martedì 28 aprile 2020

ALESSANDRO PASTORE - Cisl - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Autonomia e contratti. Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia”, a cura di Guido Baglioni e Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma, 2006

I fascisti li ho conosciuti fin da piccolo, perché nella casa di ringhiera di Milano dove abitavo c’era la sede della Ronchi, una delle prime squadre nere della città. Era in via Panfilo Castaldi 32, la strada che univa corso Buenos Aires con la vecchia stazione centrale, in un quartiere relativamente nuovo. Lì sono nato il 19 febbraio 1916 e nel ‘17 mio fratello. Con noi, oltre ai miei genitori, viveva una nonna.
La mia era una famiglia socialista. Mio papà è morto nel ’19, quando avevo tre anni. Era un operaio specializzato, lavorava alla Stigler ed era iscritto alla Fiom. Era originario del Piemonte e prima di venire a Milano era emigrato in Argentina.

Mia mamma, prima di sposarsi, era stata membro di commissione interna e dopo la morte del papà aveva ripreso a lavorare. In casa avevamo tutto ciò che ci serviva. Facevamo anche del lavoro a domicilio, sfrangiando i tessuti. In più, acquistavamo delle merci che poi rivendevamo a rate con un sovrapprezzo e io avevo il compito di riscuotere i pagamenti.
Ho studiato fino alla settima classe. Mia madre, per evitare di farci entrare nei Balilla, aveva iscritto me e mio fratello ai giovani lupetti dell’Azione cattolica. Sciolta l’Azione cattolica, nel 1929 sono rimasto in oratorio e, sotto la guida di un sacerdote, insieme a un amico, ho studiato per fare l’esame di ginnasio, che ho superato da privatista. Come contropartita pulivamo la chiesa, organizzavamo il doposcuola dei bambini e facevamo altri lavoretti in parrocchia. Più avanti mi sono iscritto alla scuola serale per diventare maestro, ma non ci sono riuscito.
Nel 1933 sono stato assunto in ufficio alla Brill, dove sono rimasto fino a quando, nel gennaio del 1941, sono stato richiamato per il servizio militare. Nella sanità a Palermo. Nei primi mesi del ’42 sono partito per la Russia dove sono rimasto fino alla ritirata del 1943.
L’8 settembre ero a casa, perché la mia abitazione era stata bombardata, e sono entrato in clandestinità in un paesino della Brianza dove mi sono impegnato nella resistenza.

Corrente cristiana
Alla fine della guerra un seminarista, che era rimasto nascosto insieme a me, mi ha presentato a Spagnolini, un professore di liceo, ex “migliolino”, che nel periodo della clandestinità si era impegnato insieme a Luigi Morelli per organizzare la corrente cristiana della Cgil. Così, subito dopo il 25 aprile del ‘45, mi sono trovato accanto a Spagnolini nel sindacato unitario dei braccianti, di cui lui era segretario provinciale milanese. La sede era nel vecchio palazzo dei sindacati fascisti dei contadini.
In quel momento nel sindacato c’erano persone che credevano fortemente nel loro impegno, provenivano dagli oratori, dalle file dell’Azione cattolica. In quel periodo ho conosciuto Luigi Clerici e le Acli.
Per me è stata un’esperienza nuova, anche perché non avevo mai incontrato dei braccianti. Da maggio fino a ottobre ho girato la bassa milanese, scoprendo un mondo che non conoscevo: la cascina che si chiudeva la sera, il San Martino, le operaie orticole, le mondine. Un mondo cui mi sono affezionato.
La vita per noi sindacalisti cattolici era dura, perché la stragrande maggioranza dei lavoratori era comunista.
Una delle prime battaglie condotte con Spagnolini è stato il tentativo di portare i coltivatori diretti nella Camera del lavoro. La maggior parte del sindacato dei contadini era costituita dai braccianti, mentre noi avevamo una grande forza in Brianza e nell’alto milanese tra i coltivatori diretti. L’unione avrebbe rafforzato le nostre posizioni. Una battaglia persa, perché la Democrazia cristiana non ha voluto e ha puntato sulla Coldiretti. Un tentativo lo ha rifatto anche Giulio Pastore al momento dell’uscita dalla Cgil, ma al primo congresso della Libera Cgil intervenne Paolo Bonomi spiegando che i piccoli agricoltori non sarebbero confluiti nel sindacato dei lavoratori.
Sul finire dell’anno ho chiesto di cambiare settore. Ne ho parlato con Morelli e con Ugo Zino, che era vice segretario della corrente alla Camera del lavoro provinciale, e mi hanno mandato a Casalpusterlengo a seguire la zona sindacale. La prima volta che sono andato ero accompagnato da un ex sindacalista del ‘19-‘20, Moioli. Appena scesi dal treno, ad aspettarci c’era il segretario comunista di zona. <<Tu sei il rappresentante della corrente democristiana?>> <<Si>> <<Come ti chiami?>> <<Pastore>> <<E tu?>> <<Moioli>> <<Bene, adesso fate una bella cosa, riprendete il treno e tornate a Milano>>. Sono arrivati altri due, ci hanno messo in mezzo e ci hanno riaccompagnati alla stazione.
Alla Camera del lavoro milanese, dopo aver sentito il nostro racconto, il segretario comunista fece finta di arrabbiarsi, telefonò al suo compagno e mi rimandò a Casalpusterlengo. In quei mesi dormivo con la pistola sul comodino perché quasi tutte le mattine si trovavano dei cadaveri per strada.
Nel direttivo di zona c’erano tre rappresentanti per ciascuna corrente oltre ai tre responsabili. In tutto eravamo dodici persone. Pochi giorni dopo il mio arrivo il segretario comunista propose di fare uno sciopero alla Saffa. Io, dopo essermi consultato con la segreteria milanese, mi dichiarai contrario. Venne convocato il direttivo e si mise la proposta ai voti. Il risultato fu di undici a favore e un solo voto contrario: il mio. Anche i rappresentanti della mia corrente e i tre socialisti avevano votato con i comunisti.
Dopo questa vicenda il segretario comunista, che aveva una faccia da delinquente ma aveva avuto il fratello ucciso dai fascisti, si mise in testa non so se di torturarmi o farmi cambiare idea. Mi ha portato in una pensioncina a mangiare e poi ci siamo fermati a dormire. Mi ha fatto passare la notte a parlare di argomenti strani, di cui ero in parte digiuno: la verginità della madonna e altre questioni simili.
Col tempo sono riuscito ad organizzarmi, ho trovato dei lavoratori disposti ad impegnarsi, come Luigi Filippazzi che aveva 18 o 19 anni ed era già in commissione interna alla Saffa. Soldi, però, non ne arrivavano. Non avevo ancora famiglia, ma non potevo continuare a farmi mantenere da mio fratello. Allora sono andato di nuovo da Zino e gli ho detto che sarei tornato alla Brill, che mi aveva chiamato più volte. Lui mi propose di andare a Rho, dove c’era un posto e dove avrei avuto uno stipendio, perché la locale Camera del lavoro disponeva di parecchie risorse.

Sindacalista a Rho
Il primo dicembre del ’46 ero segretario della corrente cristiana della zona di Rho. Responsabile della corrente comunista era Farina, un ex anarchico diventato comunista, una brava persona da cui ho imparato parecchio, in particolare nelle trattative. A mezzogiorno lui andava a casa a mangiare e io avevo tutto il tempo per lavorare per la mia componente.
A Rho ho trovato tante persone che si davano da fare, ragazze che stavano nelle commissioni interne, che lavoravano nelle tessiture, ma anche nelle tintorie, dove  per la maggior parte erano uomini. Sono riuscito, con loro e con l’aiuto di un operatore che lavorava con Spagnolini - perché nella zona c’erano ancora molti braccianti agricoli -, a rafforzare la nostra corrente. Questo giovane si chiamava Santo Pagani e aveva vent’anni.
Intanto partecipavo alle iniziative formative. A Saronno ho sentito per la prima volta il professor Mario Romani, il teorico e ispiratore del sindacato nuovo.
Non avevamo grandi contatti con la Camera del lavoro provinciale, eravamo una bella zona, forte. Le categorie più numerose erano quelle dei tessili, dell’abbigliamento e dei meccanici.
Il direttivo di zona faceva parte del consiglio provinciale delle leghe, che rappresentava il nostro collegamento più diretto con il sindacato milanese. Ci si riuniva nel salone della Camera del lavoro, in Porta Vittoria, dove spesso i nostri non potevano parlare perché erano fischiati.
Durante gli anni dell’unità abbiamo combattuto contro i comunisti, ma coloro che avevano fatto insieme la resistenza avevano mantenuto buoni rapporti. C’erano grandi scontri nei direttivi, ma c’era qualcosa che li univa, che era più del semplice rispetto. Ho imparato molte cose dai comunisti: la dedizione, il modo di fare, il modo di parlare un po’ più duramente. Insomma, ho imparato a stare al mondo.
Nel 1947 ho partecipato al congresso nazionale di Firenze della Cgil in cui è stata superata la pariteticità. Così Farina venne nominato segretario della nostra lega, ma dopo le elezioni politiche del ’48, Farina, che non era un tribuno, è stato cacciato dalla segreteria.
Ho partecipato all’ultima riunione provinciale unitaria delle leghe, nel 1948, presenti Ettore Calvi e Gabriele Invernizzi, il leader comunista. L’incontro era partito abbastanza bene, quando ad un certo punto si è alzato uno che ha detto: <<non stiamo qui a fare queste scemenze>>, mettendo il mitra sul tavolo. <<Noi dobbiamo andare nelle strade>>. A quel punto Calvi ha preso la parola dicendo che non poteva accettare simili discorsi e abbiamo deciso di andarcene, ma Calvi non riusciva a venire via perché era bloccato dai delegati. Allora un mio amico e collega di Rho ha stretto tra le gambe un comunista e iniziato a prenderlo a pugni, gridando: <<è uno di quelli là, è uno di quelli là>>. Convinti che il picchiatore fosse un comunista e il malcapitato uno della corrente cristiana, e sorpresi da quel gesto, ci fu un attimo di disorientamento che consentì a Calvi di lasciare la Camera del lavoro. Quel giorno a Milano è finita la Cgil unitaria.
Era consuetudine che un pomeriggio alla settimana i sindacalisti della corrente cristiana si riunissero presso la sede delle Acli in via della Signora per discutere e confrontarsi. Ci siamo ritrovati lì. Faceva caldo, era luglio e ci siamo messi con i tavolini nel cortile.
Pagani, pieno di entusiasmo, in quei giorni voleva andare in piazza a tenere dei controcomizi e io gli dicevo: <<non sono coraggioso. Ho fatto la resistenza, ma sono sempre stato convinto che portare a casa la pelle sia una bella cosa>>. Io, per andare in piazza e mettere a repentaglio la mia vita e quella dei miei amici, non ero disponibile.
Dopo la rottura il clima, anche dalla nostra parte, era di scontro duro. Io non ero molto d’accordo. Alla prima riunione del comitato direttivo della lega di Rho ci siamo presentati solo noi della corrente cristiana e siamo venuti via. Loro poi hanno raccontato che ci avevano cacciato, in verità non era accaduto proprio nulla.
Con Pagani e un’impiegata abbiamo trovato ospitalità presso l’oratorio di Rho. Le impiegate della nostra parte erano due, ma ne abbiamo potuto assumere solo una perché non avevamo i soldi e abbiamo scelto la più giovane, una ragazzina che poi ha sposato Pagani.
Io e Pagani in quel momento eravamo più che amici: siamo diventati una cosa sola.
Con l’aiuto di alcuni operai e braccianti che avevano fatto parte della Lega del Leone, la lega bianca attiva a Rho fino all’avvento del fascismo, che avevano conservato una forte tradizione ed erano ancora vicini al vecchio assistente, siamo riusciti a formare il nostro gruppo. Ci davano una mano anche alcuni operai che abitavano a Rho e lavoravano a Milano o in altre zone.
Quando c’era il sindacato unitario, la corrente cristiana a Rho aveva circa quattromila iscritti, e in breve tempo siamo riusciti a recuperarli quasi tutti. Era un bel numero, perché a quel tempo maestri, dipendenti degli enti locali, ferrovieri, addetti ai trasporti erano iscritti direttamente al sindacato a Milano.
Nell’agosto del ‘48 in Val Formazza, alla presenza di Luigi Clerici, Alessandro Buttè, Giulio Pastore, Mario Romani, Giuseppe Lazzati, mons. Giovanni Battista Guazzetti, in una settimana sono state gettate le basi del sindacato nuovo. Romani ha dato la linea. Era stato prigioniero in America e aveva conosciuto il sindacato statunitense. E lì è iniziato anche il confronto con Clerici e Ester Angiolini, che volevano dare vita a un sindacato cristiano. Io ho cominciato a capire che si doveva sostenere l’impostazione di Romani e Pastore, anche se era difficile. Sarebbe stato più facile seguire Clerici, che  aveva il sostegno delle Acli. In quell’occasione abbiamo scelto di costruire un sindacato libero, autonomo, democratico.
E’ stata una settimana intensa di lavoro. Un giorno solo siamo andati in gita a mangiare la polenta. Tornati a Milano abbiamo iniziato a diffondere quell’idea di sindacato.
Nel settembre del ’48 mi sono sposato. Mia moglie era una donna impegnata. Nel ’42 era stata licenziata dalla Snia perché aveva iniziato uno sciopero da sola.
Dal centro non arrivavano più contributi. I soldi venivano dalle tessere. Fino alla rottura c’era stata la trattenuta sindacale direttamente sulla busta paga. Ma la prima cosa che hanno fatto i padroni appena avvenuta la spaccatura è stata di toglierla. L’obiettivo era quello di far morire il sindacato. Noi abbiamo subito costruito un’organizzazione per far fronte alla nuova situazione e favorire le adesioni. Nelle aziende abbiamo attivato i collettori che raccoglievano mensilmente le quote. Ma, soprattutto, abbiamo creato una rete di responsabili di paese: volontari che periodicamente venivano in sede a riferire che cosa accadeva lì intorno.
Grazie al sostegno di persone che ci erano vicine, e alla nostra organizzazione, cominciarono ad arrivare un po’ di soldi. A me, che andavo sempre in giro in bicicletta, venne offerto un motorino Guzzino. Con questi aiuti abbiamo potuto lasciare l’oratorio e aprire una sede. Così è cresciuta la possibilità di fare proseliti. Non sempre lo stipendio a fine mese era assicurato, ma era certamente meglio dei primi mesi del ’45 quando non vedevo proprio niente.
Intanto era stata creata la Libera Cgil e io mantenevo i contatti con il provinciale a Milano. Quando nel ’50 è nata la Cisl ero ancora a Rho.
Ho scoperto che c’erano persone molto preparate tra le nostre file, molte ragazze, in particolare, che sotto il fascismo avevano fatto l’esperienza dei raggi bianchi. Erano sempre pronte a difendere le nostre posizioni e, anche se non erano persone che andavano a picchiare i pugni sui tavoli, erano coraggiose e non tacevano in mezzo agli operai della Cgil.
Io ho avuto due grandi fortune: quella di aveva davanti a me delle figure molto forti come Calvi, Morelli, Zino, Piervirgilio Ortolani e altri e di essere circondato da lavoratori con grande disponibilità, impegno, voglia di lavorare.
Osservando i leader dell’organizzazione ho capito subito che avrei potuto essere un bravo secondo, ma non avrei mai potuto diventare un numero uno. Ma la forza di trasmettere ciò che i nostri dirigenti proponevano mi veniva proprio dal vedere le persone che si davano da fare intorno a me. Ho conservato le agende del ’48 e del ’49. Non c’è un sabato pomeriggio, una domenica mattina liberi.
Nel ’50 avevamo una sede sulla via principale di Rho e riuscivamo a pagare gli stipendi. La Camera del lavoro aveva più tessere di noi, ma disponeva di meno quattrini, perché faceva più fatica a raccoglierli.
In zona, in quel periodo, iniziarono a sorgere dei contrasti al nostro interno tra coloro che volevano sempre spingere e chi, come me, era più riflessivo. Se era necessario non mi tiravo indietro, ma sapevo che nelle fabbriche non era facile vivere e non si poteva sempre chiedere di più alla gente.
Nel settembre del ’50 abbiamo eletto la nuova segreteria di zona e io sono arrivato secondo. Ortolani, allora, che in quel momento era il vice di Calvi, mi ha mandato a chiamare per capire che cosa era successo. Io gli ho spiegato che non c’era una guerra contro di me, ma lui mi ha detto che aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a Milano e mi ha proposto di andare in sede provinciale a organizzare l’Ufficio tecnico. Così ho lasciato Rho e sono andato a lavorare in via Tadino, sede della Cisl provinciale.
Questa esperienza mi ha dato la possibilità di conoscere il modo di fare le trattative, soprattutto grazie alle persone che di volta in volta mi affiancavano. Io non riuscivo a capire subito dove era il punto debole dell’avversario e questi mi hanno insegnato a colpirli, metterli a disagio. Io sono la negazione in queste cose, ma qualcosa sono riuscito ad imparare.
Non mi sentivo mortificato nel nuovo incarico. Frequentavo l’Ufficio provinciale del lavoro, l’Assolombarda, andavo a trattare con gli artigiani, i commercianti e ogni tanto tornavo ancora a Rho

L’esperienza di Monza
All’ufficio tecnico sono rimasto pochi mesi, fino alla fine del ’50. Infatti, in quei mesi il segretario della zona di Monza aveva deciso di dimettersi per ragioni familiari e mi hanno proposto di andare a sostituirlo. Avevo delle conoscenze a Monza: c’era Moioli, quello che mi aveva accompagnato a Caslpusterlengo ed era rientrato a lavorare alla Frette, ma frequentava la sede. Ero amico di Passoni, che era molto bravo nelle trattative. Conoscevo anche Amleto Barni, ma sapevo che era una zona difficile per una persona che arrivava dall’esterno. Alla fine ho accettato e ci sono andato. Alla prima riunione del direttivo di zona mi hanno subito fatto capire che un conto era Milano e un altro Monza. Tenevano molto alla loro autonomia e sulla sede non c’era scritto “Zona di Monza Cisl di Milano” ma “Cisl di Monza e Brianza”.
Però sono stato ben accolto, hanno capito che non puntavo alla carriera e  non avevo ambizioni politiche e sono rimasto lì. In occasione del congresso del ‘51 sono stato eletto segretario di zona.
A Monza sono rimasto fino al ’56. In quel periodo Romani voleva mandarmi al Centro studi di Firenze, ma ho rifiutato perché volevo rimanere con mia moglie e il figlio, nato nel ’49.
La sede era composta dall’ufficio delle impiegate che si trovava all’ingresso, un piccolo salone e il mio ufficio. Nella mia stanza c’era un tavolaccio che arrivava da una caserma, che ci avevano procurato nostri amici iscritti alla Cisl che lavoravano al Distretto militare. Sul tavolo c’era un fornello a gas, con la sua bombola, con sopra un pentolone che cominciava a bollire alle nove di mattina.  Dentro c’era un minestrone di verdura con aglio, pancetta, qualche volta lardo.
A mezzogiorno si spegneva e andavamo tutti davanti alle fabbriche a fare piccoli comizi, incontrare i lavoratori. I nostri erano contenti di vederci accanto ai cancelli, sapere che non erano soli. Quella della Cisl era una presenza forte. In questo modo abbiamo iniziato a vincere nelle commissioni interne, altro che gli aiuti americani!
Eravamo in sei o sette. Uno di noi tornava in sede un quarto d’ora prima per buttare la pasta e quando si rientrava mangiavamo tutti insieme. Qualche volta è capitato che un datore di lavoro venisse in ufficio e ci trovasse intenti a mangiare e questo era in qualche modo mortificante.
A Monza c’era l’associazione industriali e ci si confrontava con loro. Anche loro erano autonomi da Milano.
Alla Cisl di Monza facevano capo le zone di Lissone, Seregno, Desio, Carate, Cesano Maderno, Gorgonzola, Vimercate. Si lavorava insieme e insieme un bel giorno siamo andati a Milano a dire che volevamo staccarci e diventare autonomi a tutti gli effetti, come aveva già fatto Lecco con Como. Ortolani ci rispose: <<fate come volete, vi accorgerete cosa vuol dire>>. Noi avevamo fatto i nostri conti ed eravamo convinti che ce l’avremmo fatta.  Calvi invece, da cui sono andato insieme ad Alessandro Mariani, ci disse: <<voi siete degli assassini, farete morire le categorie più deboli, come quella del vetro, del legno, che vivono con i pochi soldi che mandate a Milano!>>. A quelle parole non abbiamo saputo rispondere. Siamo tornati a testa bassa dai colleghi di Monza, che aspettavano con ansia il nostro arrivo, e non siamo stati capaci di spiegare quello che era accaduto. In quell’occasione è morta l’idea di Monza autonoma, ritornata con successo più avanti, con la nascita dei nuovi comprensori sindacali.
Qualche tempo dopo Ortolani mi mandò a chiamare, dicendomi che dovevo tornare a Milano. A me dispiaceva lasciare quella zona. Ormai era la mia famiglia. Mia moglie, che era incinta del secondo figlio, nell’ultimo periodo prendeva il treno e veniva a Monza e la sera mangiavamo tutti insieme nel cortile. Poi tornavamo a casa a Milano, in corso Como, dove abitavamo.
Mentre ero segretario di Monza, per due anni, attraverso Romani, ho frequentato, insieme ad un assistente delle Acli, la scuola Toniolo in Cattolica. Dispensati però dal dover fare la tesina finale del primo anno, perché dovevamo cercare i documenti della lega bianca di Achille Grandi a Monza relativi agli anni 1919, ’20 e ‘21.
Avevamo iniziato la ricerca perché sapevamo che la Feltrinelli stava raccogliendo quelle carte. Abbiamo trovato tre o quattro casse di materiali che erano conservati da un ex collaboratore di Grandi, un piccolo industriale tessile. Sono riuscito a persuaderlo ad incontrare Romani e alla fine lui è stato capace di convincerlo a farsi dare i documenti. E’ arrivato con un macchinone, ha caricato le casse e le ha portate via. Ma questa è stata una disgrazia, perché le testimonianze scritte sono andate a finire alle Acli di Milano, dove hanno corso il rischio di essere nuovamente disperse. Fortunatamente Sergio Zaninelli è riuscito a riunirle e portarle in Cattolica, anche se diverso materiale è andato definitivamente perse. Contemporaneamente, con questo sacerdote, ho raccolto le testimonianze di vecchi sindacalisti. Purtroppo, quando sono tornato a Milano, sono andate perdute.

In segreteria a Milano
La decisione del mio rientro nel capoluogo lombardo, come componete della segreteria provinciale, venne presa durante un consiglio generale in Val Formazza. Segretario generale era Ettore Calvi, che era anche parlamentare, ma chi guidava la Cisl era Ortolani.
Quando nel 1956, appena arrivato a Milano, sono sorti dei contrasti con la Cgil per i fatti d’Ungheria, c’era qualcuno tra di noi che voleva interrompere ogni rapporto anche nelle commissioni interne. Ne abbiamo discusso e abbiamo approvato un documento in cui si decise di non rompere definitivamente, perché quello era l’unico ambito in cui c’erano ancora rapporti unitari e volevamo mantenerli. A Milano Cisl e Uil organizzarono una raccolta di medicinali e vestiario da portare agli sfollati d’Ungheria.
La repressione sovietica spinse alcuni lavoratori e operatori sindacali ad abbandonare la Cgil e a rivolgersi alle nostre sedi. Allora la confederazione mandò a Milano qualche ex comunista ed ex socialista che avevano abbandonato le Camere del lavoro. Erano persone che avevano cambiato ed erano diventate come gli apostoli, con grande convinzione e preparazione. Li chiamavamo i “paracadutisti”, perché erano stati paracadutati dalla confederazione a Milano e provenivano da altre parti d’Italia.
Al congresso milanese del ’59 è toccato a me, insieme a Ortolani, alla presenza di Bruno Storti, dire a Calvi che non lo avremmo più eletto segretario generale e che al suo posto avremmo votato Ortolani. Storti, anche lui onorevole, si è inalberato. Calvi, invece, non certo con entusiasmo, ha capito che tutto era stato preparato per cambiare, perché la Cisl di Milano non voleva più avere come leader un uomo eletto in Parlamento. A Calvi offrimmo la presidenza del consiglio generale. In quei frangenti, per primi abbiamo applicato la scelta dell’autonomia di cui si cominciava a discutere in casa Cisl.
Non è stato facile, perché eravamo i figliocci di Calvi e dirgli che doveva lasciare ci pesava. Calvi ci ha voluto bene e noi l’abbiamo sempre aiutato nelle campagne elettorali, pur senza coinvolgere l’organizzazione. In congresso ci fu battaglia e Renzo Oriani, leader della Cisl alla Innocenti, insieme a un gruppo che non condivideva la nostra impostazione, abbandonò l’assemblea. A Milano diversi giovani da tempo dicevano che non era giusto avere sindacalisti eletti nei consigli comunali, provinciali o in Parlamento. E siamo riusciti a far passare quella linea. Da quel giorno Calvi non è più intervenuto nelle vicende interne della Cisl e non ha accettato di fare il presidente del consiglio generale.
Venne così eletto Ortolani: un uomo d’organizzazione che credeva nell’autonomia e lavorava per il suo rafforzamento. Io sono diventato segretario organizzativo.
In quel periodo la confederazione ci mise a disposizione delle risorse per sostenere i piani settennali che miravano a individuare nuovi operatori da far uscire dalle fabbriche, incominciando a passare da un tipo di organizzazione orizzontale a una verticale. L’obiettivo era quello di rafforzare le categorie, ma l’Unione aveva una certa forza e controllo perché lo stipendio lo pagavamo noi.
I nuovi operatori venivano inseriti nelle diverse sedi che avevamo iniziato ad aprire in Milano: al Giambellino, a Niguarda, a Porta Romana, in via Toia. Lavoravano in rapporto con la categoria, ma dipendevano dalla Cisl. Milano è diventato così un crogiolo di forze nuove che si sono aggiunte ai vecchi dirigenti sindacali. Alcuni giovani arrivavano dal centro studi di Firenze, da Barbiana giunsero anche dei ragazzi di Don Milani.
Avevano tutti una forte passione e voglia di lavorare. Appena arrivati gli dicevo: <<appuntamento domani mattina alle sei per la distribuzione dei volantini>>, ma non era necessario metterli alla prova perché era gente con grande disponibilità e impegno.
Ortolani nel ’63  lasciò la segreteria, sostituito da Roberto Romei, ma io rimasi responsabile organizzativo. Quando abbiamo deciso di proporre la candidatura a Romei siamo andati io, Ortolani e le nostre mogli, insieme a Vittorio Meraviglia, a Perugia. Probabilmente Meraviglia avrebbe potuto fare il segretario generale, ma noi decidemmo di scegliere un esterno. Romei non capiva come mai avessimo scelto proprio lui.
Ortolani lo aveva conosciuto a Roma e i milanesi lo avevano apprezzato per gli accordi che aveva fatto alla Perugina. Con lui abbiamo sviluppato il percorso unitario, che in qualche modo avevamo già iniziato con Ortolani.
Romei era un grande lavoratore. Era sempre coraggioso nel prendere posizione, magari contro la Cgil, ma titubante nell’assumere decisioni all’interno. Io, invece, spingevo nei confronti del nazionale. Avevamo sostenuto il cambio della segreteria della Fim da Franco Volontè a Luigi Macario, facevamo le battaglie contro la Cisl nazionale, ma in modo democratico: <<oggi la confederazione è questa e noi dobbiamo seguirla>>, dicevo.
Nel ’63 un consiglio generale è durato dalle otto di sera alle quattro del mattino. Si confrontavano la posizione di Pippo Morelli e Pierre Carniti - che era ancora segretario della Fim a Milano – sostenuta da tutte le categorie dell’industria, e anche da altri, con quella di Roberto Romei, Romolo Arduini (che però non era presente) e il sottoscritto. La Cgil aveva indetto uno sciopero per le pensioni e la confederazione aveva deciso che la Cisl non avrebbe partecipato. Io sostenevo la linea nazionale, ma fummo battuti. Visto che eravamo stati messi in minoranza abbiamo deciso di dimetterci. Prima di farlo ho telefonato ad Arduini per chiedergli se era con noi. Avuto il suo assenso abbiamo annunciato le dimissioni in consiglio che a quel punto si è diviso: c’era chi urlava, addirittura qualcuno ci ha sputato addosso. Alla fine la maggioranza si è schierata con noi. Abbiamo ritirato le dimissioni e non abbiamo aderito allo sciopero.
Negli anni sessanta abbiamo scelto subito la linea dell’unità d’azione. Una linea che ho condiviso e che ci ha portato nel ’68, ’69 a unire i servizi e le categorie di Cgil, Cisl e Uil all’Umanitaria. Una scelta che ci è costata, perché quando abbiamo iniziato questo percorso la confederazione ci ha tolto i finanziamenti che ci dava per pagare gli operatori. Io sostenevo quella scelta. Una mattina ero in ufficio e venne da me il fotografo della Camera del lavoro che voleva fotografarmi perché si stava preparando la segreteria unitaria provinciale di Cgil Cisl e Uil.
Avevamo iniziato promuovendo degli incontri con Cgil e Uil. Siamo partiti noi della Cisl con i socialisti della Uil e della Camera del lavoro. Ci si trovava per scambiarsi delle opinioni, si andava a mangiare insieme. E’ stato un cammino molto lento. Ad un certo punto ci siamo scambiati l’impegno a sostenerci a vicenda in caso di necessità. Il processo è andato avanti e siamo arrivati all’incontro tra le segreterie provinciali di Cgil Cisl Uil. Il primo appuntamento è stato un pranzo organizzato alcuni giorni prima di Natale. Così, quando è arrivato il ’68, noi eravamo già su quella strada.
Quando Romei è andato a Roma, il suo posto è stato preso da Mario Colombo. Io venni confermato segretario organizzativo.
La città di Milano viveva momenti di grande tensione, con le manifestazioni degli studenti e i cortei che si susseguivano ogni sabato. Anche in Cisl, nel consiglio generale, c’era chi sosteneva che noi si dovesse scendere in piazza accanto a loro, in un momento in cui gli stessi comunisti avevano delle perplessità ed erano messi ai margini da quei movimenti.
Spesso partecipavo alle manifestazioni, per vedere e capire cosa succedeva, ma anche perché mio figlio era mezzo anarchico ed ero preoccupato.
Una domenica la polizia aveva deciso di sgomberare l’albergo occupato in Piazza Fontana, mentre in San Babila c’era un convegno dei fascisti. Il sabato precedente, in una riunione alla Cisl, molti avevano detto che avremmo dovuto essere in piazza a difendere gli studenti dei fascisti, ma per strada della Cisl c’ero solo io e loro sono rimasti a casa. Poi ne è arrivato uno, che per combinazione partecipava ad una riunione dei chimici nella sede della Cgil. Nel frattempo si era sparsa la notizia che i fascisti stavano tentando di rompere i cordoni per attaccare gli anarchici asserragliati nell’albergo occupato. Quando l’ho visto, gli ho detto: <<mettiamoci vicino all’Arcivescovado, per male che vada ci facciamo aprire la porta>>.

Contrasti in casa Cisl
All’inizio degli anni ’70 in segreteria c’erano Mario Colombo, Sandro Antoniazzi, Giuseppe Ricca, Dino Longoni e io. Al congresso del ’69 l’Unione di Milano era schierata nella quasi totalità per il cambiamento degli orientamenti e degli uomini al vertice della Cisl nazionale. Anche al successivo congresso del ‘73, seppure con qualche distinguo, Milano sostenne la linea del cambiamento. E’ a partire da quella data che iniziò a mostrasi una frattura all’interno della segreteria. Inizialmente Colombo era sostenuto da tutti. Ma poi la situazione è cambiata. Io, che non ho mai voluto che si creasse un nostro gruppo, insieme a Ricca e Longoni, chiedevo il cambiamento della confederazione, ma non attraverso una completa rottura. Sostenevo la via della costruzione dell’unità, ma senza accelerare troppo. Sarebbe stato stupido mettersi insieme immediatamente.
Avevo sempre sofferto per la rottura sindacale. E non mi sarebbe piaciuto dover ripetere nuovamente un’esperienza simile. Anche perché ero convinto che in quel caso nessuno ci avrebbe più aiutato. Non c’erano più le Acli.
Con Colombo abbiamo dato vita alla Fondazione Seveso, affidata a Tiziano Treu, dove prevalevano le idee socialiste. Io, invece, che sono stato iscritto alla Democrazia cristiana dal ’45 al ’72, ho continuato a votare Dc. In quel momento in Cisl e nella segreteria emergevano queste differenze politiche.
All’inizio Colombo non era completamente schierato, ma poi si è avvicinato alla parte socialista. C’era Pippo Morelli, poi è arrivato Pippo Torri, entrambi orientati in quella direzione. Però non era un confronto portato all’eccesso, era una discussione serena. I contrasti erano su piccole questioni. Io protestavo: <<perché quando dobbiamo assumere qualcuno, prendiamo sempre quelli con le vostre idee?>>.
Poi i toni sono  diventati più aspri. A un certo punto Ricca ha lasciato la segreteria ed è tornato alla sua categoria dei tranvieri. Longoni invece era più duro. Sono stati creati due gruppi, ma io sono rimasto fuori. Avevo amici da entrambe le parti, tant’è che per circa vent’anni ad ogni congresso sono stato rieletto ed ho sempre fatto il segretario organizzativo.
Capivo le ragioni del contrasto e mi sentivo più vicino alle posizioni di Longoni. Però vedevo che l’idea con cui ero cresciuto, che era quello dello stare insieme, del condividere tutto, del discutere pur restando uniti stava crollando, e mi sono preso un esaurimento. Capivo che non ce la facevo più. Ero il più anziano del gruppo.
Vedevo l’avversione, quasi l’odio, che stavano entrando nel nostro sindacato. Sentimenti che io non ho mai sentito neanche nei confronti della Cgil, perché ho sempre mantenuto rapporti di amicizia con alcuni di loro.
Colombo scriveva lettere a Longoni e Longoni scriveva lettere a Colombo. Ne ho letto qualcuna, ma dentro di me dicevo: <<che mondo è mai questo?>>. Soprattutto, mi faceva star male il pensiero di dover fare subito l’unità sindacale.
Sono rimasto in Cisl fino al 1976, finché nel febbraio di quell’anno mi sono dimesso e li ho mandati tutti a quel paese. Vedevo che la Cisl milanese si stava sfaldando e non potevo sopportarlo. Non mi sono più sentito di andare avanti. Alla fine ho detto: <<io maturo i sessant’anni, non ne voglio più sapere>>. E sono venuto via.
Nel ’77 c’è stato il congresso, con un grande scontro tra il gruppo di Dino Longoni, la minoranza, e il gruppo di Mario Colombo, che è risultato vincitore.
Ho fatto trentuno anni di organizzatore sindacale. Non ho mai avuto incarichi al di fuori del provinciale, ma ai congressi di Milano sono risultato sempre eletto al secondo o al terzo posto: erano tutti i miei amici che lavoravano per me. Dopo il congresso del 1977 Colombo mi ha proposto di passare al regionale, oppure di essere eletto come proboviro. Mi hanno sollecitato anche ad entrare nella segreteria dei pensionati. Io ho detto di no a tutti e mi sono dimesso da ogni incarico.
Dopo l’accordo di San Valentino e la rottura della poca unità sindacale che era stata costruita qualcuno mi ha telefonato chiedendomi se ero contento e io l’ho mandato a quel paese. Perché, come non volevo un’unità portata all’esasperazione, non volevo una rottura di quel poco che di unitario si poteva fare insieme.
E ho provato una grandissima commozione quando Pierre Carniti, al Palasport, ha fatto entrare le nuove bandiere della Cisl. Sono andato ad abbracciarlo.