giovedì 13 agosto 2020

RENATO VALLINI - Fistel, Cisl - Milano

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016

Sono nato il 3 agosto 1943 a Limbiate dove i miei erano rifugiati a causa dei bombardamenti, sono laureato in Economia e commercio. Mio padre era un artigiano e mia madre un'impiegata che con l'arrivo dei figli è rimasta a casa. Il livello culturale era discreto, in casa qualche libro c'era e la famiglia era di cultura laica. 

Ho iniziato a lavorare nel 1959, a sedici anni. Mio padre è morto nell'agosto di quell'anno e io a settembre sono stato assunto come apprendista alla Rinascente grazie ai buoni uffici di un vicino di casa. In Rinascente sono rimasto due anni, nel frattempo continuavo a studiare ragioneria alla sera all'Istituto Cattaneo.

Dopo essermi diplomato sono andato a lavorare alla Serio Everest, un'azienda che produceva macchine da scrivere, con lo stabilimento a Crema e gli uffici a Milano in via Carducci. Il direttore amministrativo era il mio professore di ragioneria e mi ha assunto. Fatto il servizio militare, al ritorno ho cambiato altre due o tre aziende finché nel 1966 sono capitato alla cartiera Binda che aveva gli uffici in corso di Porta romana.

Tra fine 1968 e inizi '69 ci furono grandi scioperi e dure manifestazione con morti ad Avola e Battipaglia. In quell'occasione un mio amico, col quale dividevo l'appartamento perché ero uscito di casa, anche lui impiegato ma in un'altra azienda, mi telefona e mi dice: “Renato io faccio sciopero”, anche se nella sua azienda non c'era nessuna struttura sindacale e nessuna presenza organizzata. Questo amico mi ha fatto nascere un problema di coscienza e così ho parlato con il mio capo ufficio Martini e gli ho detto che avrei fatto sciopero. Lui mi ha guardato, era una bravissima persona, e non sapendo cos'altro dirmi mi ha detto che andava bene. Dopo di che ho cercato di avvicinarmi al sindacato e ho scelto la Cisl. Ero andato anche a parlare con un sindacalista della Uil, che era il segretario del settore dei poligrafici che allora organizzava le aziende dei quotidiani, dei periodici, della stampa dei libri e dei giornali e anche della produzione della carta, cartiere e cartotecniche. Però, documentandoci e parlando, io e un mio collega ci siamo convinti che la Cisl fosse più vivace e ci siamo iscritti in due. Il segretario dei poligrafici era Venturini. Ho costituito in azienda la commissione interna ed esattamente il 12 dicembre del 1969 ho fatto la prima assemblea degli uffici per presentare la commissione. Per alcuni anni ho continuato a fare il rappresentante sindacale in azienda.

La cartiera Binda era un'azienda abbastanza grande e allora molto florida, con tre stabilimenti e una sede con circa duecento impiegati. Nello stabilimento di Milano, alla Conca fallata, la Cisl aveva una presenza molto significativa. Il leader era chiamato Pepe, classico meridionale cattolico. L'idea che ci fosse un impiegato iscritto alla Cisl e per giunta laureato lo entusiasmava. Propose quindi di mettermi in segreteria, così nel 1973 entrai a far parte della segreteria dei poligrafici della Cisl di Milano rimanendo però ancora in azienda. Qualche mese dopo mi chiesero di lasciare l'ufficio. Non fu semplice e ci fu un periodo di ripensamento. Quando mi sono laureato la mia idea era quella di diventare un giorno un dirigente d'azienda e in quegli anni c'erano ottime probabilità di riuscita e ora mi si chiedeva di cambiare radicalmente. Oltretutto nel 1969 mi ero sposato e anche se mia moglie mi ha detto di fare quello che volevo, sapevo che lo stipendio era importante ed ero abbastanza tribolato, finché un giorno arrivò a casa mia, in piazzale Susa, una delegazione guidata da Albertino Gervasoni. Con lui c'erano alcuni delegati, abbiamo bevuto qualcosa e poi in milanese mi ha detto: “Ma ti voret continuà ad andà avanti a fà 60 gram, 70 gram?”. Ero all'ufficio commerciale della Binda e si doveva continuamente parlare della grammatura della carta. Quella domanda mi ha convinto. Il segretario mi aveva fatto molti discorsi, ma la battuta di Gervasoni è stata quella che mi ha fatto riflettere e decidere. Siccome avevo uno stipendio più alto di quello dei regolamenti ho concordato che venisse mantenuto, ma assorbendo tutti gli scatti di contingenza futuri, accettando di fatto il blocco della busta paga. Le regole prevedevano che lo stipendio fosse quello dell'operaio specializzato del settore. Ed era effettivamente così.

Poi Gervasoni, che nel frattempo era diventato segretario generale della Federlibro, è andato in segreteria nazionale e io l'ho sostituito. Ho fatto due mandati come segretario generale dei poligrafici e nell'82 sono entrato nella segreteria della Cisl. Il segretario era Sandro Antoniazzi, c'erano Giovanni Paolucci, Fausto Sartori e Pippo Torri. A me è stato assegnato come incarico il mercato del lavoro e sono rimasto in segreteria della Cisl di Milano per circa dieci anni.

Poi mi sono occupato per un paio d'anni dell'Ufficio studi e quindi sono andato al Consorzio casa.

 

La vertenza più significativa che ho seguito come responsabile della categoria è stata quella del Corriere della Sera che era incappato nella vicenda P2, Banco Ambrosiano, Tassan Din. Il nostro obiettivo era di tenere insieme tutto il gruppo che contava tre stabilimenti con quattromila addetti. Gli appetiti erano tutti sul Corriere, ma a noi interessava anche lo stabilimento che stampava i periodici in via Scarsellini oltre alla Rizzoli libri. Si è trattato di una vertenza che alla luce del sindacalismo attuale è molto interessante. Il responsabile del settore della Cgil era un comunista doc, ma proprio stalinista. Persona integerrima, ma proprio con quella testa lì. Però era un sindacalista, per cui su tutto prevaleva il pragmatismo e il buon senso, diciamo milanese, dove, al di là delle ideologie, il valore della fabbrica e del lavoro era sentito profondamente. E questo era l'atteggiamento non solo di noi segretari del sindacato ma anche dei delegati e dei lavoratori. Certe scelte che in altri settori sarebbero state poco comprese dei lavoratori lì erano condivise, perché il tipografo alla sua azienda ci teneva. Sapeva benissimo che se andava male l'azienda perdeva il posto. Se c'era da fare sciopero si faceva sciopero, ma se c'era da lavorare si lavorava. Dopo il suicidio di Roberto Calvi ci chiamò il direttore del personale e ci disse letteralmente: “Si è suicidata la nostra linea di credito”. Per noi il problema era far funzionare l'azienda, tenere insieme il gruppo e abbiamo fatto più accordi per garantire il futuro del gruppo. Uno con il giudice delegato alla procedura, che era una persona molto capace e attenta. Nella sede del Banco Ambrosiano, dove i responsabili erano Giovanni Bazoli e Piero Schlesinger, contrattammo una riduzione del personale negli indiretti, ad esempio tra i fattorini, che si potevano benissimo ridurre, ma in cambio il Banco Ambrosiano si impegnava a ridurre i tassi di interesse all'azienda. La Rizzoli aveva una grossa commessa perché stampava il periodico Sorrisi e canzoni tv che vendeva oltre un milione di copie, testata di proprietà di Berlusconi. Avevamo la cassa integrazione in certi reparti e la necessità di fare gli straordinari in rotativa per mantenere la commessa. Abbiamo fatto un'assemblea e la decisione è stata presa praticamente all'unanimità. Mi ricordo una frase di un delegato della Cgil che disse: “Noi abbiamo fiducia nel sindacato, se ci dite di andare a fare un giro al parco noi andiamo a fare un giro al parco”.

Per me che ero giovane vedere questi operai già di una certa età, capi macchina di rotativa, leader nel reparto che ci davano questa fiducia era una cosa che mi dava grande responsabilità, mi sentivo investito di una responsabilità importante e allo stesso tempo ero gratificato per la mia attività. Questo era lo spirito allora.

Con il sindacato dei giornalisti abbiamo avuto un rapporto a livello generale per quanto riguarda l'introduzione delle nuove tecnologie che è stato gestito con modalità soft. Anche per i giornalisti questo passaggio è stato un problema, perché scomparivano delle figure che erano a cavallo tra i settori degli stampatori e dei giornalisti. Il correttore di bozze, ad esempio, di fatto era una figura che finiva e i suoi compiti erano attribuiti ai giornalisti. Lo stesso l'impaginazione. Abbiamo dovuto discutere un po' sulle figure di confine, però non c’è stata conflittualità. Dove abbiamo avuto più problemi è stato nella vicenda della crisi del quotidiano. Il leader dei giornalisti era Raffaele Fiengo. Noi intendevamo difendere l'occupazione del gruppo e questa impostazione sembrava a volte confliggere con quella del sindacato dei giornalisti che era più interessato a uscire dalla crisi salvaguardando il Corriere della Sera, anche se questo voleva dire separarlo dal resto della Rizzoli. In quell'occasione le pressioni politiche sui giornalisti erano molto più forti che su di noi. Qualcosa di più c'è stato sulla Cgil, perché allora la direzione del Corriere veniva discussa con i dirigenti milanesi del Partito comunista.

Le lotte interne al sindacato dei giornalisti sono state molto aspre, cose che da noi non si sono verificate. C'è stata poi l’uccisione di Walter Tobagi, una vicenda tragica che ha provocato duri scontri all'interno della federazione dei giornalisti anche a livello milanese.

 

Il mio posto di lavoro alle Cartiere Binda era in una sede impiegatizia di medie dimensioni, non c'era una politica del personale particolarmente oppressiva tranne per il fatto che volevano che le impiegate portassero sempre la vestaglia nera che loro tenevano regolarmente tutta slacciata. I problemi erano qualche passaggio di categoria, la parificazione di alcuni istituti e poco altro. Quello che aveva mosso me e un 10% dei miei colleghi, non di più, era che noi nei contratti collettivi beneficiavamo di miglioramenti che erano stati ottenuti dalle lotte degli operai. Era questo che motivava quel piccolo nucleo di persone sensibili, gli altri seguivano perché tutto sommato esprimevamo posizioni sensate. Per farli partecipare agli scioperi però facevamo i picchetti, io e un altro, ma era sufficiente perché scioperavano abbastanza volentieri, avevano solo paura e avevano bisogno di un alibi. Un 20% degli impiegati si è iscritto alla Cisl mentre Cgil e Uil non erano presenti. C'era poi un sindacato filo aziendale rappresentato da una lista guidata da un capo, sollecitato dalla direzione, ma era una bravissima persona, un cattolico impegnato, serissimo, per cui non abbiamo mai avuto problemi e non si è mai comportato da sindacato giallo.

 

In quel periodo stavano nascendo i Cub, Comitati unitari di base, in particolare a Conca, ed erano piuttosto violenti con minacce ai capi, latte di vernice sulle macchine. Anche per questo un sindacalismo ragionevole, legalitario, come quello che rappresentavo, come tutto il sindacalismo confederale, tutto sommato trovava ascolto da parte della direzione dell'azienda.

Una volta un gruppo di aderenti ai Cub si è presentato nella sede staccata in via Larga, dove c'erano il centro meccanografico e altri uffici, con gli impiegati che lavoravano durante uno sciopero e sono saliti negli uffici e li hanno obbligati ad uscire.

 

Si riusciva ad organizzare gli scioperi per le vertenze contrattuali mentre per le lotte generali, quelle per le riforme, era difficile fare scioperare gli impiegati e problemi c'erano anche tra gli operai. Scioperi e proteste ci sono stati per le condizioni di lavoro che nei reparti produttivi erano abbastanza difficili. Riposi ed aspetti economici dei turni erano molto sentiti, mentre in sede i problemi erano veramente modesti. Il gruppo sindacale degli impiegati lo faceva per una questione di equità, la nostra era un'adesione in qualche modo ideologica.

 

In quel periodo ho iniziato a partecipare agli attivi, le riunioni fuori dall'ufficio. La Cisl che conoscevo era quella dei Pippo Torri, degli Antoniazzi, di Bruno Manghi, di quell'area intellettuale della Fim che aveva uno spessore culturale che andava al di là delle questioni sindacali. Il passaggio alla nuova fase con l'arrivo dello Statuto dei lavoratori, la creazione dei delegati e le assemblee in fabbrica per me è avvenuto in modo quasi naturale. Ho organizzato la prima assemblea con un sindacalista esterno, in quell'occasione è venuto Mario Colombo. Il dibattito intorno allo Statuto dei lavoratori, con la Cisl che era contraria perché era una legge, non scaldava gli animi di nessuno.

 

L'idea dell'unità era molto sentita. La nostra era una generazione nuova, che non aveva vissuto le scissioni e ci sembrava ovvio muoverci unitariamente, i problemi erano gli stessi, non vedevamo grande differenze. In azienda ero quello che si dava da fare ed ero visto come il rappresentante del sindacato unitario. La mia stagione di segreteria è stata una stagione di grande unità sindacale. C'era qualche concorrenza sul tesseramento, ma sulle vertenze non ci siamo mai divisi. Sulla costruzione delle piattaforme si, una volta, perché avevamo delle posizioni diverse ed è passata la posizione della Cgil e della Uil, ma abbiamo iniziato la vertenza per il rinnovo del contratto nazionale unitariamente. Nessuno immaginava neppure di fare degli scioperi separati. La nascita della federazione l'ho vista positivamente perché per me era il passaggio verso l’avvio dell'unità organica.

 

Sui temi generali mi ricordo una cosa curiosa. La Cisl allora era contraria alla costruzione della metropolitana perché con un chilometro di metropolitana si facevano 45 asili nido, ed erano tutti convinti.

 

Non ho mai sentito il peso della politica nelle nostre scelte sindacali, forse questo avveniva nel pubblico impiego, ma nel nostro settore assolutamente no, non ho mai avuto problemi né pressioni. Avevamo una buona interlocuzione con i diversi gruppi extraparlamentari, perché avevamo parecchi iscritti e anche alcuni delegati che erano attivisti di questi gruppi, in particolare nelle case editrici e in qualche azienda grafica, più tra gli impiegati che tra gli operai. Erano extraparlamentari mentalmente agili, non erano integralisti. Allora preferivano una Cisl più pluralista rispetto ad una Cgil più rigida. In Cisl l’autonomia era vera e si discuteva sul merito delle questioni sindacali.

 

In Mondadori avevamo un collettivo femminile assai agguerrito. Facevano le riunioni lavorando con i ferri a maglia, con quattro ferri, che era il massimo del femminismo. Nel sindacato la loro presenza era vista tra l'ironia e la comprensione del gruppo dirigente, anche perché la consideravano un elemento di proselitismo, però era una tematica assolutamente poco sentita. La situazione di genere era questa: nei grafici e nei cartai erano tutti uomini, perché era un lavoraccio pesante; nelle cartotecniche, negli uffici e nelle case editrici c'era una presenza femminile diffusa. Nelle cartotecniche erano operaie dequalificate che facevano i lavori di linea. Il dibattito più vivace era tra le donne delle case editrici. C'erano delegate, alcune anche leader. Alla Fabbri, ad esempio, dove c'era una presenza femminile molto forte, alla Mondadori.

 

La Cisl di Milano per noi era il massimo, per la vivacità intellettuale, per l’ascendente dei dirigenti. Consideravamo la Cisl di Milano, sia come confederazione che per quanto riguarda le categorie, come espressione avanzata del sindacalismo. Rispetto alle vicende nazionali eravamo tutti filo Carniti. All'interno della Cisl di Milano c'era sì una discussione molto corretta tra le categorie dell'industria guidate dalla Fim e parte del pubblico impiego, l'agricoltura con il famoso Renzo Cattaneo. Il pubblico impiego era guidato da Fausto Sartori persona garbata, collaborativa. Noi eravamo concentrati sulle questioni di categoria e non abbiamo particolarmente sentito né abbiamo partecipato al dibattito tra le componenti della Cisl a livello nazionale che si sviluppavano in quegli anni tra Scalia e Storti.

Le categorie negli anni Settanta erano tutte repubbliche a sé, anche se naturalmente c'erano maggiori affinità con i settori dell'industria. Non dico che fossero sindacati di mestiere, ma molto vicini. Autonomia voleva dire anche stare lontano dalla questioni politiche, l'aspetto di merito strettamente sindacale era decisamente prevalente. L'unica grande questione che permeava tutto era unità si, unità no perché alimentava l'azione quotidiana.

 

Il rapporto tra i componenti della segreteria della nostra categoria era molto stretto, qui l'impronta l'ha data Gervasoni, eravamo considerati quasi un clan. Era un gruppo molto unito che passava anche il tempo libero insieme. Facevamo quello che noi chiamavamo le zingarate, il sabato magari andavamo fuori Milano a mangiare insieme, anche con i delegati. Con i colleghi delle altre categorie c'erano i direttivi e gli appuntamenti istituzionali. Ci troviamo ancora e diciamo tra di noi: “Ci siamo anche divertiti”.

 

L'esperienza sindacale per me è stata una fortuna rispetto a quella che avrebbe potuto essere un'attività professionale in azienda. L'apporto culturale, l'ampiezza dei problemi, la qualità delle persone. Il livello qualitativo, culturale ed etico, anche al di fuori della categoria della Cisl di Milano, nel suo complesso per me è inarrivabile. E’ stata un'esperienza estremamente coinvolgente e positiva. Nessun rimpianto.

Il sindacato era influente in quegli anni, era un soggetto emergente, aveva una credibilità straordinaria. Ricordo sempre che il sindaco ci riceveva quando doveva decidere se aumentare il biglietto del tram, che era una cosa che non stava né in cielo né in terra, perché eravamo forti e seri e poi davamo dei risultati. Eravamo in una prospettiva di crescita, di miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita e il sindacato era attore di queste battaglie. Ho vissuto anche il periodo in cui il sindacato è stato chiamato a mediare le crisi aziendali. Una delle fasi critiche che abbiamo gestito, credo intelligentemente sia noi che le aziende, è stata quella della trasformazione tecnologica. Abbiamo avuto anche ammortizzatori sociali consistenti, la legge sull'editoria con i prepensionamenti ha aiutato tanto. Affrontare le crisi aziendali disponendo di questi strumenti aiutava molto.

 

Ritengo che la perdita di ruolo del sindacato oggi sia conseguenza innanzitutto dei cambiamenti strutturali, un conto è organizzare una fabbrica con mille dipendenti che hanno orari, condizioni di vita sufficientemente omogenei. In quelle condizioni la contrattazione collettiva ha un senso. Non c'erano le delocalizzazione così marcate, c'erano tecnologie ad alta intensità di capitale. Noi abbiamo gestito i cambiamenti in maniera soft, ma nel gruppo Corriere della Sera c'erano quattromila dipendenti, oggi credo che ce ne siano un migliaio al massimo. Sicuramente è prevalente il cambiamento strutturale dell'organizzazione del lavoro, delle modalità produttive. Questi cambiamenti hanno portato a una riduzione dell'appeal del sindacato e quindi a una riduzione della capacità di rinnovo del gruppo dirigente. Non credo che sia stata una responsabilità del gruppo dirigente che ha impedito l'ingresso di nuove leve. Il problema del potere e dei gruppi dirigenti c'è sempre stato. Quando siamo arrivati noi i vecchi, se ci stavano bene ok, altrimenti li abbiamo cacciati via. A volte eravamo cooptati, come è accaduto a me, ma in altre situazioni il ricambio c'è stato con modalità più o meno aspre perché c'erano le nuove leve che avanzavano. Non penso che il sindacato abbia perso l'anima.

Secondo me oggi avrebbe senso un sindacalismo almeno a livello europeo se non di tutti i paesi occidentali. Oggi fare delle battaglie in fabbrica vuol dire quasi sempre affrontare problemi che stanno al di fuori dell'azienda con strumenti obsoleti.

Nel corso della mia attività, pensando non solo agli amici della mia organizzazione ma anche ai compagni della Cgil, ho trovato persone di qualità morale molto alta, con una coerenza notevole rispetto ai principi che si enunciavano e con una grande sintonia con i delegati. Non c'era un'oligarchia sindacale, almeno nella mia categoria era così. Una bella categoria.