Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006
I fascisti li ho conosciuti fin da piccolo, perché nella casa di ringhiera di Milano dove abitavo c’era la sede della Ronchi, una delle prime squadre nere della città. Era in via Panfilo Castaldi 32, la strada che univa corso Buenos Aires con la vecchia stazione centrale, in un quartiere relativamente nuovo. Lì sono nato il 19 febbraio 1916 e nel ‘17 mio fratello. Con noi, oltre ai miei genitori, viveva una nonna.
La mia era una famiglia socialista. Mio papà è morto nel ’19, quando
avevo tre anni. Era un operaio specializzato, lavorava alla Stigler ed era
iscritto alla Fiom. Era originario del Piemonte e prima di venire a Milano era
emigrato in Argentina.
Mia mamma, prima
di sposarsi, era stata membro di commissione interna e dopo la morte del papà
aveva ripreso a lavorare. In casa avevamo tutto ciò che ci serviva. Facevamo
anche del lavoro a domicilio, sfrangiando i tessuti. In più, acquistavamo delle
merci che poi rivendevamo a rate con un sovrapprezzo e io avevo il compito di
riscuotere i pagamenti.
Ho studiato fino
alla settima classe. Mia madre, per evitare di farci entrare nei Balilla, aveva
iscritto me e mio fratello ai giovani lupetti dell’Azione cattolica. Sciolta
l’Azione cattolica, nel 1929 sono rimasto in oratorio e, sotto la guida di un
sacerdote, insieme a un amico, ho studiato per fare l’esame di ginnasio, che ho
superato da privatista. Come contropartita pulivamo la chiesa, organizzavamo il
doposcuola dei bambini e facevamo altri lavoretti in parrocchia. Più avanti mi
sono iscritto alla scuola serale per diventare maestro, ma non ci sono
riuscito.
Nel 1933 sono
stato assunto in ufficio alla Brill, dove sono rimasto fino a quando, nel
gennaio del 1941, sono stato richiamato per il servizio militare. Nella sanità
a Palermo. Nei primi mesi del ’42 sono partito per la Russia dove sono rimasto
fino alla ritirata del 1943.
L’8 settembre
ero a casa, perché la mia abitazione era stata bombardata, e sono entrato in
clandestinità in un paesino della Brianza dove mi sono impegnato nella
resistenza.
Corrente
cristiana
Alla fine della
guerra un seminarista, che era rimasto nascosto insieme a me, mi ha presentato
a Spagnolini, un professore di liceo, ex “migliolino”, che nel periodo della
clandestinità si era impegnato insieme a Luigi Morelli per organizzare la corrente
cristiana della Cgil. Così, subito dopo il 25 aprile del ‘45, mi sono trovato
accanto a Spagnolini nel sindacato unitario dei braccianti, di cui lui era
segretario provinciale milanese. La sede era nel vecchio palazzo dei sindacati
fascisti dei contadini.
In quel momento
nel sindacato c’erano persone che credevano fortemente nel loro impegno,
provenivano dagli oratori, dalle file dell’Azione cattolica. In quel periodo ho
conosciuto Luigi Clerici e le Acli.
Per me è stata
un’esperienza nuova, anche perché non avevo mai incontrato dei braccianti. Da
maggio fino a ottobre ho girato la bassa milanese, scoprendo un mondo che non
conoscevo: la cascina che si chiudeva la sera, il San Martino, le operaie
orticole, le mondine. Un mondo cui mi sono affezionato.
La vita per noi
sindacalisti cattolici era dura, perché la stragrande maggioranza dei
lavoratori era comunista.
Una delle prime
battaglie condotte con Spagnolini è stato il tentativo di portare i coltivatori
diretti nella Camera del lavoro. La maggior parte del sindacato dei contadini
era costituita dai braccianti, mentre noi avevamo una grande forza in Brianza e
nell’alto milanese tra i coltivatori diretti. L’unione avrebbe rafforzato le
nostre posizioni. Una battaglia persa, perché la Democrazia cristiana non ha
voluto e ha puntato sulla Coldiretti. Un tentativo lo ha rifatto anche Giulio
Pastore al momento dell’uscita dalla Cgil, ma al primo congresso della Libera
Cgil intervenne Paolo Bonomi spiegando che i piccoli agricoltori non sarebbero
confluiti nel sindacato dei lavoratori.
Sul finire
dell’anno ho chiesto di cambiare settore. Ne ho parlato con Morelli e con Ugo
Zino, che era vice segretario della corrente alla Camera del lavoro
provinciale, e mi hanno mandato a Casalpusterlengo a seguire la zona sindacale.
La prima volta che sono andato ero accompagnato da un ex sindacalista del
‘19-‘20, Moioli. Appena scesi dal treno, ad aspettarci c’era il segretario
comunista di zona. <<Tu sei il rappresentante della corrente
democristiana?>> <<Si>> <<Come ti chiami?>>
<<Pastore>> <<E tu?>> <<Moioli>>
<<Bene, adesso fate una bella cosa, riprendete il treno e tornate a
Milano>>. Sono arrivati altri due, ci hanno messo in mezzo e ci hanno
riaccompagnati alla stazione.
Alla Camera del
lavoro milanese, dopo aver sentito il nostro racconto, il segretario comunista
fece finta di arrabbiarsi, telefonò al suo compagno e mi rimandò a
Casalpusterlengo. In quei mesi dormivo con la pistola sul comodino perché quasi
tutte le mattine si trovavano dei cadaveri per strada.
Nel direttivo di
zona c’erano tre rappresentanti per ciascuna corrente oltre ai tre
responsabili. In tutto eravamo dodici persone. Pochi giorni dopo il mio arrivo
il segretario comunista propose di fare uno sciopero alla Saffa. Io, dopo
essermi consultato con la segreteria milanese, mi dichiarai contrario. Venne
convocato il direttivo e si mise la proposta ai voti. Il risultato fu di undici
a favore e un solo voto contrario: il mio. Anche i rappresentanti della mia
corrente e i tre socialisti avevano votato con i comunisti.
Dopo questa
vicenda il segretario comunista, che aveva una faccia da delinquente ma aveva
avuto il fratello ucciso dai fascisti, si mise in testa non so se di torturarmi
o farmi cambiare idea. Mi ha portato in una pensioncina a mangiare e poi ci siamo
fermati a dormire. Mi ha fatto passare la notte a parlare di argomenti strani,
di cui ero in parte digiuno: la verginità della madonna e altre questioni
simili.
Col tempo sono
riuscito ad organizzarmi, ho trovato dei lavoratori disposti ad impegnarsi, come
Luigi Filippazzi che aveva 18 o 19 anni ed era già in commissione interna alla
Saffa. Soldi, però, non ne arrivavano. Non avevo ancora famiglia, ma non potevo
continuare a farmi mantenere da mio fratello. Allora sono andato di nuovo da
Zino e gli ho detto che sarei tornato alla Brill, che mi aveva chiamato più
volte. Lui mi propose di andare a Rho, dove c’era un posto e dove avrei avuto
uno stipendio, perché la locale Camera del lavoro disponeva di parecchie
risorse.
Sindacalista a Rho
Il primo dicembre del ’46 ero segretario della corrente cristiana della zona di Rho. Responsabile della corrente comunista era Farina, un ex anarchico diventato comunista, una
brava persona da cui ho imparato parecchio, in particolare nelle trattative. A
mezzogiorno lui andava a casa a mangiare e io avevo tutto il tempo per lavorare
per la mia componente.
A Rho ho trovato
tante persone che si davano da fare, ragazze che stavano nelle commissioni
interne, che lavoravano nelle tessiture, ma anche nelle tintorie, dove per la maggior parte erano uomini. Sono
riuscito, con loro e con l’aiuto di un operatore che lavorava con Spagnolini -
perché nella zona c’erano ancora molti braccianti agricoli -, a rafforzare la
nostra corrente. Questo giovane si chiamava Santo Pagani e aveva vent’anni.
Intanto
partecipavo alle iniziative formative. A Saronno ho sentito per la prima volta
il professor Mario Romani, il teorico e ispiratore del sindacato nuovo.
Non avevamo
grandi contatti con la Camera del lavoro provinciale, eravamo una bella zona,
forte. Le categorie più numerose erano quelle dei tessili, dell’abbigliamento e
dei meccanici.
Il direttivo di
zona faceva parte del consiglio provinciale delle leghe, che rappresentava il
nostro collegamento più diretto con il sindacato milanese. Ci si riuniva nel
salone della Camera del lavoro, in Porta Vittoria, dove spesso i nostri non
potevano parlare perché erano fischiati.
Durante gli anni
dell’unità abbiamo combattuto contro i comunisti, ma coloro che avevano fatto
insieme la resistenza avevano mantenuto buoni rapporti. C’erano grandi scontri
nei direttivi, ma c’era qualcosa che li univa, che era più del semplice
rispetto. Ho imparato molte cose dai comunisti: la dedizione, il modo di fare,
il modo di parlare un po’ più duramente. Insomma, ho imparato a stare al mondo.
Nel 1947 ho
partecipato al congresso nazionale di Firenze della Cgil in cui è stata
superata la pariteticità. Così Farina venne nominato segretario della nostra
lega, ma dopo le elezioni politiche del ’48, Farina, che non era un tribuno, è
stato cacciato dalla segreteria.
Ho partecipato
all’ultima riunione provinciale unitaria delle leghe, nel 1948, presenti Ettore
Calvi e Gabriele Invernizzi, il leader comunista. L’incontro era partito
abbastanza bene, quando ad un certo punto si è alzato uno che ha detto:
<<non stiamo qui a fare queste scemenze>>, mettendo il mitra sul
tavolo. <<Noi dobbiamo andare nelle strade>>. A quel punto Calvi ha
preso la parola dicendo che non poteva accettare simili discorsi e abbiamo
deciso di andarcene, ma Calvi non riusciva a venire via perché era bloccato dai
delegati. Allora un mio amico e collega di Rho ha stretto tra le gambe un
comunista e iniziato a prenderlo a pugni, gridando: <<è uno di quelli là,
è uno di quelli là>>. Convinti che il picchiatore fosse un comunista e il
malcapitato uno della corrente cristiana, e sorpresi da quel gesto, ci fu un
attimo di disorientamento che consentì a Calvi di lasciare la Camera del
lavoro. Quel giorno a Milano è finita la Cgil unitaria.
Era consuetudine
che un pomeriggio alla settimana i sindacalisti della corrente cristiana si
riunissero presso la sede delle Acli in via della Signora per discutere e
confrontarsi. Ci siamo ritrovati lì. Faceva caldo, era luglio e ci siamo messi
con i tavolini nel cortile.
Pagani, pieno di
entusiasmo, in quei giorni voleva andare in piazza a tenere dei controcomizi e
io gli dicevo: <<non sono coraggioso. Ho fatto la resistenza, ma sono
sempre stato convinto che portare a casa la pelle sia una bella cosa>>.
Io, per andare in piazza e mettere a repentaglio la mia vita e quella dei miei
amici, non ero disponibile.
Dopo la rottura
il clima, anche dalla nostra parte, era di scontro duro. Io non ero molto
d’accordo. Alla prima riunione del comitato direttivo della lega di Rho ci
siamo presentati solo noi della corrente cristiana e siamo venuti via. Loro poi
hanno raccontato che ci avevano cacciato, in verità non era accaduto proprio
nulla.
Con Pagani e
un’impiegata abbiamo trovato ospitalità presso l’oratorio di Rho. Le impiegate
della nostra parte erano due, ma ne abbiamo potuto assumere solo una perché non
avevamo i soldi e abbiamo scelto la più giovane, una ragazzina che poi ha
sposato Pagani.
Io e Pagani in
quel momento eravamo più che amici: siamo diventati una cosa sola.
Con l’aiuto di
alcuni operai e braccianti che avevano fatto parte della Lega del Leone, la
lega bianca attiva a Rho fino all’avvento del fascismo, che avevano conservato
una forte tradizione ed erano ancora vicini al vecchio assistente, siamo
riusciti a formare il nostro gruppo. Ci davano una mano anche alcuni operai che
abitavano a Rho e lavoravano a Milano o in altre zone.
Quando c’era il
sindacato unitario, la corrente cristiana a Rho aveva circa quattromila
iscritti, e in breve tempo siamo riusciti a recuperarli quasi tutti. Era un bel
numero, perché a quel tempo maestri, dipendenti degli enti locali, ferrovieri,
addetti ai trasporti erano iscritti direttamente al sindacato a Milano.
Nell’agosto del
‘48 in Val Formazza, alla presenza di Luigi Clerici, Alessandro Buttè, Giulio
Pastore, Mario Romani, Giuseppe Lazzati, mons. Giovanni Battista Guazzetti, in
una settimana sono state gettate le basi del sindacato nuovo. Romani ha dato la
linea. Era stato prigioniero in America e aveva conosciuto il sindacato
statunitense. E lì è iniziato anche il confronto con Clerici e Ester Angiolini,
che volevano dare vita a un sindacato cristiano. Io ho cominciato a capire che
si doveva sostenere l’impostazione di Romani e Pastore, anche se era difficile.
Sarebbe stato più facile seguire Clerici, che
aveva il sostegno delle Acli. In quell’occasione abbiamo scelto di
costruire un sindacato libero, autonomo, democratico.
E’ stata una
settimana intensa di lavoro. Un giorno solo siamo andati in gita a mangiare la
polenta. Tornati a Milano abbiamo iniziato a diffondere quell’idea di
sindacato.
Nel settembre
del ’48 mi sono sposato. Mia moglie era una donna impegnata. Nel ’42 era stata
licenziata dalla Snia perché aveva iniziato uno sciopero da sola.
Dal centro non
arrivavano più contributi. I soldi venivano dalle tessere. Fino alla rottura
c’era stata la trattenuta sindacale direttamente sulla busta paga. Ma la prima
cosa che hanno fatto i padroni appena avvenuta la spaccatura è stata di
toglierla. L’obiettivo era quello di far morire il sindacato. Noi abbiamo
subito costruito un’organizzazione per far fronte alla nuova situazione e
favorire le adesioni. Nelle aziende abbiamo attivato i collettori che
raccoglievano mensilmente le quote. Ma, soprattutto, abbiamo creato una rete di
responsabili di paese: volontari che periodicamente venivano in sede a riferire
che cosa accadeva lì intorno.
Grazie al
sostegno di persone che ci erano vicine, e alla nostra organizzazione,
cominciarono ad arrivare un po’ di soldi. A me, che andavo sempre in giro in
bicicletta, venne offerto un motorino Guzzino. Con questi aiuti abbiamo potuto
lasciare l’oratorio e aprire una sede. Così è cresciuta la possibilità di fare
proseliti. Non sempre lo stipendio a fine mese era assicurato, ma era
certamente meglio dei primi mesi del ’45 quando non vedevo proprio niente.
Intanto era
stata creata la Libera Cgil e io mantenevo i contatti con il provinciale a
Milano. Quando nel ’50 è nata la Cisl ero ancora a Rho.
Ho scoperto che
c’erano persone molto preparate tra le nostre file, molte ragazze, in
particolare, che sotto il fascismo avevano fatto l’esperienza dei raggi
bianchi. Erano sempre pronte a difendere le nostre posizioni e, anche se non
erano persone che andavano a picchiare i pugni sui tavoli, erano coraggiose e
non tacevano in mezzo agli operai della Cgil.
Io ho avuto due
grandi fortune: quella di aveva davanti a me delle figure molto forti come
Calvi, Morelli, Zino, Piervirgilio Ortolani e altri e di essere circondato da
lavoratori con grande disponibilità, impegno, voglia di lavorare.
Osservando i
leader dell’organizzazione ho capito subito che avrei potuto essere un bravo
secondo, ma non avrei mai potuto diventare un numero uno. Ma la forza di
trasmettere ciò che i nostri dirigenti proponevano mi veniva proprio dal vedere
le persone che si davano da fare intorno a me. Ho conservato le agende del ’48
e del ’49. Non c’è un sabato pomeriggio, una domenica mattina liberi.
Nel ’50 avevamo
una sede sulla via principale di Rho e riuscivamo a pagare gli stipendi. La
Camera del lavoro aveva più tessere di noi, ma disponeva di meno quattrini,
perché faceva più fatica a raccoglierli.
In zona, in quel
periodo, iniziarono a sorgere dei contrasti al nostro interno tra coloro che
volevano sempre spingere e chi, come me, era più riflessivo. Se era necessario
non mi tiravo indietro, ma sapevo che nelle fabbriche non era facile vivere e
non si poteva sempre chiedere di più alla gente.
Nel settembre
del ’50 abbiamo eletto la nuova segreteria di zona e io sono arrivato secondo.
Ortolani, allora, che in quel momento era il vice di Calvi, mi ha mandato a
chiamare per capire che cosa era successo. Io gli ho spiegato che non c’era una
guerra contro di me, ma lui mi ha detto che aveva bisogno di qualcuno che lo
aiutasse a Milano e mi ha proposto di andare in sede provinciale a organizzare
l’Ufficio tecnico. Così ho lasciato Rho e sono andato a lavorare in via Tadino,
sede della Cisl provinciale.
Questa
esperienza mi ha dato la possibilità di conoscere il modo di fare le
trattative, soprattutto grazie alle persone che di volta in volta mi
affiancavano. Io non riuscivo a capire subito dove era il punto debole
dell’avversario e questi mi hanno insegnato a colpirli, metterli a disagio. Io
sono la negazione in queste cose, ma qualcosa sono riuscito ad imparare.
Non mi sentivo
mortificato nel nuovo incarico. Frequentavo l’Ufficio provinciale del lavoro,
l’Assolombarda, andavo a trattare con gli artigiani, i commercianti e ogni
tanto tornavo ancora a Rho
L’esperienza di Monza
All’ufficio tecnico sono rimasto pochi mesi, fino alla fine del ’50. Infatti, in quei mesi il segretario della zona di Monza aveva deciso di dimettersi per ragioni familiari e mi hanno proposto di andare a sostituirlo. Avevo delle conoscenze a Monza: c’era Moioli, quello che mi aveva accompagnato a Caslpusterlengo ed era rientrato a lavorare alla Frette, ma frequentava la sede. Ero amico di Passoni, che era molto bravo nelle trattative. Conoscevo anche Amleto Barni, ma sapevo che era una zona difficile per una persona che arrivava dall’esterno. Alla fine ho accettato e ci sono andato. Alla prima riunione del direttivo di zona mi hanno subito fatto capire che un conto era Milano e un altro Monza. Tenevano molto alla loro autonomia e sulla sede non c’era scritto “Zona di Monza Cisl di Milano” ma “Cisl di Monza e Brianza”.
Però sono stato
ben accolto, hanno capito che non puntavo alla carriera e non avevo ambizioni politiche e sono rimasto
lì. In occasione del congresso del ‘51 sono stato eletto segretario di zona.
A Monza sono
rimasto fino al ’56. In quel periodo Romani voleva mandarmi al Centro studi di
Firenze, ma ho rifiutato perché volevo rimanere con mia moglie e il figlio,
nato nel ’49.
La sede era
composta dall’ufficio delle impiegate che si trovava all’ingresso, un piccolo
salone e il mio ufficio. Nella mia stanza c’era un tavolaccio che arrivava da
una caserma, che ci avevano procurato nostri amici iscritti alla Cisl che
lavoravano al Distretto militare. Sul tavolo c’era un fornello a gas, con la
sua bombola, con sopra un pentolone che cominciava a bollire alle nove di
mattina. Dentro c’era un minestrone di
verdura con aglio, pancetta, qualche volta lardo.
A mezzogiorno si
spegneva e andavamo tutti davanti alle fabbriche a fare piccoli comizi,
incontrare i lavoratori. I nostri erano contenti di vederci accanto ai
cancelli, sapere che non erano soli. Quella della Cisl era una presenza forte.
In questo modo abbiamo iniziato a vincere nelle commissioni interne, altro che
gli aiuti americani!
Eravamo in sei o
sette. Uno di noi tornava in sede un quarto d’ora prima per buttare la pasta e
quando si rientrava mangiavamo tutti insieme. Qualche volta è capitato che un
datore di lavoro venisse in ufficio e ci trovasse intenti a mangiare e questo
era in qualche modo mortificante.
A Monza c’era
l’associazione industriali e ci si confrontava con loro. Anche loro erano
autonomi da Milano.
Alla Cisl di
Monza facevano capo le zone di Lissone, Seregno, Desio, Carate, Cesano Maderno,
Gorgonzola, Vimercate. Si lavorava insieme e insieme un bel giorno siamo andati
a Milano a dire che volevamo staccarci e diventare autonomi a tutti gli
effetti, come aveva già fatto Lecco con Como. Ortolani ci rispose: <<fate
come volete, vi accorgerete cosa vuol dire>>. Noi avevamo fatto i nostri
conti ed eravamo convinti che ce l’avremmo fatta. Calvi invece, da cui sono andato insieme ad
Alessandro Mariani, ci disse: <<voi siete degli assassini, farete morire
le categorie più deboli, come quella del vetro, del legno, che vivono con i
pochi soldi che mandate a Milano!>>. A quelle parole non abbiamo saputo
rispondere. Siamo tornati a testa bassa dai colleghi di Monza, che aspettavano
con ansia il nostro arrivo, e non siamo stati capaci di spiegare quello che era
accaduto. In quell’occasione è morta l’idea di Monza autonoma, ritornata con
successo più avanti, con la nascita dei nuovi comprensori sindacali.
Qualche tempo
dopo Ortolani mi mandò a chiamare, dicendomi che dovevo tornare a Milano. A me
dispiaceva lasciare quella zona. Ormai era la mia famiglia. Mia moglie, che era
incinta del secondo figlio, nell’ultimo periodo prendeva il treno e veniva a
Monza e la sera mangiavamo tutti insieme nel cortile. Poi tornavamo a casa a
Milano, in corso Como, dove abitavamo.
Mentre ero
segretario di Monza, per due anni, attraverso Romani, ho frequentato, insieme
ad un assistente delle Acli, la scuola Toniolo in Cattolica. Dispensati però
dal dover fare la tesina finale del primo anno, perché dovevamo cercare i
documenti della lega bianca di Achille Grandi a Monza relativi agli anni 1919,
’20 e ‘21.
Avevamo iniziato
la ricerca perché sapevamo che la Feltrinelli stava raccogliendo quelle carte.
Abbiamo trovato tre o quattro casse di materiali che erano conservati da un ex
collaboratore di Grandi, un piccolo industriale tessile. Sono riuscito a persuaderlo
ad incontrare Romani e alla fine lui è stato capace di convincerlo a farsi dare
i documenti. E’ arrivato con un macchinone, ha caricato le casse e le ha
portate via. Ma questa è stata una disgrazia, perché le testimonianze scritte
sono andate a finire alle Acli di Milano, dove hanno corso il rischio di essere
nuovamente disperse. Fortunatamente Sergio Zaninelli è riuscito a riunirle e
portarle in Cattolica, anche se diverso materiale è andato definitivamente
perse. Contemporaneamente, con questo sacerdote, ho raccolto le testimonianze
di vecchi sindacalisti. Purtroppo, quando sono tornato a Milano, sono andate
perdute.
In segreteria a Milano
La decisione del mio rientro nel capoluogo lombardo, come componete della segreteria provinciale, venne presa durante un consiglio generale in Val Formazza. Segretario generale era Ettore Calvi, che era anche parlamentare, ma chi guidava la Cisl era Ortolani.
Quando nel 1956,
appena arrivato a Milano, sono sorti dei contrasti con la Cgil per i fatti
d’Ungheria, c’era qualcuno tra di noi che voleva interrompere ogni rapporto
anche nelle commissioni interne. Ne abbiamo discusso e abbiamo approvato un
documento in cui si decise di non rompere definitivamente, perché quello era
l’unico ambito in cui c’erano ancora rapporti unitari e volevamo mantenerli. A
Milano Cisl e Uil organizzarono una raccolta di medicinali e vestiario da portare
agli sfollati d’Ungheria.
La repressione
sovietica spinse alcuni lavoratori e operatori sindacali ad abbandonare la Cgil
e a rivolgersi alle nostre sedi. Allora la confederazione mandò a Milano
qualche ex comunista ed ex socialista che avevano abbandonato le Camere del
lavoro. Erano persone che avevano cambiato ed erano diventate come gli
apostoli, con grande convinzione e preparazione. Li chiamavamo i
“paracadutisti”, perché erano stati paracadutati dalla confederazione a Milano
e provenivano da altre parti d’Italia.
Al congresso
milanese del ’59 è toccato a me, insieme a Ortolani, alla presenza di Bruno
Storti, dire a Calvi che non lo avremmo più eletto segretario generale e che al
suo posto avremmo votato Ortolani. Storti, anche lui onorevole, si è
inalberato. Calvi, invece, non certo con entusiasmo, ha capito che tutto era
stato preparato per cambiare, perché la Cisl di Milano non voleva più avere
come leader un uomo eletto in Parlamento. A Calvi offrimmo la presidenza del
consiglio generale. In quei frangenti, per primi abbiamo applicato la scelta
dell’autonomia di cui si cominciava a discutere in casa Cisl.
Non è stato
facile, perché eravamo i figliocci di Calvi e dirgli che doveva lasciare ci
pesava. Calvi ci ha voluto bene e noi l’abbiamo sempre aiutato nelle campagne
elettorali, pur senza coinvolgere l’organizzazione. In congresso ci fu
battaglia e Renzo Oriani, leader della Cisl alla Innocenti, insieme a un gruppo
che non condivideva la nostra impostazione, abbandonò l’assemblea. A Milano
diversi giovani da tempo dicevano che non era giusto avere sindacalisti eletti
nei consigli comunali, provinciali o in Parlamento. E siamo riusciti a far
passare quella linea. Da quel giorno Calvi non è più intervenuto nelle vicende
interne della Cisl e non ha accettato di fare il presidente del consiglio
generale.
Venne così
eletto Ortolani: un uomo d’organizzazione che credeva nell’autonomia e lavorava
per il suo rafforzamento. Io sono diventato segretario organizzativo.
In quel periodo
la confederazione ci mise a disposizione delle risorse per sostenere i piani
settennali che miravano a individuare nuovi operatori da far uscire dalle
fabbriche, incominciando a passare da un tipo di organizzazione orizzontale a
una verticale. L’obiettivo era quello di rafforzare le categorie, ma l’Unione
aveva una certa forza e controllo perché lo stipendio lo pagavamo noi.
I nuovi
operatori venivano inseriti nelle diverse sedi che avevamo iniziato ad aprire
in Milano: al Giambellino, a Niguarda, a Porta Romana, in via Toia. Lavoravano
in rapporto con la categoria, ma dipendevano dalla Cisl. Milano è diventato
così un crogiolo di forze nuove che si sono aggiunte ai vecchi dirigenti
sindacali. Alcuni giovani arrivavano dal centro studi di Firenze, da Barbiana
giunsero anche dei ragazzi di Don Milani.
Avevano tutti
una forte passione e voglia di lavorare. Appena arrivati gli dicevo:
<<appuntamento domani mattina alle sei per la distribuzione dei
volantini>>, ma non era necessario metterli alla prova perché era gente
con grande disponibilità e impegno.
Ortolani nel
’63 lasciò la segreteria, sostituito da
Roberto Romei, ma io rimasi responsabile organizzativo. Quando abbiamo deciso
di proporre la candidatura a Romei siamo andati io, Ortolani e le nostre mogli,
insieme a Vittorio Meraviglia, a Perugia. Probabilmente Meraviglia avrebbe
potuto fare il segretario generale, ma noi decidemmo di scegliere un esterno.
Romei non capiva come mai avessimo scelto proprio lui.
Ortolani lo
aveva conosciuto a Roma e i milanesi lo avevano apprezzato per gli accordi che
aveva fatto alla Perugina. Con lui abbiamo sviluppato il percorso unitario, che
in qualche modo avevamo già iniziato con Ortolani.
Romei era un
grande lavoratore. Era sempre coraggioso nel prendere posizione, magari contro
la Cgil, ma titubante nell’assumere decisioni all’interno. Io, invece, spingevo
nei confronti del nazionale. Avevamo sostenuto il cambio della segreteria della
Fim da Franco Volontè a Luigi Macario, facevamo le battaglie contro la Cisl
nazionale, ma in modo democratico: <<oggi la confederazione è questa e
noi dobbiamo seguirla>>, dicevo.
Nel ’63 un
consiglio generale è durato dalle otto di sera alle quattro del mattino. Si
confrontavano la posizione di Pippo Morelli e Pierre Carniti - che era ancora
segretario della Fim a Milano – sostenuta da tutte le categorie dell’industria,
e anche da altri, con quella di Roberto Romei, Romolo Arduini (che però non era
presente) e il sottoscritto. La Cgil aveva indetto uno sciopero per le pensioni
e la confederazione aveva deciso che la Cisl non avrebbe partecipato. Io
sostenevo la linea nazionale, ma fummo battuti. Visto che eravamo stati messi
in minoranza abbiamo deciso di dimetterci. Prima di farlo ho telefonato ad
Arduini per chiedergli se era con noi. Avuto il suo assenso abbiamo annunciato
le dimissioni in consiglio che a quel punto si è diviso: c’era chi urlava,
addirittura qualcuno ci ha sputato addosso. Alla fine la maggioranza si è
schierata con noi. Abbiamo ritirato le dimissioni e non abbiamo aderito allo
sciopero.
Negli anni
sessanta abbiamo scelto subito la linea dell’unità d’azione. Una linea che ho
condiviso e che ci ha portato nel ’68, ’69 a unire i servizi e le categorie di
Cgil, Cisl e Uil all’Umanitaria. Una scelta che ci è costata, perché quando
abbiamo iniziato questo percorso la confederazione ci ha tolto i finanziamenti
che ci dava per pagare gli operatori. Io sostenevo quella scelta. Una mattina ero
in ufficio e venne da me il fotografo della Camera del lavoro che voleva
fotografarmi perché si stava preparando la segreteria unitaria provinciale di
Cgil Cisl e Uil.
Avevamo iniziato
promuovendo degli incontri con Cgil e Uil. Siamo partiti noi della Cisl con i
socialisti della Uil e della Camera del lavoro. Ci si trovava per scambiarsi
delle opinioni, si andava a mangiare insieme. E’ stato un cammino molto lento.
Ad un certo punto ci siamo scambiati l’impegno a sostenerci a vicenda in caso
di necessità. Il processo è andato avanti e siamo arrivati all’incontro tra le
segreterie provinciali di Cgil Cisl Uil. Il primo appuntamento è stato un
pranzo organizzato alcuni giorni prima di Natale. Così, quando è arrivato il
’68, noi eravamo già su quella strada.
Quando Romei è
andato a Roma, il suo posto è stato preso da Mario Colombo. Io venni confermato
segretario organizzativo.
La città di
Milano viveva momenti di grande tensione, con le manifestazioni degli studenti
e i cortei che si susseguivano ogni sabato. Anche in Cisl, nel consiglio
generale, c’era chi sosteneva che noi si dovesse scendere in piazza accanto a
loro, in un momento in cui gli stessi comunisti avevano delle perplessità ed
erano messi ai margini da quei movimenti.
Spesso
partecipavo alle manifestazioni, per vedere e capire cosa succedeva, ma anche
perché mio figlio era mezzo anarchico ed ero preoccupato.
Una domenica la
polizia aveva deciso di sgomberare l’albergo occupato in Piazza Fontana, mentre
in San Babila c’era un convegno dei fascisti. Il sabato precedente, in una
riunione alla Cisl, molti avevano detto che avremmo dovuto essere in piazza a
difendere gli studenti dei fascisti, ma per strada della Cisl c’ero solo io e
loro sono rimasti a casa. Poi ne è arrivato uno, che per combinazione partecipava
ad una riunione dei chimici nella sede della Cgil. Nel frattempo si era sparsa
la notizia che i fascisti stavano tentando di rompere i cordoni per attaccare
gli anarchici asserragliati nell’albergo occupato. Quando l’ho visto, gli ho
detto: <<mettiamoci vicino all’Arcivescovado, per male che vada ci
facciamo aprire la porta>>.
Contrasti in casa Cisl
All’inizio degli anni ’70 in segreteria c’erano Mario Colombo, Sandro Antoniazzi, Giuseppe Ricca, Dino Longoni e io. Al congresso del ’69 l’Unione di Milano era schierata nella quasi totalità per il cambiamento degli orientamenti e degli uomini al vertice della Cisl nazionale. Anche al successivo congresso del ‘73, seppure con qualche distinguo, Milano sostenne la linea del cambiamento. E’ a partire da quella data che iniziò a mostrasi una frattura all’interno della segreteria. Inizialmente Colombo era sostenuto da tutti. Ma poi la situazione è cambiata. Io, che non ho mai voluto che si creasse un nostro gruppo, insieme a Ricca e Longoni, chiedevo il cambiamento della confederazione, ma non attraverso una completa rottura. Sostenevo la via della costruzione dell’unità, ma senza accelerare troppo. Sarebbe stato stupido mettersi insieme immediatamente.
Avevo sempre
sofferto per la rottura sindacale. E non mi sarebbe piaciuto dover ripetere
nuovamente un’esperienza simile. Anche perché ero convinto che in quel caso
nessuno ci avrebbe più aiutato. Non c’erano più le Acli.
Con Colombo
abbiamo dato vita alla Fondazione Seveso, affidata a Tiziano Treu, dove prevalevano
le idee socialiste. Io, invece, che sono stato iscritto alla Democrazia
cristiana dal ’45 al ’72, ho continuato a votare Dc. In quel momento in Cisl e
nella segreteria emergevano queste differenze politiche.
All’inizio
Colombo non era completamente schierato, ma poi si è avvicinato alla parte
socialista. C’era Pippo Morelli, poi è arrivato Pippo Torri, entrambi orientati
in quella direzione. Però non era un confronto portato all’eccesso, era una
discussione serena. I contrasti erano su piccole questioni. Io protestavo:
<<perché quando dobbiamo assumere qualcuno, prendiamo sempre quelli con
le vostre idee?>>.
Poi i toni
sono diventati più aspri. A un certo
punto Ricca ha lasciato la segreteria ed è tornato alla sua categoria dei
tranvieri. Longoni invece era più duro. Sono stati creati due gruppi, ma io
sono rimasto fuori. Avevo amici da entrambe le parti, tant’è che per circa
vent’anni ad ogni congresso sono stato rieletto ed ho sempre fatto il
segretario organizzativo.
Capivo le
ragioni del contrasto e mi sentivo più vicino alle posizioni di Longoni. Però
vedevo che l’idea con cui ero cresciuto, che era quello dello stare insieme,
del condividere tutto, del discutere pur restando uniti stava crollando, e mi
sono preso un esaurimento. Capivo che non ce la facevo più. Ero il più anziano
del gruppo.
Vedevo
l’avversione, quasi l’odio, che stavano entrando nel nostro sindacato.
Sentimenti che io non ho mai sentito neanche nei confronti della Cgil, perché
ho sempre mantenuto rapporti di amicizia con alcuni di loro.
Colombo scriveva
lettere a Longoni e Longoni scriveva lettere a Colombo. Ne ho letto qualcuna,
ma dentro di me dicevo: <<che mondo è mai questo?>>. Soprattutto,
mi faceva star male il pensiero di dover fare subito l’unità sindacale.
Sono rimasto in Cisl fino al 1976, finché nel febbraio di quell’anno mi
sono dimesso e li ho mandati tutti a quel paese. Vedevo che la Cisl milanese si
stava sfaldando e non potevo sopportarlo. Non mi sono più sentito di andare
avanti. Alla fine ho detto: <<io maturo i sessant’anni, non ne voglio più
sapere>>. E sono venuto via.
Nel ’77 c’è stato il congresso, con un grande scontro tra il gruppo di
Dino Longoni, la minoranza, e il gruppo di Mario Colombo, che è risultato
vincitore.
Ho fatto
trentuno anni di organizzatore sindacale. Non ho mai avuto incarichi al di
fuori del provinciale, ma ai congressi di Milano sono risultato sempre eletto
al secondo o al terzo posto: erano tutti i miei amici che lavoravano per me.
Dopo il congresso del 1977 Colombo mi ha proposto di passare al regionale,
oppure di essere eletto come proboviro. Mi hanno sollecitato anche ad entrare
nella segreteria dei pensionati. Io ho detto di no a tutti e mi sono dimesso da
ogni incarico.
Dopo l’accordo
di San Valentino e la rottura della poca unità sindacale che era stata
costruita qualcuno mi ha telefonato chiedendomi se ero contento e io l’ho
mandato a quel paese. Perché, come non volevo un’unità portata
all’esasperazione, non volevo una rottura di quel poco che di unitario si
poteva fare insieme.
E ho provato una
grandissima commozione quando Pierre Carniti, al Palasport, ha fatto entrare le
nuove bandiere della Cisl. Sono andato ad abbracciarlo.