità di
Lumezzane. Da un lato alle imprese si chiedeva un contributo per realizzare
quello che lo Stato non realizzava, e ai lavoratori, che sono innamorati dei
soldi, si domandava di dare un contributo di solidarietà per i lavoratori delle
piccole officine che non avevano i servizi che invece di cui disponevano coloro
che erano dipendenti delle aziende maggiori. Un’altra idea che avevamo era
quello di finanziare la costruzione di un asilo nido, ma se ne parlava in
maniera molto timida. Non abbiamo raggiunto i nostri obiettivi sul territorio:
perché Lucchini la mensa non la voleva, mentre l’asilo nido non è stato fatto
perché ci si scontava con una gerarchia cattolica molto arretrata per cui i
bambini dovevano essere tenuti in casa.
Nella mentalità di Lumezzane
al primo posto c’è il lavoro e la domenica andare alla messa, con i padroni che
si mostravano nel fare l’offerta. Il periodo delle lotte sindacali è stato
forse l’unico momento in cui Lumezzane ha espresso qualcosa di diverso.
Il consiglio di zona era
stato capace di aggregare al suo interno lavoratori con culture e idee differenti,
ma che superando le differenze riuscivano a lavorare insieme ed era nato un bel
gruppo
Con l’azienda abbiamo sempre
avuto problemi, ma mai grandi questioni. Il titolare in quegli anni era il
vicepresidente dell’Associazione industriali per cui venivano sempre poste
questioni di principio. Per ogni piccola questione si doveva andare in
associazione. Il riconoscimento delle rsa e del primo consiglio di fabbrica ci
sono costati tantissimo. Era un continuo “andare in gita” in città. In quel
periodo non sapevo più dove abitavo. La vertenza l’abbiamo risolta con
l’azienda che riconosceva solo le rsa mentre gli altri componenti il consiglio
di fabbrica vennero considerati degli esperti, anche se poi avevano gli stessi
diritti e lo stesso monte ore.
Se dovessero pagarmi tutte
le ore di sciopero che ho fatto potrei fare il giro del mondo, credo di aver
fatto circa quattromila ore di sciopero durante la mia vita di lavoro. La
Gnutti partecipava a tutti gli scioperi nazionali. Abbiamo fatto anche gli scioperi
per il Cile.
Il nostro tipo di produzione
ci rendeva diversi dalle altre fabbriche di Lumezzane. Io sostenevo pertanto
che non si dovevano fare piattaforme aziendali “con il ciclostile” come invece
si usava, perché i problemi erano diversi.
Inoltre si doveva guardare al sociale, perché si doveva guardare anche
fuori dalla fabbrica e l’esperienza del consiglio di zona doveva servire anche
a questo.
Le vertenze allora erano sui
cottimi, l’ambiente. E’ mancata la formazione a livello di fabbrica. Noi ci raccordavamo
con la Carlo Gnutti di Chiari per quanto riguarda il settore, con la provincia
sulle richieste diverse dal salario.
Avevamo l’infermeria col
medico, la mensa. La fabbrica aveva una storia sindacale che col tempo aveva
consentito piccole ma continue conquiste.
Noi della Gnutti eravamo
considerati poveri perché stavamo a mangiare in mensa e non andavamo a casa,
quando hanno capito che l’inflazione erodeva i salari allora anche gli altri
lavoratori hanno capito che la mensa era importante. Ma la mensa interaziendale
non è partita a causa di Lucchini. Lucchini, infatti, ad un certo punto ha
comperato l’azienda e ne è diventato amministratore delegato. Secondo me a lui
non interessava la Gnutti, la prese solo perché per diventare presidente
dell’Aib non si doveva essere solamente un imprenditorie delle acciaierie, lui
doveva cambiare immagine. Se in quel momento avessero venduto la Beretta o
un’altra azienda non siderurgica lui l’avrebbe acquistata.
Lucchini non l’abbiamo quasi
mai visto in azienda e probabilmente non ha mai interferito nella gestione, ma
il suo scopo era quello di fra sparire il sindacato in azienda. Aveva lanciato
l’idea del premio di presenza per cui se uno era ammalato perdeva dei soldi.
Già nel 76, in occasione del
primo incontro con il sindacato di fabbrica, aveva detto alcune cose che
avrebbero dovuto farci pensare, ma è stato solo nell’83 che è iniziato il
processo che poi ha portato alla chiusura della fabbrica, con la vendita di un
reparto e del villaggio Gnutti.
Io l’avevo contestata e per
un certo periodo siamo riusciti a bloccarla, costituendo poi una cooperativa
che acquisì le case facendo risparmiare il 25 per cento del costo ai
lavoratori. Abbiamo fatto un accordo che prevedeva inoltre che una decina di
appartamenti andassero al Comune gratuitamente per farne abitazioni per
anziani.
Quando è iniziato il
processo di ristrutturazione eravamo ancora in più di quattrocento persone. La
prima vendita ha riguardato un intero reparto di fonderia ed ha coinvolto 183
persone che sono passate direttamente a Ghidini, ed è rimasta la meccanica. Poi
nell’84 Lucchini ha venduto anche il resto sempre a Ghidini.
Quando è stato venduto il
primo pezzo è venuta fuori la demagogia della Fiom. Cremaschi ha lanciato
immediatamente la proposta di occupare la fabbrica. Io mi sono opposta perché
si trattava di un cambio di proprietà e il nuovo padrone aveva assicurato il
mantenimento del posto per tutti i lavoratori di quel reparto.
Già nel ’78, in occasione di
una vertenza di contrattazione interna, la Flm si era spaccata, ed era
intervenuto come mediatore il sindaco di Brescia, avvocato Trebeschi. La Fiom a
Brescia era guidata da Sabatini e Cremaschi, che hanno cercato di scaricare su
di lui, perché democristiano, le responsabilità per la mancata intesa. Ci fu
una famosa assemblea al cinema Odeon e noi ci eravamo preparati programmando
unitariamente una certa gestione dell’evento. Nessuno di noi doveva fare
interventi e lo scopo era quello di ascoltare i lavoratori. Si era in un clima
di tensione, era in atto il blocco delle merci e c’erano lavoratori che da tre
mesi non percepivano lo stipendio. La fabbrica lavorava, ma le merci prodotte
non potevano uscire e venivano accantonate in azienda. La direzione sosteneva
che non c’erano garanzie di sicurezza. Qualche lavoratore si era licenziato
volontariamente perché per molti che avevano famiglia era dura andare avanti.
Si aprì l’assemblea con una relazione tecnica, come concordato, ma subito dopo,
contrariamente a quanto deciso unitariamente, la Fiom fece intervenire un suo
delegato, uno dei più accesi. Sostenendo una cosa assurda: siccome ci sono
cento macchine, nel reparto ci devono essere cento lavoratori, ma l’azienda
aveva già risposto dicendo che se effettivamente avessero lavorato cento macchine
allora sarebbero serviti cento operai, ma siccome ne lavoravano solo cinquanta,
cosa potevano fare gli altri operai? Noi ci siamo riuniti immediatamente
insieme a Franco Castrezzati per rispondere alla Fiom. Alla fine anche la Fiom
ha firmato l’intesa, ma solo dopo l’intervento della segreteria nazionale. Le
loro posizioni, in verità, non erano molto differenti dalla nostre, ma volevano
sempre forzare le situazioni, così come quando ha comperato Lucchini, volevano
scioperare solo perché aveva comperato Lucchini.
Anche quando Lucchini ha
venduto la prima parte dello stabilimento la Fiom voleva subito occupare la
fabbrica. Siccome di occupazioni ne avevo viste tante, ma nessuna era mai
riuscita, ero riuscita a proporre in alternativa tre giorni di sciopero, sapendo
che più di così non si poteva fare, anche perché le persone che lavoravano nel
reparto venduto non avevano nessun interesse a scioperare. Avevo convinto tutti
gli impiegati a sostenere questa proposta. Per cui per tre giorni la ditta è
restata chiusa e per la prima volta tutti gli impiegati sono rimasti a casa.
A volte rimpiango di non
aver lasciato la Gnutti in quel periodo, ma mi sembrava di tradire il sindacato
e i lavoratori. L’anno successivo Lucchini ha venduto l’intero stabilimento,
abbandonando alcune lavorazioni e trasferendo i lavoratori nello stabilimento
di San Zeno a Brescia.
Molti lavoratori, però,
hanno scelto altre strade perché non volevano trasferirsi. Io ho fatto due anni
e mezzo di cassa integrazione straordinaria a zero ore, che ho iniziato a fare
appena si è parlato di vendere e sono rientrata dopo un accordo firmato in una
canonica, quando finalmente è stato tolto il veto nei miei confronti. Non era
molta la gente messa in cassa perché i più sono stati assorbiti quasi subito in
un nuovo reparto di lavorazione della barra di ottone aperto a Brescia, mentre
in cassa sono rimasti gli invalidi e i “rompiballe”.
L’azienda non ha licenziato
nessuno anche se in alcuni casi li ha costretti ad andarsene, attraverso
incentivi, o perché era venuta a sapere che qualcuno lavorava in nero durante
il periodo di cassa. Si tenga conto che non c’erano anticipazioni e quindi la
cassa veniva pagata dopo un anno e per chi aveva famiglia era impossibile
vivere in quel modo.
In quel periodo sono rimasta
a casa e ho seguito solamente le attività sindacali. Sono rientrata in fabbrica
a Brescia nell’86.
Rifarei tutto quello che ho
fatto, mi spiace solo che Lumezzane, perdendo la Gnutti, abbia perso il punto
di riferimento e tutta l’iniziativa sindacale della zona.
Alla Lucchini di Brescia ho
lavorato dall’86 al 2002. Qui la situazione era totalmente diversa, i
lavoratori provenivano quasi tutti dalla campagna, con una mentalità
individualista. E con nessuna conoscenza delle realtà sindacale, che faticavano
persino a distinguere tra Fim e Fiom. Io ho fatto il delegato fino al 2001. E’
stata un’esperienza non particolarmente felice. La direzione aveva fatto un
accordo con la Fiom per cui loro avevano piena agibilità in fabbrica, ma non
dovevano rompere le scatole sulle questioni interne. In fabbrica ci lavoravano
350 persone. Io ho cercato di lottare contro questo clima, ma non c’è stato
niente da fare. I lavoratori si iscrivevano alla Fiom fin dai primi giorni del
loro ingresso in azienda e quando arrivavo io erano già tesserati. La direzione
sosteneva la Fiom per garantirsi la pace sociale. Di fatto il sindacato non
c’era.
Quando ho protestato contro
il grande numero di ore di straordinario che si facevano, il delegato della
Fiom è andato in direzione a dire che, siccome non c’erano vertenze aperte, si
poteva fare tutto lo straordinario che si voleva. Io dicevo, va bene, ma almeno
contrattiamolo, cerchiamo di avere una contropartita.
Ho proposto la costituzione
di una banca ore e di un fondo mutualistico prima che entrassero nel contratto
nazionale, ma a livello aziendale non sono passati per l’opposizione della
Fiom.
A San Zeno esiste ancora la
Eredi Gnutti che è tornata alla famiglia dopo che Lucchini se n’è andato.
Sono entrata in contatto con
il gruppo Om per ragioni soprattutto politiche. Avevamo un circolo culturale
“Vicolo San Clemente” dove ci riunivamo, eravamo i cattocomunisti. Alla vita
del circolo partecipava una buona fetta della borghesia illuminata bresciana,
dai Martinazzoli ai Bazoli. Li sono entrata in contatto con il gruppo della Om
e questo rapporto si è trasferito anche sul piano sindacale.
In occasione del famoso
congresso di Manerbio io ero con il gruppo Om. Per i miei compagni di lavoro il
mondo finiva al crocevia di Lumezzane ed ero io che partecipava agli incontri
bresciani, quando tornavo gli raccontavo cosa era successo, per cui mi
seguivano e quindi quando c’è stato da votare hanno votato con me. Con il
gruppo Om la sintonia era totale e anche oggi continuiamo a ritrovarci.
Probabilmente io sono stata
l’unica di Lumezzane a schierarsi con gli autoconvocati. Di fatto la Cgil
c’era, ma ufficialmente no, perché anche lei dichiarava di essere contro, ma
aveva messo a disposizione le sue strutture. Io ero in cassa integrazione, mantenevo
i contatti con l’azienda ed ero libera per partecipare a tutte le iniziative.
Sono stata alle riunioni alla Camera di commercio di Brescia, alla
manifestazione di Roma, quando è intervenuto Paletti. Alla Camera di commercio
la mia zona della Val Trompia non c’era perché per loro l’importante era essere
d’accordo con la segreteria.
Questa vicenda ci ha aiutato
ad avere un rapporto paritario con la Fiom anche in fabbrica, perché il fatto
di avere un orizzonte più largo rispetto alle mere questioni sindacali, il
fatto di avere rapporti a livello provinciale, senza la mediazione
dell’operatore, mi ha aiutato ad avere rapporto più costruttivi. All’inizio ho
avuto dei problemi perché ero della Dc, poi invece la situazione è cambiata.
In azienda me la cavavo da
sola e non avevo bisogno che venisse sempre l’operatore a seguirci. Io ho fatto
anche una protesta contro l’operatore della Fim, Martino Troncatti, perché
l’avevano mandato a fare il controllore dell’operatore che avevamo per ragioni
di schieramento all’interno della Fim.
Io ho conservato un buon
rapporto con la Fiom, anche dopo la rottura della Flm. Più volte è accaduto che
qualche delegato della Fiom dicesse “se va benne all’Anna, va bene anche per
noi”.
Alla Gnutti è volato qualche
schiaffo agli impiegati, ma niente altro. Non c’è stato nessun problema di
violenza o altro.
Ero in manifestazione il
giorno dell’attentato di Piazza della Loggia e per pochi minuti mi sono
salvata. Ero appena passata da dove c’è stata l’esplosione, stavo cercando un
delegato della Gnutti di Brescia, ho salutato alcuni amici e mi hanno detto che
era appena passato e probabilmente era sotto il portichetto e mi sono spostata
in quella direzione. Pioveva, stavamo ridendo, c’era appena stato il referendum
sul divorzio e noi avevamo fatto il documento dei cattolici del no e dicevamo
con alcuni della Om “è il papa che sta pregando perché piova, così ci punisce”
quando abbiamo sentito l’esplosione. All’inizio pensavamo al temporale poi sono
andata là e ho visto. A casa mia è successo il finimondo, non volevano dirlo a
mio padre, non volevano fargli sentire il Gazzettino padano perché sapevano che
io ero in piazza. Mio fratello è venuto a cercarmi, ma io sono stata in
ospedale con alcuni feriti, dovevo organizzare Lumezzane, l’occupazione aperta
che si faceva solo alla Gnutti. Sono tornata a casa la sera tardi, bagnata come
un pulcino senza che nessuno sapesse dov’ero.
Sono stata anche a Reggio
Calabria, contro i fascisti di “boia chi molla”, con le bombe che saltavano sui
binari per fermare i treni dei sindacati. Noi siamo arrivati a Reggio che era
tutto finito e non c’è rimasto altro da fare che tornare indietro. Quella è
stata l’unica volta in cui mio padre mi ha detto “tu alle manifestazioni non ci
vai più”. Sono stata a tantissime altre manifestazioni a Roma, a Milano. A
volte mi sono ritrovata in mezzo a scontri tra polizia e autonomi, una volta mi
sono salvata grazie all’intervento di Marco Castrezzati che mi ha avvisato di
quello che stava accadendo.
Non sono sposata. Ho dedicato
tutto il mio tempo all’impegno sindacale e politico. Ero sempre fuori casa e
ogni tanto mio padre mi chiedeva se abitavo ancora lì con lui. E’ stata
un’esperienza che rifarei, perché la mia generazione ha attraversato uno dei
periodi più interessanti della vita politica e sindacale del paese.
Sono in pensione e sto
finendo l’anno sabbatico, poi riprenderò, perché ho voglia ancora di
impegnarmi. E’ un tarlo che continua a rodermi.
Ho partecipato a centinaia
di iniziative formative. Sono state esperienze di condivisione di storie
diverse, di allargamento della mente. Io sono per la formazione continua, sia a
livello aziendale che a livello sindacale.