Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “La fabbrica sul lago. Conflitto e partecipazione alla Lucchini di Lovere: impresa e sindacato nel comprensorio Camuno sebino”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2007
Conflitto, contrattazione e partecipazione: è questo il modello sindacale che ha assicurato il futuro industriale della Sidermeccanica di Lovere e di molte altre realtà industriali del comprensorio. Le modalità di gestione delle ristrutturazioni e delle riorganizzazioni aziendali sono state la dimostrazione concreta del senso di responsabilità e della consapevolezza fatte proprie dalla maggioranza dei delegati sindacali.
“La questione
dell’occupazione era particolarmente sentita. Dal 1981 in poi siamo stati
travolti dall’ondata di crisi della siderurgia che, unitamente alle
ristrutturazioni in atto in altri settori, comportò il ridimensionamento di
oltre cinquemila posti di lavoro - racconta Angelo Faccoli, dipendente
dell’Ilva, delegato aziendale e per lunghi anni leader della Firn territoriale
-. Ricordo bene quegli anni di forte tensione ideale e valoriale e di forte
presenza del sindacato sul territorio. I problemi della Valcamonica e del Sebino
non erano centrali per le realtà istituzionali e politiche a livello provinciale,
altrettanto si può dire anche delle realtà sindacali. Il nostro territorio era
periferia, abbandonato alle sue difficoltà”.
La decisione della
Comunità europea di finanziare gli smantellamenti di forni di colata e laminatoi
per ridurre le capacità produttive e alzare il livello di utilizzo degli
impianti rimasti, azzerava il settore della siderurgia minore in Valcamonica e
nell’Alto Sebino.
L’attuazione di quelle
scelte colpiva drammaticamente il territorio, in modo assai più pesante
rispetto ad altre realtà sviluppate su più settori, essendo il sistema
industriale locale basato principalmente sulla siderurgia.
“Nella mia
esperienza sindacale - ricorda ancora Faccoli – ritengo questo il periodo di
maggiore difficoltà e sofferenza. La cultura che abbiamo diffuso e praticato
della partecipazione, dell’assunzione della massima responsabilità, governando
e contrattando i processi di ristrutturazione e riassetto industriale,
mobilitando i lavoratori per sostenere obbiettivi di prospettiva occupazionale
e di reddito non ha avuto percorsi facili. Ha incontrato ostacoli soprattutto di
carattere politico e ideologico. Abbiamo posto con forza la richiesta che a
fronte degli smantellamenti degli impianti ci fossero scelte di riconversione
industriale con mobilità e ricollocazione dei lavoratori da posto di lavoro a
posto di lavoro, con le e coperture degli ammortizzatori sociali: dalla cassa
integrazione ai prepensionamenti”.
In Regione
Lombardia le organizzazioni sindacali, in particolare i metalmeccanici della
Cisl, trovano interlocutori attenti e sensibili alle problematiche del
comprensorio: sono l’assessore all’Industria, Giovanni Ruffini, e l’assessore
al Lavoro, Sergio Moroni, i quali condividono e sostengono le richieste
sindacali. Si comincia in quegli anni a parlare di Riconversider e di Secas, di
strumenti legislativi ed economici che possano facilitare l’arresto dei
processi di degrado e forniscano stimoli per lo sviluppo e l’occupazione.
Nella storia sindacale
del comprensorio, gli anni ottanta sono importantissimi. Se ancora oggi è
possibile affermare che c’è un assetto industriale sostanzialmente consolidato,
con la presenza di significative realtà produttive del settore manifatturiero,
ciò è frutto quelle scelte di responsabilità, di progettualità, di
contrattazione e di positive relazioni industriali.
I lavoratori sostengono
le battaglie delle organizzazioni sindacali dei metalmeccanici con una
grandissima adesione alla federazione unitaria Flm. Nel 1977 gli occupati
all’Italsider di Lovere sono 2.544, il 95 per cento dei quali, 2.426 persone,
sono iscritti al sindacato. In quel momento le quote mensili per i tesserati
alla Flm vanno dalle 1.400 lire della prima categoria alle 2.450 per la
settima.
La situazione
delle iscrizioni non cambia nei due anni successivi quando gli occupati
scontano una leggera flessione, passando a 2.440 e quindi a 2.432, mentre i
tesserati alla Flm scendono prima a 2.377 e poi a 2.301, con una percentuale
che sale al 97 per cento nel 1978 per tornare nuovamente al 95 per cento nel
1979.
Si tratta di tassi
di adesione altissimi, come allora era abbastanza normale nelle grandi aziende,
comunque superiori di quasi venti punti rispetto alla media delle imprese
metalmeccaniche sopra i 500 dipendenti della provincia di Bergamo, dove gli
iscritti raggiungono il 78 per cento del totale degli occupati.
In anni di forte
tensione e grande slancio partecipativo, non si poteva pensare all’iniziativa
del sindacato solo all’interno dei luoghi di lavoro. Allo stesso tempo si doveva
essere in grado di contrattare sul territorio per costruire una competitività
di sistema in grado di promuovere sviluppo sociale ed economico. Diversamente,
i costi dell’inefficienza territoriale, dovuti alle carenze infrastrutturali,
sarebbero ricaduti come zavorra sulla concorrenzialità dei prodotti industriali
che si esportavano in varie parti del mondo.
Già negli anni
ottanta le scelte sindacali devono fare i conti con l’internazionalizzazione
del lavoro e dell’economia e con la delocalizzazione di segmenti di impianti e
di intere unità produttive.
“Siamo stati i primi
a doverci confrontare sul piano qualitativo e dei costi dei prodotti - aggiunge
Faccoli - e dovevamo tener conto nella contrattazione aziendale di quanto
potessero incidere sui volumi produttivi, il fatturato e le turnazioni e, di
conseguenza, sui livelli occupazionali. È in questo contesto che emerge l’importanza
del ruolo svolto dalla categoria a livello di fabbrica e della confederazione a
livello di territorio per migliorare un sistema affinché fosse complessivamente
competitivo. Ricordo che non c’era riunione dove non si parlasse di opere
viarie e di trasporto, di aree attrezzate, di servizi a sostegno delle imprese,
di strumenti economici e legislativi atti a sostenere l’economia”.
Le preoccupazioni
principali in quegli anni tuttavia derivano dai tagli all’occupazione, la
perdita di posti di lavoro che pesa economicamente e socialmente sulle
famiglie. Quando i rappresentanti sindacali si presentano ai tavoli di
confronto con gli imprenditori e con le realtà politiche ed istituzionali,
propongono regolarmente l’adozione di strumenti che favoriscano il passaggio da
posto di lavoro a posto di lavoro.
Alcune leggi regionali e
l’estensione all’area camuno sebina dei benefici previsti per il Sud sono frutto
di richieste sindacali sostenute con valide argomentazioni e, quando
necessario, con la lotta, con scioperi generali e di categoria. Lavoratori
dell'industria risultati eccedenti a seguito delle ristrutturazioni vengono
occupati nell’Azienda sanitaria locale o nella pubblica amministrazione grazie
a progetti promossi dal sindacato territoriale. Il che denota una gestione dei
problemi ed una visione ampia che sa andare oltre il contingente, frutto di
intuizioni forti della Fim e di una stretta collaborazione con la Cisl.
Una visione che si
unisce ad una significativa capacità d’iniziativa frutto del decentramento
organizzativo sindacale, con la nascita del comprensorio Valcamonica Sebino.
“Se vogliamo sottostare l’importanza di quelle azioni - spiega Faccoli -
dobbiamo rifarci proprio alla frenetica attività che siamo stati in grado di
mettere in campo. Oserei dire che sul versante della partecipazione, della
elaborazione, della contrattazione, a partire dai problemi di fabbrica per
giungere a quelli delle politiche territoriali, siamo stati antesignani
rispetto ad altre realtà più grandi e importanti della nostra. Forse ciò
dipende anche dal fatto che noi siamo stati incalzati fin dall’inizio da
problemi gravi di degrado e di disoccupazione. Prima di altri territori abbiamo
avvertito i morsi della crisi e prima di altri siamo stati costretti ad
attrezzarci per farvi fronte. Con la nostra cultura ricca di valori e di vera
militanza sindacale «imo stati in grado di dare un’impronta a questo nostro
essere sindacato nel territorio”.
Il decentramento
organizzativo e la costituzione del comprensorio sollecita una elaborazione
importante, affermando un modello di sindacato soggetto politico autonomo. In
presenza di evidenti carenze e di debolezze istituzionali e politiche,
autonomamente il sindacato si fa carico con responsabilità dei problemi,
portandoli all’attenzione generale e costruendo una progettualità che favorisce
la nascita del tavolo di confronto nell’ambito dell’Osservatorio, della società
di intervento Secas e di Resider, per la riconversione nelle aree di crisi
siderurgica. Progettualità e partecipazione sono le linee guida lungo cui si
muove l’azione sindacale.
La Fim ha vissuto in prima
persona le preoccupazioni e le ansie dei lavoratori, governando i processi,
anche quelli più difficili. Ci sono state incomprensioni e addirittura scontri
con gruppi di lavoratori che, non comprendendo l’importanza di governare i
processi, accusavano la Fim di essere succube delle strategie padronali. Più
volte echeggia l’offesa “venduti”, ma se ancora oggi nel comprensorio è vivo un
tessuto industriale e manifatturiero, è merito di quelle scelte contrattate con
caparbietà: ristrutturazione, riorganizzazione, rilancio dell’economicità delle
imprese attraverso l’introduzione di innovazione dei prodotti e dei processi.
La conquista della
competitività, gli investimenti in tecnologia, ricerca e formazione comportano
nel medio periodo il calo dell’occupazione, ma creano le premesse per
consolidare le unità pro produttive e la riconquista dei mercati
internazionali, con la crescita dei volumi produttivi e il conseguente
assorbimento di nuova occupazione.
“La battaglia è
stata dura anche contro l’ostracismo della Fiom - dice ancora l’ex segretario
della Fim - che con la sua cultura antagonista giocava sempre al più uno,
scaricando la responsabilità di gestione esclusivamente su di noi. Una
battaglia continua combattuta nelle assemblee, tra i lavoratori, che alla fine,
comunque, nella maggior parte dei casi capivano e sostenevano le nostre proposte”.
Lo scontro con i
metalmeccanici della Cgil vive spesso di fattori esterni all’azione in fabbrica
e sul territorio. In vista dello sciopero dell’industria del 21 aprile 1983, ad
esempio, la sezione di fabbrica del Partito comunista distribuisce un volantino
in cui invita i lavoratori a partecipare alla protesta accusando il governo,
guidato dal democristiano Ciriaco De Mita, di sostenere la Confindustria nel
voler impedire il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici,
aperto ormai da quindici mesi.
Rispondono a tono i
lavoratori democristiani della Terni (così si chiama l’azienda in quel
momento), accusando i colleghi del Pei di confondere il ruolo dei delegati con
quello di militanti comunisti e ricordando che l’intesa del 22 gennaio di
quello stesso anno sul costo del lavoro, condivisa da tutti, e che ha
consentito il rinnovo di molti altri contratti di lavoro, è stata sottoscritta
con lo stesso governo a guida Dc.
Scaramucce che preparano quello
che sarà il momento più alto dello scontro tra le diverse anime del movimento
sindacale. Dopo il decreto governativo del 1984 sulla scala mobile, il
confronto nei luoghi di lavoro si fa decisamente aspro. Alla Terni e alla Dalmine
si svolgono le assemblee per discutere del decreto e in un manifesto affisso
dalla Fiom, ma a firma consiglio di fabbrica, si dice che i lavoratori hanno
votato contro il provvedimento. Il giorno successivo la Firn diffonde un
volantino per contestare i dati e il metodo della Fiom. Alla Dalmine i contrari
sono stati 160 su 850 presenti e 1.400 dipendenti, mentre alla Temi di Lovere i
voti contrari sono stati circa trecento su mille presenti e 2.200 addetti.
Dopo questo fatto la Fim della
Terni annuncia che i suoi 25 delegati non parteciperanno alle prossime riunioni
del consiglio di fabbrica, che conta in tutto 56 rappresentanti.
“Vogliamo ricordare
che nel nostro Paese non c’è il sindacato unico, ma unitario - scrive la
rappresentanza aziendale, e più avanti -. Circa il consiglio di fabbrica non
sarà la Fim Cisl a porlo in liquidazione, ciò non di meno se non si
ripristinano condizioni di democraticità e di pluralistica convivenza per
svolgere il proprio ruolo, i delegati della Fim Cisl non intendono rinunciare
ad un rapporto diretto con scritti e lavoratori”. Precisano poi i delegati
della Fim, lasciando uno spiraglio aperto alla collaborazione: “Nel frattempo,
nelle aree di lavoro, dove sussiste la possibilità di confronto democratico e
di sintesi unitaria con gli altri delegati, proseguiremo le nostre attività”.
Saranno i problemi concreti dei lavoratori, la morsa delle
continue ristrutturazioni, l’inesorabile perdita di posti di lavoro a spingere
Fim e Fiom a ritrovarsi e ricostruire un percorso condiviso. Una modalità
d’azione unitaria che pur tra alti e bassi, scontri e riavvicinamenti, consente
di tutelare le persone e difendere gli insediamenti produttivi, passando
attraverso privatizzazione, cambi di proprietà, crisi internazionali che hanno
modificato profondamente la fabbrica, i suoi lavoratori e il territorio in cui
è insediata. Cambiamenti non immaginabili quando, con l’esplosione delle lotte
operaie e dell’autunno caldo, anche la Sidermeccanica di Lovere viene investita
da una forte ventata di cambiamenti che rende i lavoratori protagonisti del
proprio destino.