mercoledì 25 marzo 2020

ANGELO AMBROSINI - Acciaieria Tubificio Pietra - Brescia

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Glianni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005

L’Acciaieria Tubificio Pietra, è un’azienda vecchia, una delle prime acciaierie insediate in città, in via Dalmazia, con qualche forno. C’era anche un piccolo laminatoio a Cailina di Villa Carcina,  dove poi è nato il complesso acciaieria, laminatoio e tubificio, con quattro presse, che è andato avanti fino a 10 anni fa. Tra l’82 e l’83 hanno chiuso sia il laminatoio di Cailina che lo stabilimento di via Dalmazia e sono andati avanti con l’acciaieria e il tubificio di via Orzinuovi. Un paio d’anni fa hanno chiuso l’acciaieria e oggi prosegue la produzione del tubificio.
Quando sono uscito a fine ’96 c’erano quattrocento dipendenti, quando sono entrato nel ‘68 erano 1.500 circa. 

Ho fatto la quinta elementare e l’università della vita. Ho iniziato a lavorare a dieci anni come barbiere. Una scelta di mio papà, che era contadino. Dopo qualche anno di garzone in cui non ho guadagnato niente e anzi a fine anno mio papà dava una gallina al titolare perché mi aveva tenuto con sé ad imparare un mestiere, ho aperto una attività di barbiere in proprio a Castel Mella e sono andato avanti per cinque anni. Poi mi sono sposato. Come barbiere non avevo previdenza, mutua, ero un po’ preoccupato e allora sono andato a lavorare in fabbrica. Quello era un periodo in cui gli artigiani lasciavano la propria attività per andare a lavorare nelle fabbriche, adesso avviene un po’ il contrario. Io comunque sono contento della mia scelta perché conosco persone che facevano il barbiere come me e oggi lavorano ancora perché la loro pensione non è adeguata, mentre io dopo trentuno anni in acciaieria ho potuto lasciare la fabbrica. In verità io volevo andare avanti ancora per qualche anno a lavorare, ma la salute non me lo ha permesso. Però da quando sono rimasto a casa mi sono ripreso e ora sto bene.
Mentre lavoravo in fabbrica mi è capitato più volte di dover tagliare i capelli. L’ho fatto ancora per un po’, c’era sempre qualcuno che mi cercava, mi chiedeva di andare a casa sua perché non aveva tempo o voglia di andare dal barbiere in negozio. Ad un certo punto non avevo più voglia io di andare da una parte all’altra, mi sentivo quasi obbligato, allora ho inventato una palla, ho detto che mi avevano rubato gli attrezzi, e così ho smesso.

Quando sono entrato al tubificio non sapevo niente del lavoro in fabbrica. Il primo impatto è stato un po’ drammatico: c’era un gruista che mi chiedeva di mettere la corda sotto un fascio di tubi e io non sapevo come fare. Poi pian piano mi sono impratichito e nel giro di un annetto ho imparato un mestiere. Mi ha aiutato la mia curiosità. Ultimamente non andavo quasi più in produzione perché facevo l’attrezzista e preparavo le macchine quando si cambiavano i diametri, da 3/8 fino a 114. Sono sempre stato un tipo svelto sul lavoro, ero apprezzato per questo e sono uscito con un quinto livello. Più volte mi hanno proposto di fare il caposquadra o capoturno ma io ho sempre rifiutato perché ho sempre fatto il delegato e non mi sembrava potesse funzionare. Avevo un amico che da delegato aveva accettato di fare il capo e veniva a trovarmi a casa e mi raccontava che gli operai e i suoi compagni di lavoro lo insultavano e gli dicevano: ma da che parte stai? In qualche modo lo accusavano di aver tradito il proprio impegno, nonostante una volta fosse addirittura stato preso per il collo dal vecchio Pietra. Per me è stato un maestro di impegno sindacale.
Sono cose spiacevoli, che non condividevo, ma io ho voluto evitare di trovarmi nella stessa situazione.

L’ambiente di lavoro non era sano. Polvere, rumore soprattutto, se non si mettevano i tappi alle orecchie si usciva impazziti. In un ambiente del genere anche se uno ci sta senza lavorare, la sera esce stanco. Ho sempre lavorato su tre turni, non ho mai fatto un giorno pieno.
Facendo il barbiere si conosce un po’ tutto e un po’ niente, tutti i pettegolezzi del paese. Tra i miei clienti c’era gente che lavorava in fabbrica, ma di sindacato non sapevo niente. Il primo giorno che sono entrato in fabbrica avevo 23 anni, la guardia mi ha affidato ad uno dicendogli di farmi timbrare il cartellino e dove accompagnarmi. Costui, che era stato delegato Fiom e alla Pietra c’erano già le guerre, più che sindacali, politiche, mi disse “guarda che appena entri in reparto ti chiederanno di fare la tessera del sindacato, tu aspetta un attimo”. Nei primi giorni più volte sono stato avvicinato dal delegato Fiom che mi chiedeva di fare la tessera, io per evitare di doverla fare immediatamente e guadagnare tempo, rispondevo che ero un barbiere, che volevo capire e poi non sapevo nemmeno se mi sarei fermato in azienda. Dopo un po’ di volte che mi chiedeva di iscrivermi, vista la mia riluttanza, mi disse di “non farla con quello là perché è venduto al padrone”. Si trattava di Cesare Regenzi, oggi segretario confederale della Cisl.
Nessuno della Fim era venuto a propormi di iscrivermi, a quel punto allora sono andato proprio da Regenzi  e gli ho detto: “quello della Fiom mi ha già rotto le scatole, allora mi voglio iscrivere alla Cisl”.
Io sono nato socialista, ho sempre votato socialista, e per questa mia scelta ho ricevuto insulti e sputi da alcuni miei compagni di lavoro.
In occasione della prima assemblea cui ho partecipato ho assistito ad uno scontro aspro tutto politico tra democristiani e comunisti, allora ho deciso di prendere la parola per richiamare la necessità che si parlasse dei problemi della fabbrica.
Qualche giorno dopo ci sono state le elezioni dei delegati e alcuni colleghi della mia squadra mi hanno spinto a candidarmi. Io cercavo di sottrarmi, dicendo che non sapevo nulla di sindacato ma loro mi avevano sentito in assemblea e mi volevano come delegato. E così è stato. Doveva essere per prova e ho continuato fino alla pensione.
Nel ’79 ci sono state le prime avvisaglie della crisi con la cassa integrazione. Ci sono state la chiusura di Via Dalmazia, di Cailina e da lì è nata tutta la battaglia sulla ristrutturazione. Castrezzati e Caffi mi hanno chiamato in segreteria per spingermi a prendere in mano la situazione e io, che pure ero restio, mi sono trovato a gestire la vicenda e il rapporto con la direzione per conto della Fim.
La Fiom era molto più forte di noi in azienda, noi avevamo poco ma cercavamo di far pesare la nostra posizione. Ci sono stati molti momenti di tensione con la Fiom, in particolare in occasione del referendum sulla scala mobile, con insulti e un nostro delegato preso per il collo.
A conclusione di questa vicenda, però, sono arrivato ad avere la maggioranza degli iscritti all’interno dell’azienda. A quel punto il personaggio da massacrare ero io, mi accusavano di essere venduto all’azienda per fare tessere. In quel momento ho avuto anche degli scontri con il segretario provinciale Marino Gamba, perché non mi difendeva e non difendeva la Pietra, facendosi convincere da Cremaschi che ormai l’azienda si dovesse chiudere, ma la Fiom diceva questo perché ormai era minoranza. Eravamo in mille lavoratori nel gruppo e c’era la possibilità di fare un’intesa che salvasse l’azienda con settecento persone. Io avevo definito un accordo in tal senso, ma la Fiom mi ha impedito di farlo, sostenendo che si dovevano salvare tutti o nessuno, ma l’esito sarebbe stato la chiusura, cioè nessuno. Io sostenevo con convinzione la mia tesi, la Fiom faceva circolare voci che io prendevo soldi dalla Pietra, e ci fu uno scontro con Gamba, che venne a casa mia insieme a Troncatti e Scotuzzi. Quella sera, a casa mia, la Fim ha capito e ha deciso di sostenere la mia posizione, che il giorno dopo sono andato in assemblea a presentare ai lavoratori e poi è passata.

In un incontro casuale con il vecchio Rudino Pietra questi mi disse che aveva bisogno di me per sostenere la richiesta di rateizzazione dei contributi all’Inps. Io pago – disse – però adesso non posso. Cercherò di darle una mano, risposi io. “Io ho dato tutto a loro, compreso la casa di riposo che è diventata una struttura del partito comunista  e adesso pensano di mandare me in casa di riposo. Ma io li licenzio tutti”. Gli dissi che la colpa era sua, perché in ogni occasione, quando c’era qualche problema, aveva sempre ceduto alle richieste della Fiom, mettendo in difficoltà la Fim. Lui era fratello di latte di Gino Torri, parlamentare Pci, e aveva sempre mantenuto un buon rapporto con i comunisti.  Nelle vertenze interveniva Torri che diceva “dagli quelle cose che poi si sistema tutto”. Ma poi in azienda nascevano dei problemi perché dentro la Fiom c’erano due tendenze e quello che andava bene agli amici di Torri non andava bene agli altri e così le situazioni invece di risolversi si complicavano e a volte toccava a noi risolverle. Questo alla fine ci ha portato a vincere, ma l’abbiamo pagata con insulti, sputi e mi hanno anche rovinato l’automobile.

Quando c’è stata la prima cassa integrazione, io ero al sindacato ed è arrivato un giornalista di Brescia Oggi riportandomi le parole della Fiom che parlava di liste di proscrizione. Al che ho risposto che “siccome hanno sempre detto che la fabbrica è rossa, se devono uscire 100 persone non possono uscire più democristiani visto che non ci sono. Io non conto niente in azienda, loro sono la grande maggioranza e non è certo la Fim a suggerire i nomi”. Pubblicate sul quotidiano, queste affermazioni hanno fatto alzare ulteriormente i toni dei contrasti.

C’è stato uno scontro frontale in consiglio di fabbrica anche sulla mensa, una vicenda alimentata dalla Fiom. Sono cambiati numerosi gestori, prima si preoccupavano i lavoratori di trovare il gestore, poi come cdf abbiamo deciso di lasciare che se ne occupasse l’azienda. La Fiom prima fece intervenire una cooperativa della Lega facendo mandare via la società che gestiva la mensa in quel momento, ma i lavoratori erano scontenti e allora arrivò una società chiamata dalla proprietà. Ma c’era il problema del personale della mensa che non trovava un sistemazione. Per un certo periodo la mensa non funzionò e per tutta questa vicenda si fecero trecento ore di sciopero, occupazione della mensa da parte delle donne rimaste senza lavoro. Alla fine è arrivato un quarto gestore e la vicenda si è chiusa. Tutto era iniziato probabilmente solo perché qualcuno voleva favorire l’ingresso nella gestione della società della Lega. La ragione del primo cambio era stata, infatti, il ritrovamento di uno scarafaggio in una pentola. Come Fim abbiamo cercato di contrastare questa serie di scelte sbagliate che noi non condividevamo, ma abbiamo dovuto subire perché eravamo minoranza.

Nel giugno ’84, ci sono stati i prepensionamenti a Cailina, Dalmazia, Officina Tura, Nuove Fonderie di Bergamo, Esco Bianchi di Omegna, Sirta di Castegnato, tutti stabilimenti del gruppo Pietra che poi sono stati chiusi. Circa 350 lavoratori sono andati in prepensionamento, tutte persone abbastanza anziane. L’azienda disse che non aveva i soldi per pagare le liquidazioni, soldi che avrebbe dovuto avere da parte perché sono dei lavoratori, e invece aveva speso. Allora io e il direttore abbiamo discusso un possibile accordo che prevedeva il pagamento di 50 milioni, in dieci rate da cinque milioni al mese, e a fine del decimo mese il pagamento del dieci per cento di interessi. Concordammo anche che lui avrebbe fatto una proposta di scaglionamento di un anno e mezzo e poi io avrei contrattato fino a dieci mesi. Ne parlai con il leader della Fiom in azienda che si disse d’accordo. Così siamo andati all’incontro con il direttore dello stabilimento e abbiamo definito l’accordo. Dopo l’incontro, però, il leader della Fiom mi ha detto che doveva parlarne con la segreteria provinciale. Al ritorno da quella riunione aveva cambiato idea e l’intesa non si poteva fare: i soldi erano nostri e ce li dovevano dare subito. Si accese così un nuovo scontro tra Fim e Fiom. Venne convocate l’assemblea dei prepensionati, fuori dai cancelli perché ormai non erano più dipendenti dell’azienda. Arrivò Squassina e cominciò a predicare: “i soldi sono nostri, ce li devono dare” e così via. Dopo Squassina presi la parola anch’io e siccome lui è piccolo ed era salito su uno sgabello, vi salii anch’io. Spiegai che, essendomi consultato anche con un avvocato, se noi avessimo insistito tra in giunzioni, pignoramenti sarebbero passati almeno due anni, e se poi si trovava un giudice che diceva di dare i soldi ai lavoratori in tre o quattro rate i tempi sarebbero diventati lunghissimi. “La proposta fatta dall’azienda, e che io sostengo, mi sembra una mediazione accettabile. Sono d’accordo anch’io che sarebbe meglio prendere tutto e subito, ma se noi insistiamo c’è il rischio che l’azienda blocchi le produzioni, dove sono impegnati i nostri compagni di lavoro. Provate a immaginare cosa potrebbe accadere allora”. A quel punto l’assemblea si agitò un po’, qualcuno protestò e minacciò, ma poi la gente se ne andò.  All’assemblea erano presenti anche un gruppo di poliziotti della Digos in borghese che conoscevo per aver incontrato più volte in manifestazione, e uno mi disse che il clima non era il più adatto per fare affermazioni del genere, che se fosse successo qualcosa loro erano in pochi per contrastare la massa degli operai. Ma tutto è finito senza che accadesse nulla.
La Fiom chiese immediatamente una riunione in sede sindacale. Ci andai anch’io. Quando arrivai c’erano già venticinque persone. Prese la parola l’avvocato della Cgil, che ribadì la tesi del pagamento immediato. Toccò ancora a me contrastare quella tesi e ribadire la nostra posizione, ma la Fiom decise di raccogliere le firme di coloro che chiedevano il pagamento immediato della liquidazione. La richiesta venne firmata solo da una ventina di persone su 350. Sulla base di queste l’avvocato fece seguire una denuncia. L’azienda ha tenuto duro sulla posizione concordata, pur senza nessuna intesa formale e alla fine tutti hanno avuto i loro soldi. Io dissi al direttore che per quei venti doveva aspettare il giudizio del tribunale, ma lui preferì dare i soldi anche a loro. Alla fine il Tribunale impose all’azienda di pagare a quei venti gli interessi degli interessi, una piccola cifra in più, che la Fiom vantò come una grande vittoria. Ma la liquidazione l’avevano presa solo grazie alla disponibilità dell’azienda, perché i tempi del Tribunale furono molto più lunghi. 
Dopo qualche tempo ero in banca ed entrò uno di questi lavoratori, un iscritto alla Fiom, uno dei più accaniti, uno di quelli che ti sputavano addosso, e sentii che diceva alla moglie: ecco, quello è Ambrosini. Dentro di me temevo che si aprisse una discussione tra la gente sulla questione della liquidazione, e infatti la signora venne verso di me: “Bravo signor Ambrosini, lei è una persona intelligente, abbiamo avuto i soldi, non come quei deficienti che volevano tutto subito e rischiavano di non farci prendere niente”. 

Non ho mai avuto altri impegni fuori dall’azienda, e ho rifiutato la proposta di collaborare con i pensionati. Sono stato nel direttivo provinciale della Fim. Ho partecipato ad alcune iniziative formative, mi hanno chiesto anche di lasciare la fabbrica per fare l’operatore, ma non mi sentivo all’altezza, non avevo potuto studiare e pensavo ci fosse bisogno di persone più preparate, anzi mi dava fastidio quando vedevo qualcuno che si dava da fare per fare il sindacalista e secondo me non era in grado.
Ho vissuto i contrasti in casa Fim, in particolare lo scontro con gli autoconvocati della Om. Franco Castrezzati mi ha sempre sostenuto nella mia iniziativa e io ho sempre creduto nella sua linea. Per me l’autonomia sindacale era importante, non mi piaceva sentire che si facevano certe scelte perché si era democristiani o meno. Ho sempre avuto le mie simpatie, ma non ho mai detto ad un lavoratore per chi votare, anche se quando c’erano le elezioni c’era chi mi telefonava per sollecitarmi.
In occasione del referendum sull’aborto la Fiom chiese la convocazione del consiglio di fabbrica per discutere della questione e prendere posizione come cdf. Noi della Fim eravamo contrari. Così, dopo due giorni di discussione loro sono usciti con un volantino in cui i delegati della Fiom invitavano a votare No all’abolizione della legge sull’aborto. Anche se anch’io ero d’accordo, non condividevo che fosse il cdf a prendere posizione.
Era un comportamento usuale. Come si avvicinavano delle scadenze politiche la Fiom si mobilitava per organizzare scioperi, fare prese di posizioni e ogni volta erano scontri duri

Mi piace andare in bicicletta. Sono sposato con due figli. Ho sempre cercato di tenere mia moglie fuori dalla mie vicende, anche e soprattutto quando la tensione era più alta. Ha avuto modo di conoscere alcuni dirigenti della Fim, perché ogni tanto venivano a casa mia per parlarmi, in particolare in occasione dello scontro con Gamba sul futuro dell’azienda. Qualche volta mia moglie mi vedeva nervoso e preoccupato, ma io la sera quando andavo a letto riflettevo sui miei comportamenti e mi sentivo tranquillo.

Quando c’è stata la strage di Piazza della Loggia, io ho fatto la notte, sono uscito e sono andato a riposare. Mi sono alzato alle 8 e mezza per andare in manifestazione, ma pioveva e sono tornato a dormire. Mi ha svegliato una telefonata che mi ha raccontato il disastro successo. Sono andato in piazza e ci sono rimasto non so per quanto tempo.