martedì 28 aprile 2020

ANNA GILBERTI - Eredi Gnutti Metalli – Lumezzane (Bs)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

Sono nata a Villa Carcina il 28.2.50. Ho studiato fino alla terza media. Avevo 19 anni quando sono stata assunta come operaia alla Eredi Gnutti Metalli. Appena entrata in azienda mi hanno messo su una macchina per trafilare il filo. La Gnutti era una fabbrica leader, e ci lavoravano settecento persone. Era l’unica azienda di Lumezzane che non produceva ne rubinetti ne posaterie, ma semilavorati di rame e ottone che poi vendeva alle fabbriche della zona. C’erano reparti di fonderia e prima lavorazione.  Prima ho lavorato in un’officina dove c’erano solo cinque persone e il sindacato non era presente.

Le aziende di Lumezzane si chiamavano tutte Gnutti. Quando i camionisti stranieri arrivavano in paese e chiedevano di Gnutti era difficile indicare loro la strada.
Il paese era fortemente industrializzato, con fabbriche anche grandi, seppure non come la Gnutti, ma erano fabbriche dove il padrone pagava la cena il sabato sera. Da noi questo paternalismo non esisteva e c’era un normale rapporto sindacato azienda.

Ho fatto un’esperienza politica in gioventù aclista a 15 anni e sono entrata  nella Dc a 18, ma avevo già cominciato a macinare politica in famiglia. Mio padre aveva rifiutato la tessera fascista per cui non aveva potuto fare l’impiegato in Comune, è stato nel Comitato di liberazione in fabbrica, avevo uno zio che faceva il sindaco.

Era l’unica in cui si faceva politica rispetto ad una zona molto chiusa. Dopo tredici giorni di lavoro ero a distribuire i volantini dei Cub.
Ho fatto la mia prima tessera sindacale della Fim. Lavoravo in coppia con un membro della commissione interna della Fiom. Trascorsi i regolari dodici giorni dal mio ingresso in fabbrica, il tredicesimo mi ha chiesto se facevo la tessera al sindacato. Io ho detto che l’avrei fatta ma ho chiesto “che sindacato è?” e lui, di rimando “qui siamo tutti uguali”, ma io ho richiesto che tessera voleva farmi fare e lui mi ha detto che era della Fiom. “Non prendertela – risposi – ma io preferisco fare quella della Fim”. Mi ricordo che eravamo al primo piano e lui mi ha indirizzato da un rappresentante della Fim in un altro reparto a piano terra. Ci sono andata e quando gli ho chiesto di fare la tessera mi ha chiesto in quale reparto lavoravo e quando gliel’ho detto era sorpreso perché dove lavoravo io erano tutti iscritti alla Fiom.
In occasione della nascita del primo consiglio di fabbrica sono stata eletta delegato, poi sono entrata nel direttivo provinciale della Fim, dal ‘73 al ’92. Nel consiglio generale della Cisl ho fatto cinque o sei mandati.
Le mie scelte mi sono costate, non tanto la carriera, ma soprattutto il pregiudizio da parte dell’azienda, perché ero l’unica donna che faceva sindacato. In azienda lavoravano molte donne, in particolare nel mio reparto erano parecchie, tutte tranquille casa, chiesa e lavoro e improvvisamente si sono trovati per caso una donna  delegato. Per anni io a Lumezzane sono stata individuata come la rompiscatole. In quel momento ero l’unica delegata donna, negli anni successivi ne sono emerse altre. Oltretutto, grazie anche ai miei impegni e la mia preparazione, non ero proprio l’ultima della compagnia, poi mi hanno temprato le prime esperienze.

Una delle prime fu la richiesta, nel ‘72/’73 del passaggio di categoria per le donne che facevano lo stesso lavoro degli uomini, chiedendo che venissero trattate allo stesso modo. Il capo del personale mi rispose che “per tradizione alle donne non si dà la categoria”. Allora abbiamo iniziato la nostra protesta con una nuova forma di sciopero: quando si rompeva il filo sulla macchina invece di infilarlo nuovamente nella macchina ci fermavamo perché quel lavoro era previsto come mansione degli operai che avevano una categoria superiore, noi donne non l’avevamo e quindi non lo facevamo anche se ne eravamo in grado. E questo voleva dire non fare niente tutto il giorno. Anche quella volta siamo andati a discutere all’associazione industriali: dopo sette ore di trattativa, alle 11,30 di sera e dopo tante chiacchiere, un funzionario dell’Aib ci disse di no. Il giorno successivo in fabbrica abbiamo deciso di continuare la nostra protesta. Ad un certo punto venne da me il capo del personale, dottor Gaboardi, che poi è diventato il capo del personale del gruppo Iveco, dicendo che ci avrebbe concesso 35 lire di aumento, mentre il passaggio di categoria voleva dire un aumento di 30 lire. Al che io ho risposto di no, che non ci interessavano tanto i soldi quanto il fatto che a parità di lavoro ci dovesse essere parità di trattamento. La nostra decisione ci ha fatto vincere. Un primo gruppo di donne ottenne di fare immediatamente il passaggio di categoria e altre successivamente, ma l’importante era il principio. In quell’occasione l’Aib venne tenuta fuori dall’intesa perché i padroni temevano che il concetto di parità si trasferisse anche alle altre aziende di Lumezzane.
In quell’ambiente io risultavo un po’ strana: democristiana, amica dei comunisti, andavo a fare le riunioni alla casa del popolo che in paese chiamavano “casa del diavolo”.
C’è stato un periodo che ero ufficialmente in azienda, ma causa del mio incarico ero sempre fuori perché, in occasione delle assemblee congressuali e di quelle per il contratto, c’era un gruppetto di delegati che usciva dalle fabbriche  per andare nelle aziende più piccole. Siccome avevamo un bel monte ore e la possibilità di utilizzarle, il sindacato utilizzava noi delegati per gestirle. In quel periodo c’era abbastanza unità con la Fiom, per cui, di fatto, anche se non ufficialmente, ho fatto un periodo quasi a tempo pieno.

Un’esperienza interessante è stata quella del consiglio di zona unitario, il primo nato a livello nazionale. Per un bel periodo ha funzionato. E’ stato nel ‘74, ‘75.
Ci fu un periodo che Lumezzane era diventato un po’ il centro dell’attività sindacale. Abbiamo fatto diverse battaglie sul sociale, come quella per ottenere dalle aziende un contributo dell’uno per cento per costruire una mensa interzonale. Il solo fatto di chiederlo fu un grosso risultato, tenendo conto della mentalità di Lumezzane. Da un lato alle imprese si chiedeva un contributo per realizzare quello che lo Stato non realizzava, e ai lavoratori, che sono innamorati dei soldi, si domandava di dare un contributo di solidarietà per i lavoratori delle piccole officine che non avevano i servizi che invece di cui disponevano coloro che erano dipendenti delle aziende maggiori. Un’altra idea che avevamo era quello di finanziare la costruzione di un asilo nido, ma se ne parlava in maniera molto timida. Non abbiamo raggiunto i nostri obiettivi sul territorio: perché Lucchini la mensa non la voleva, mentre l’asilo nido non è stato fatto perché ci si scontava con una gerarchia cattolica molto arretrata per cui i bambini dovevano essere tenuti in casa.
Nella mentalità di Lumezzane al primo posto c’è il lavoro e la domenica andare alla messa, con i padroni che si mostravano nel fare l’offerta. Il periodo delle lotte sindacali è stato forse l’unico momento in cui Lumezzane ha espresso qualcosa di diverso.
Il consiglio di zona era stato capace di aggregare al suo interno lavoratori con culture e idee differenti, ma che superando le differenze riuscivano a lavorare insieme ed era nato un bel gruppo

Con l’azienda abbiamo sempre avuto problemi, ma mai grandi questioni. Il titolare in quegli anni era il vicepresidente dell’Associazione industriali per cui venivano sempre poste questioni di principio. Per ogni piccola questione si doveva andare in associazione. Il riconoscimento delle rsa e del primo consiglio di fabbrica ci sono costati tantissimo. Era un continuo “andare in gita” in città. In quel periodo non sapevo più dove abitavo. La vertenza l’abbiamo risolta con l’azienda che riconosceva solo le rsa mentre gli altri componenti il consiglio di fabbrica vennero considerati degli esperti, anche se poi avevano gli stessi diritti e lo stesso monte ore. 
Se dovessero pagarmi tutte le ore di sciopero che ho fatto potrei fare il giro del mondo, credo di aver fatto circa quattromila ore di sciopero durante la mia vita di lavoro. La Gnutti partecipava a tutti gli scioperi nazionali. Abbiamo fatto anche gli scioperi per il Cile.

Il nostro tipo di produzione ci rendeva diversi dalle altre fabbriche di Lumezzane. Io sostenevo pertanto che non si dovevano fare piattaforme aziendali “con il ciclostile” come invece si usava, perché i problemi erano diversi.  Inoltre si doveva guardare al sociale, perché si doveva guardare anche fuori dalla fabbrica e l’esperienza del consiglio di zona doveva servire anche a questo.
Le vertenze allora erano sui cottimi, l’ambiente. E’ mancata la formazione a livello di fabbrica. Noi ci raccordavamo con la Carlo Gnutti di Chiari per quanto riguarda il settore, con la provincia sulle richieste diverse dal salario.
Avevamo l’infermeria col medico, la mensa. La fabbrica aveva una storia sindacale che col tempo aveva consentito piccole ma continue conquiste.

Noi della Gnutti eravamo considerati poveri perché stavamo a mangiare in mensa e non andavamo a casa, quando hanno capito che l’inflazione erodeva i salari allora anche gli altri lavoratori hanno capito che la mensa era importante. Ma la mensa interaziendale non è partita a causa di Lucchini. Lucchini, infatti, ad un certo punto ha comperato l’azienda e ne è diventato amministratore delegato. Secondo me a lui non interessava la Gnutti, la prese solo perché per diventare presidente dell’Aib non si doveva essere solamente un imprenditorie delle acciaierie, lui doveva cambiare immagine. Se in quel momento avessero venduto la Beretta o un’altra azienda non siderurgica lui l’avrebbe acquistata.
Lucchini non l’abbiamo quasi mai visto in azienda e probabilmente non ha mai interferito nella gestione, ma il suo scopo era quello di fra sparire il sindacato in azienda. Aveva lanciato l’idea del premio di presenza per cui se uno era ammalato perdeva dei soldi.

Già nel 76, in occasione del primo incontro con il sindacato di fabbrica, aveva detto alcune cose che avrebbero dovuto farci pensare, ma è stato solo nell’83 che è iniziato il processo che poi ha portato alla chiusura della fabbrica, con la vendita di un reparto e del villaggio Gnutti.
Io l’avevo contestata e per un certo periodo siamo riusciti a bloccarla, costituendo poi una cooperativa che acquisì le case facendo risparmiare il 25 per cento del costo ai lavoratori. Abbiamo fatto un accordo che prevedeva inoltre che una decina di appartamenti andassero al Comune gratuitamente per farne abitazioni per anziani.
Quando è iniziato il processo di ristrutturazione eravamo ancora in più di quattrocento persone. La prima vendita ha riguardato un intero reparto di fonderia ed ha coinvolto 183 persone che sono passate direttamente a Ghidini, ed è rimasta la meccanica. Poi nell’84 Lucchini ha venduto anche il resto sempre a Ghidini.
Quando è stato venduto il primo pezzo è venuta fuori la demagogia della Fiom. Cremaschi ha lanciato immediatamente la proposta di occupare la fabbrica. Io mi sono opposta perché si trattava di un cambio di proprietà e il nuovo padrone aveva assicurato il mantenimento del posto per tutti i lavoratori di quel reparto.
Già nel ’78, in occasione di una vertenza di contrattazione interna, la Flm si era spaccata, ed era intervenuto come mediatore il sindaco di Brescia, avvocato Trebeschi. La Fiom a Brescia era guidata da Sabatini e Cremaschi, che hanno cercato di scaricare su di lui, perché democristiano, le responsabilità per la mancata intesa. Ci fu una famosa assemblea al cinema Odeon e noi ci eravamo preparati programmando unitariamente una certa gestione dell’evento. Nessuno di noi doveva fare interventi e lo scopo era quello di ascoltare i lavoratori. Si era in un clima di tensione, era in atto il blocco delle merci e c’erano lavoratori che da tre mesi non percepivano lo stipendio. La fabbrica lavorava, ma le merci prodotte non potevano uscire e venivano accantonate in azienda. La direzione sosteneva che non c’erano garanzie di sicurezza. Qualche lavoratore si era licenziato volontariamente perché per molti che avevano famiglia era dura andare avanti. Si aprì l’assemblea con una relazione tecnica, come concordato, ma subito dopo, contrariamente a quanto deciso unitariamente, la Fiom fece intervenire un suo delegato, uno dei più accesi. Sostenendo una cosa assurda: siccome ci sono cento macchine, nel reparto ci devono essere cento lavoratori, ma l’azienda aveva già risposto dicendo che se effettivamente avessero lavorato cento macchine allora sarebbero serviti cento operai, ma siccome ne lavoravano solo cinquanta, cosa potevano fare gli altri operai? Noi ci siamo riuniti immediatamente insieme a Franco Castrezzati per rispondere alla Fiom. Alla fine anche la Fiom ha firmato l’intesa, ma solo dopo l’intervento della segreteria nazionale. Le loro posizioni, in verità, non erano molto differenti dalla nostre, ma volevano sempre forzare le situazioni, così come quando ha comperato Lucchini, volevano scioperare solo perché aveva comperato Lucchini.
Anche quando Lucchini ha venduto la prima parte dello stabilimento la Fiom voleva subito occupare la fabbrica. Siccome di occupazioni ne avevo viste tante, ma nessuna era mai riuscita, ero riuscita a proporre in alternativa tre giorni di sciopero, sapendo che più di così non si poteva fare, anche perché le persone che lavoravano nel reparto venduto non avevano nessun interesse a scioperare. Avevo convinto tutti gli impiegati a sostenere questa proposta. Per cui per tre giorni la ditta è restata chiusa e per la prima volta tutti gli impiegati sono rimasti a casa.
A volte rimpiango di non aver lasciato la Gnutti in quel periodo, ma mi sembrava di tradire il sindacato e i lavoratori. L’anno successivo Lucchini ha venduto l’intero stabilimento, abbandonando alcune lavorazioni e trasferendo i lavoratori nello stabilimento di San Zeno a Brescia.
Molti lavoratori, però, hanno scelto altre strade perché non volevano trasferirsi. Io ho fatto due anni e mezzo di cassa integrazione straordinaria a zero ore, che ho iniziato a fare appena si è parlato di vendere e sono rientrata dopo un accordo firmato in una canonica, quando finalmente è stato tolto il veto nei miei confronti. Non era molta la gente messa in cassa perché i più sono stati assorbiti quasi subito in un nuovo reparto di lavorazione della barra di ottone aperto a Brescia, mentre in cassa sono rimasti gli invalidi e i “rompiballe”.
L’azienda non ha licenziato nessuno anche se in alcuni casi li ha costretti ad andarsene, attraverso incentivi, o perché era venuta a sapere che qualcuno lavorava in nero durante il periodo di cassa. Si tenga conto che non c’erano anticipazioni e quindi la cassa veniva pagata dopo un anno e per chi aveva famiglia era impossibile vivere in quel modo.
In quel periodo sono rimasta a casa e ho seguito solamente le attività sindacali. Sono rientrata in fabbrica a Brescia nell’86.
Rifarei tutto quello che ho fatto, mi spiace solo che Lumezzane, perdendo la Gnutti, abbia perso il punto di riferimento e tutta l’iniziativa sindacale della zona.

Alla Lucchini di Brescia ho lavorato dall’86 al 2002. Qui la situazione era totalmente diversa, i lavoratori provenivano quasi tutti dalla campagna, con una mentalità individualista. E con nessuna conoscenza delle realtà sindacale, che faticavano persino a distinguere tra Fim e Fiom. Io ho fatto il delegato fino al 2001. E’ stata un’esperienza non particolarmente felice. La direzione aveva fatto un accordo con la Fiom per cui loro avevano piena agibilità in fabbrica, ma non dovevano rompere le scatole sulle questioni interne. In fabbrica ci lavoravano 350 persone. Io ho cercato di lottare contro questo clima, ma non c’è stato niente da fare. I lavoratori si iscrivevano alla Fiom fin dai primi giorni del loro ingresso in azienda e quando arrivavo io erano già tesserati. La direzione sosteneva la Fiom per garantirsi la pace sociale. Di fatto il sindacato non c’era.
Quando ho protestato contro il grande numero di ore di straordinario che si facevano, il delegato della Fiom è andato in direzione a dire che, siccome non c’erano vertenze aperte, si poteva fare tutto lo straordinario che si voleva. Io dicevo, va bene, ma almeno contrattiamolo, cerchiamo di avere una contropartita.
Ho proposto la costituzione di una banca ore e di un fondo mutualistico prima che entrassero nel contratto nazionale, ma a livello aziendale non sono passati per l’opposizione della Fiom.
A San Zeno esiste ancora la Eredi Gnutti che è tornata alla famiglia dopo che Lucchini se n’è andato.

Sono entrata in contatto con il gruppo Om per ragioni soprattutto politiche. Avevamo un circolo culturale “Vicolo San Clemente” dove ci riunivamo, eravamo i cattocomunisti. Alla vita del circolo partecipava una buona fetta della borghesia illuminata bresciana, dai Martinazzoli ai Bazoli. Li sono entrata in contatto con il gruppo della Om e questo rapporto si è trasferito anche sul piano sindacale.
In occasione del famoso congresso di Manerbio io ero con il gruppo Om. Per i miei compagni di lavoro il mondo finiva al crocevia di Lumezzane ed ero io che partecipava agli incontri bresciani, quando tornavo gli raccontavo cosa era successo, per cui mi seguivano e quindi quando c’è stato da votare hanno votato con me. Con il gruppo Om la sintonia era totale e anche oggi continuiamo a ritrovarci.
Probabilmente io sono stata l’unica di Lumezzane a schierarsi con gli autoconvocati. Di fatto la Cgil c’era, ma ufficialmente no, perché anche lei dichiarava di essere contro, ma aveva messo a disposizione le sue strutture. Io ero in cassa integrazione, mantenevo i contatti con l’azienda ed ero libera per partecipare a tutte le iniziative. Sono stata alle riunioni alla Camera di commercio di Brescia, alla manifestazione di Roma, quando è intervenuto Paletti. Alla Camera di commercio la mia zona della Val Trompia non c’era perché per loro l’importante era essere d’accordo con la segreteria.
Questa vicenda ci ha aiutato ad avere un rapporto paritario con la Fiom anche in fabbrica, perché il fatto di avere un orizzonte più largo rispetto alle mere questioni sindacali, il fatto di avere rapporti a livello provinciale, senza la mediazione dell’operatore, mi ha aiutato ad avere rapporto più costruttivi. All’inizio ho avuto dei problemi perché ero della Dc, poi invece la situazione è cambiata.
In azienda me la cavavo da sola e non avevo bisogno che venisse sempre l’operatore a seguirci. Io ho fatto anche una protesta contro l’operatore della Fim, Martino Troncatti, perché l’avevano mandato a fare il controllore dell’operatore che avevamo per ragioni di schieramento all’interno della Fim.
Io ho conservato un buon rapporto con la Fiom, anche dopo la rottura della Flm. Più volte è accaduto che qualche delegato della Fiom dicesse “se va benne all’Anna, va bene anche per noi”.

Alla Gnutti è volato qualche schiaffo agli impiegati, ma niente altro. Non c’è stato nessun problema di violenza o altro.
Ero in manifestazione il giorno dell’attentato di Piazza della Loggia e per pochi minuti mi sono salvata. Ero appena passata da dove c’è stata l’esplosione, stavo cercando un delegato della Gnutti di Brescia, ho salutato alcuni amici e mi hanno detto che era appena passato e probabilmente era sotto il portichetto e mi sono spostata in quella direzione. Pioveva, stavamo ridendo, c’era appena stato il referendum sul divorzio e noi avevamo fatto il documento dei cattolici del no e dicevamo con alcuni della Om “è il papa che sta pregando perché piova, così ci punisce” quando abbiamo sentito l’esplosione. All’inizio pensavamo al temporale poi sono andata là e ho visto. A casa mia è successo il finimondo, non volevano dirlo a mio padre, non volevano fargli sentire il Gazzettino padano perché sapevano che io ero in piazza. Mio fratello è venuto a cercarmi, ma io sono stata in ospedale con alcuni feriti, dovevo organizzare Lumezzane, l’occupazione aperta che si faceva solo alla Gnutti. Sono tornata a casa la sera tardi, bagnata come un pulcino senza che nessuno sapesse dov’ero.
Sono stata anche a Reggio Calabria, contro i fascisti di “boia chi molla”, con le bombe che saltavano sui binari per fermare i treni dei sindacati. Noi siamo arrivati a Reggio che era tutto finito e non c’è rimasto altro da fare che tornare indietro. Quella è stata l’unica volta in cui mio padre mi ha detto “tu alle manifestazioni non ci vai più”. Sono stata a tantissime altre manifestazioni a Roma, a Milano. A volte mi sono ritrovata in mezzo a scontri tra polizia e autonomi, una volta mi sono salvata grazie all’intervento di Marco Castrezzati che mi ha avvisato di quello che stava accadendo.

Non sono sposata. Ho dedicato tutto il mio tempo all’impegno sindacale e politico. Ero sempre fuori casa e ogni tanto mio padre mi chiedeva se abitavo ancora lì con lui. E’ stata un’esperienza che rifarei, perché la mia generazione ha attraversato uno dei periodi più interessanti della vita politica e sindacale del paese.

Sono in pensione e sto finendo l’anno sabbatico, poi riprenderò, perché ho voglia ancora di impegnarmi. E’ un tarlo che continua a rodermi.

Ho partecipato a centinaia di iniziative formative. Sono state esperienze di condivisione di storie diverse, di allargamento della mente. Io sono per la formazione continua, sia a livello aziendale che a livello sindacale.