domenica 19 aprile 2020

ANGELO FACCOLI - Lucchini Rs – Lovere (Bg)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “La fabbrica sul lago. Conflitto e partecipazione alla Lucchini di Lovere: impresa e sindacato nel comprensorio Camuno sebino”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007

Conflitto, contrattazione e partecipazione: è questo il modello sindacale che ha assicurato il futuro industriale della Sidermeccanica di Lovere e di molte altre realtà industriali del comprensorio. Le modalità di gestione delle ristrutturazioni e delle riorganizzazioni aziendali sono state la dimostrazione concreta del senso di responsabilità e della consapevolezza fatte proprie dalla maggioranza dei delegati sindacali.


“La questione dell’occupazione era particolarmente sentita. Dal 1981 in poi siamo stati travolti dall’ondata di crisi della siderurgia che, unitamente alle ristrutturazioni in atto in altri settori, com­portò il ridimensionamento di oltre cinquemila posti di lavoro - racconta Angelo Faccoli, dipendente dell’Ilva, delegato aziendale e per lunghi anni leader della Firn territoriale -. Ricordo bene quegli anni di forte tensione ideale e valoriale e di forte presenza del sindacato sul territorio. I problemi della Valcamonica e del Sebino non erano centrali per le realtà istituzionali e politiche a livello provinciale, altrettanto si può dire anche delle realtà sindacali. Il nostro territorio era periferia, abbandonato alle sue difficoltà”.
La decisione della Comunità europea di finanziare gli smantellamenti di forni di colata e laminatoi per ridurre le capacità produttive e alzare il livello di utilizzo degli impianti rimasti, azzerava il settore della siderurgia minore in Valcamonica e nell’Alto Sebino.
L’attuazione di quelle scelte colpiva drammaticamente il territorio, in modo assai più pesante rispetto ad altre realtà sviluppate su più settori, essendo il sistema industriale locale basato princi­palmente sulla siderurgia.
“Nella mia esperienza sindacale - ricorda ancora Faccoli – ritengo questo il periodo di maggiore difficoltà e sofferenza. La cultura che abbiamo diffuso e praticato della partecipazione, dell’assunzione della massima responsabilità, governando e contrattando i processi di ristrutturazione e riassetto industriale, mobilitando i lavoratori per sostenere obbiettivi di prospettiva occupazionale e di reddito non ha avuto percorsi facili. Ha incontrato ostacoli soprattutto di carattere politico e ideologico. Abbiamo posto con forza la richiesta che a fronte degli smantellamenti degli impianti ci fossero scelte di riconversione industriale con mobilità e ricollocazione dei lavoratori da posto di lavoro a posto di lavoro, con le e coperture degli ammortizzatori sociali: dalla cassa integrazione ai prepensionamenti”.
In Regione Lombardia le organizzazioni sindacali, in particolare i metalmeccanici della Cisl, trovano interlocutori attenti e sensibili alle problematiche del comprensorio: sono l’assessore all’Industria, Giovanni Ruffini, e l’assessore al Lavoro, Sergio Moroni, i quali condividono e sostengono le richieste sindacali. Si comincia in quegli anni a parlare di Riconversider e di Secas, di strumenti legislativi ed economici che possano facilitare l’arresto dei processi di degrado e forniscano stimoli per lo sviluppo e l’occupazione.

Nella storia sindacale del comprensorio, gli anni ottanta sono importantissimi. Se ancora oggi è possibile affermare che c’è un assetto industriale sostanzialmente consolidato, con la presenza di significative realtà produttive del settore manifatturiero, ciò è frutto quelle scelte di responsabilità, di progettualità, di contrattazione e di positive relazioni industriali.
I lavoratori sostengono le battaglie delle organizzazioni sindacali dei metalmeccanici con una grandissima adesione alla federazione unitaria Flm. Nel 1977 gli occupati all’Italsider di Lovere sono 2.544, il 95 per cento dei quali, 2.426 persone, sono iscritti al sindacato. In quel momento le quote mensili per i tesserati alla Flm vanno dalle 1.400 lire della prima categoria alle 2.450 per la settima.
La situazione delle iscrizioni non cambia nei due anni successivi quando gli occupati scontano una leggera flessione, passando a 2.440 e quindi a 2.432, mentre i tesserati alla Flm scendono prima a 2.377 e poi a 2.301, con una percentuale che sale al 97 per cento nel 1978 per tornare nuovamente al 95 per cento nel 1979.
Si tratta di tassi di adesione altissimi, come allora era abbastanza normale nelle grandi aziende, comunque superiori di quasi venti punti rispetto alla media delle imprese metalmeccaniche sopra i 500 dipendenti della provincia di Bergamo, dove gli iscritti raggiungono il 78 per cento del totale degli occupati.
In anni di forte tensione e grande slancio partecipativo, non si poteva pensare all’iniziativa del sindacato solo all’interno dei luoghi di lavoro. Allo stesso tempo si doveva essere in grado di contrattare sul territorio per costruire una competitività di sistema in grado di promuovere sviluppo sociale ed economico. Diversamente, i costi dell’inefficienza territoriale, dovuti alle carenze infrastrutturali, sarebbero ricaduti come zavorra sulla concorrenzialità dei prodotti industriali che si esportavano in varie parti del mondo.
Già negli anni ottanta le scelte sindacali devono fare i conti con l’internazionalizzazione del lavoro e dell’economia e con la delocalizzazione di segmenti di impianti e di intere unità produttive.
“Siamo stati i primi a doverci confrontare sul piano qualitativo e dei costi dei prodotti - aggiunge Faccoli - e dovevamo tener conto nella contrattazione aziendale di quanto potessero incidere sui volumi produttivi, il fatturato e le turnazioni e, di conseguenza, sui livelli occupazionali. È in questo contesto che emerge l’importanza del ruolo svolto dalla categoria a livello di fabbrica e della confederazione a livello di territorio per migliorare un sistema affinché fosse complessivamente competitivo. Ricordo che non c’era riunione dove non si parlasse di opere viarie e di trasporto, di aree attrezzate, di servizi a sostegno delle imprese, di strumenti economici e legislativi atti a sostenere l’economia”.
Le preoccupazioni principali in quegli anni tuttavia derivano dai tagli all’occupazione, la perdita di posti di lavoro che pesa economicamente e socialmente sulle famiglie. Quando i rappresentanti sindacali si presentano ai tavoli di confronto con gli imprenditori e con le realtà politiche ed istituzionali, propongono regolarmente l’adozione di strumenti che favoriscano il passaggio da posto di lavoro a posto di lavoro.

Alcune leggi regionali e l’estensione all’area camuno sebina dei benefici previsti per il Sud sono frutto di richieste sindacali sostenute con valide argomentazioni e, quando necessario, con la lotta, con scioperi generali e di categoria. Lavoratori dell'industria risultati eccedenti a seguito delle ristrutturazioni vengono occupati nell’Azienda sanitaria locale o nella pubblica amministrazione grazie a progetti promossi dal sindacato territoriale. Il che denota una gestione dei problemi ed una visione ampia che sa andare oltre il contingente, frutto di intuizioni forti della Fim e di una stretta collaborazione con la Cisl.
Una visione che si unisce ad una significativa capacità d’iniziativa frutto del decentramento organizzativo sindacale, con la nascita del comprensorio Valcamonica Sebino. “Se vogliamo sotto­stare l’importanza di quelle azioni - spiega Faccoli - dobbiamo rifarci proprio alla frenetica attività che siamo stati in grado di mettere in campo. Oserei dire che sul versante della partecipazione, della elaborazione, della contrattazione, a partire dai problemi di fabbrica per giungere a quelli delle politiche territoriali, siamo stati antesignani rispetto ad altre realtà più grandi e importanti della nostra. Forse ciò dipende anche dal fatto che noi siamo stati incalzati fin dall’inizio da problemi gravi di degrado e di disoccupazione. Prima di altri territori abbiamo avvertito i morsi della crisi e prima di altri siamo stati costretti ad attrezzarci per farvi fronte. Con la nostra cultura ricca di valori e di vera militanza sindacale «imo stati in grado di dare un’impronta a questo nostro essere sindacato nel territorio”.
Il decentramento organizzativo e la costituzione del comprensorio sollecita una elaborazione importante, affermando un modello di sindacato soggetto politico autonomo. In presenza di evidenti carenze e di debolezze istituzionali e politiche, autonomamente il sindacato si fa carico con responsabilità dei problemi, portandoli all’attenzione generale e costruendo una progettualità che favorisce la nascita del tavolo di confronto nell’ambito dell’Osservatorio, della società di intervento Secas e di Resider, per la riconversione nelle aree di crisi siderurgica. Progettualità e partecipazione sono le linee guida lungo cui si muove l’azione sindacale.
La Fim ha vissuto in prima persona le preoccupazioni e le ansie dei lavoratori, governando i processi, anche quelli più difficili. Ci sono state incomprensioni e addirittura scontri con gruppi di lavoratori che, non comprendendo l’importanza di governare i processi, accusavano la Fim di essere succube delle strategie padronali. Più volte echeggia l’offesa “venduti”, ma se ancora oggi nel comprensorio è vivo un tessuto industriale e manifatturiero, è merito di quelle scelte contrattate con caparbietà: ristrutturazione, riorganizzazione, rilancio dell’economicità delle imprese attraverso l’in­troduzione di innovazione dei prodotti e dei processi.

La conquista della competitività, gli investimenti in tecnologia, ricerca e formazione comportano nel medio periodo il calo dell’occupazione, ma creano le premesse per consolidare le unità pro pro­duttive e la riconquista dei mercati internazionali, con la crescita dei volumi produttivi e il conseguente assorbimento di nuova occupazione.
“La battaglia è stata dura anche contro l’ostracismo della Fiom - dice ancora l’ex segretario della Fim - che con la sua cultura antagonista giocava sempre al più uno, scaricando la responsabilità di gestione esclusivamente su di noi. Una battaglia continua combattuta nelle assemblee, tra i lavoratori, che alla fine, comunque, nella maggior parte dei casi capivano e sostenevano le nostre proposte”.
Lo scontro con i metalmeccanici della Cgil vive spesso di fattori esterni all’azione in fabbrica e sul territorio. In vista dello sciopero dell’industria del 21 aprile 1983, ad esempio, la sezione di fabbrica del Partito comunista distribuisce un volantino in cui invita i lavoratori a partecipare alla protesta accusando il governo, guidato dal democristiano Ciriaco De Mita, di sostenere la Confindustria nel voler impedire il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici, aperto ormai da quindici mesi.
Rispondono a tono i lavoratori democristiani della Terni (così si chiama l’azienda in quel momento), accusando i colleghi del Pei di confondere il ruolo dei delegati con quello di militanti comunisti e ricordando che l’intesa del 22 gennaio di quello stesso anno sul costo del lavoro, condivisa da tutti, e che ha consentito il rinnovo di molti altri contratti di lavoro, è stata sottoscritta con lo stesso governo a guida Dc.
Scaramucce che preparano quello che sarà il momento più alto dello scontro tra le diverse anime del movimento sindacale. Dopo il decreto governativo del 1984 sulla scala mobile, il confronto nei luoghi di lavoro si fa decisamente aspro. Alla Terni e alla Dalmine si svolgono le assemblee per discutere del decreto e in un manifesto affisso dalla Fiom, ma a firma consiglio di fabbrica, si dice che i lavoratori hanno votato contro il provvedimento. Il giorno successivo la Firn diffonde un volantino per contestare i dati e il metodo della Fiom. Alla Dalmine i contrari sono stati 160 su 850 presenti e 1.400 dipendenti, mentre alla Temi di Lovere i voti contrari sono stati circa trecento su mille presenti e 2.200 addetti.
Dopo questo fatto la Fim della Terni annuncia che i suoi 25 delegati non parteciperanno alle prossime riunioni del consiglio di fabbrica, che conta in tutto 56 rappresentanti.
 “Vogliamo ricordare che nel nostro Paese non c’è il sindacato unico, ma unitario - scrive la rappresentanza aziendale, e più avanti -. Circa il consiglio di fabbrica non sarà la Fim Cisl a porlo in liquidazione, ciò non di meno se non si ripristinano condizioni di democraticità e di pluralistica convivenza per svolgere il proprio ruolo, i delegati della Fim Cisl non intendono rinunciare ad un rapporto diretto con scritti e lavoratori”. Precisano poi i delegati della Fim, lasciando uno spiraglio aperto alla collaborazione: “Nel frattempo, nelle aree di lavoro, dove sussiste la possibilità di confronto democratico e di sintesi unitaria con gli altri delegati, proseguiremo le nostre attività”.
Saranno i problemi concreti dei lavoratori, la morsa delle continue ristrutturazioni, l’inesorabile perdita di posti di lavoro a spingere Fim e Fiom a ritrovarsi e ricostruire un percorso condiviso. Una modalità d’azione unitaria che pur tra alti e bassi, scontri e riavvicinamenti, consente di tutelare le persone e difendere gli insediamenti produttivi, passando attraverso privatizzazione, cambi di proprietà, crisi internazionali che hanno modificato profondamente la fabbrica, i suoi lavoratori e il territorio in cui è insediata. Cambiamenti non immaginabili quando, con l’esplosione delle lotte operaie e dell’autunno caldo, anche la Sidermeccanica di Lovere viene investita da una forte ventata di cambiamenti che rende i lavoratori protagonisti del proprio destino.