Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Sono
nato in una famiglia di contadini: ero il sesto di otto fratelli. Era naturale
che ognuno partecipasse al mantenimento della famiglia. Dopo la scuola dell’obbligo
e l’avviamento con le Acli, ho iniziato a lavorare, a 13 anni, come garzone dal
fornaio del paese; poi ho fatto il meccanico, l’idraulico, il lattoniere.
A 18 anni sono entrato all’Italcementi di Albino, dove ho sentito per la prima volta il “richiamo” del sindacato. Era il 1962 e all’interno della fabbrica c’era la commissione interna: frequentavo alcuni dei membri e da loro ho cominciato a conoscere l’attività del sindacato.
In
famiglia, i miei erano sempre attenti a quanto dicevano le Acli a quel tempo.
C’era un sacerdote a Gazzaniga che gestiva le attività Acli: faceva riunioni
alle quali partecipava mia madre. Al ritorno ne parlava e quindi sentivo
parlare di valori e obiettivi.
Dalla
commissione, persone legate alla Cisl mi chiedono se voglio partecipare al
campo scuola di Ortisei. È stata un’esperienza entusiasmante: eravamo in 300
giovani. Eravamo organizzati in un campeggio militare, per fortuna, il tempo è
stato clemente. Ci siamo divertiti: tante ore di studio la mattina, il
pomeriggio riposo, poi discussioni, gite e scampagnate.
Lì
mi hanno insegnato cos’è la Cisl, cos’è il sindacato. Soprattutto interessanti
erano i momenti di confronto con persone che già avevano contatti con la
fabbrica, l’esperienza diretta, che conoscevano gli interessi e i problemi, che
erano capaci di sentire le persone, di informarle: questo è quello che mi ha
sempre affascinato.
Al
rientro, ho ripreso a lavorare: collaboravo con la commissione interna.
In
questo periodo ho conosciuto Guido Suagher, che poi è stato segretario della
Filca di Bergamo. Una persona che ho molto stimato: in Italcementi avevano
fatto di tutto per complicargli la vita, era uno che per l’attività sindacale
ha pagato di persona. Per le sue idee è stato messo in condizione di lavorare dove
avesse il minor contatto con la gente: operaio specializzato, mandato nelle
cave, e dalle 4 del pomeriggio alla notte, così che non vedesse più nessuno.
Nel
1966, sono andato a lavorare alla Sacelit di Alzano, sempre del gruppo
Italcementi, e qui è partita la mia vera attività sindacale.
Erano
gli anni in cui si cominciava a aprire e a allargare la rappresentanza. Ho
cominciato a interessarmi sempre di più.
Alla
fine degli anni 60, i problemi della fabbrica e del territorio erano
sostanzialmente legati ai salari bassi. Poi, si è iniziato a parlare di
sicurezza, dal momento che da noi si lavoravano amianto e plastica. Altro
problema che abbiamo dovuto affrontare sono stati i turni: molta gente che lavorava
nelle fabbriche della zona arrivava dall’agricoltura, faceva cioè il contadino,
e quella, nella loro concezione, restava ancora l’attività principale, e voleva
che restasse tempo sufficiente per lavorare i campi.
Con
gli imprenditori il rapporto era condizionato dall’atteggiamento strano che spesso assumevano. Solitamente si
presentavano in tre: uno faceva il cattivo, uno il buono e poi c’era chi
mediava. Abbiamo fatto numerose trattative su salario, turni, tipologie del
lavoro, salute e sicurezza. La fortuna del nostro stabilimento era il
direttore: molto giovane, spesso ci dava consigli, ci metteva in guardia su
molte cose. Rispettava le nostre idee e cercava sempre dialogo e confronto.
Una
prima, grossa battaglia l’abbiamo condotta quando alla Sacelit volevano
inserire il turno di lavoro domenicale. Si lavorava già 44 ore da lunedì a
sabato. Abbiamo contrastato l’azione e ci siamo ritrovati tutti i lavoratori al
nostro fianco. Tutti i sindacalisti, allora, erano anche lavoratori dello
stabilimento: questo ci permetteva, a differenza degli operatori del
territorio, di poter entrare in fabbrica e parlare con i colleghi in ogni
momento e per ogni occasione…
Era
comunque sempre dura spuntarla, soprattutto all’inizio. Più tardi, con
l’approvazione dello Statuto, abbiamo avuto una forza tremenda: ogni
sindacalista ha avuto la possibilità di
muoversi in fabbrica, e questo ci ha aiutato dove non avevamo lavoratori
sindacalizzati. Io continuavo a lavorare mentre facevo attività sindacale.
In
quel periodo sono nati i primi consigli di fabbrica. Da noi si lavorava bene insieme, anche con la Cgil:
mi hanno sempre seguito. Con la persona che c’era ci si stimava reciprocamente.
La Cgil aveva la maggioranza in fabbrica, per la provenienza di tutti i
lavoratori iscritti dal sindacato unico. Però con l’avvento dello Statuto, e
avendo la possibilità di muovermi in fabbrica, ho cominciato a far crescere la
Cisl e in pochi anni siamo diventati maggioranza (1973).
Naturalmente,
la “grande” politica sindacale la vivevamo in seconda linea. Ho scoperto dopo
cosa succedeva nel mondo, ma nel nostro piccolo abbiamo vissuto tutto il
fermento della partecipazione, potevamo dire e fare quello che pensavamo. Avevamo
le informazioni che ci portavano i sindacalisti che ci seguivano. Andavamo ai
convegni e alle riunioni quando ci portavano. Poi abbiamo costituito i consigli
di fabbrica: si lavorava bene, si conoscevano tante persone e si “coltivavano”
tutti i possibili tesserati.
Poi
abbiamo scoperto le grandi rivendicazioni…
Agli
inizi degli anni 70, il segretario di Bergamo era Vincenzo Bombardieri. Tutto
il dibattito relativo allo “scontro” in atto a livello nazionale, per noi della
“periferia”, è avvenuto quasi in sordina, non eravamo certo coinvolti…poi, col
tempo ho iniziato a frequentare Bergamo e ho conosciuto i dirigenti.
È
stato anche questo un periodo bellissimo. Nel confronto tra le aree di Storti e
Scalia, io sono sempre stato vicino a Storti, più vicino alle mie aspirazioni
sindacali, quelle di un sindacato libero. C’era chi voleva legarsi alla Dc.
Bergamo, invece, era per l’autonomia.
Gli
anni 70 hanno consegnato una nuova linfa al sindacato: abbiamo conquistato la
settimana corta (dal lunedì al venerdì), senza passare al ciclo continuo.
Vedevamo le altre categorie che riducevano l’orario di lavoro e noi le abbiamo
seguite. Poi, abbiamo affrontato la discussione sul salario. Da noi, c’era un confronto
pesante. Di fronte al nostro stabilimento, c’era la cartiera Pigna: un ambiente
più pulito, un lavoro più leggero, uno stipendio maggiore. Nella fattispecie,
rendeva le cose ancora più difficili da digerire, il fatto che alla Pigna
lavorassero molte mogli degli operai Sacelit. Queste avevano una busta paga più
pesante dei mariti, e a quei tempi non era facile passarci sopra…si crearono
non pochi problemi in molte famiglie.
Ma
in Pigna la sindacalizzazione era più avanti, aveva una storia più lunga. Noi,
invece, abbiamo dovuto ripartire da zero, ma col tempo abbiamo in parte ridotto
il gap salariale tra mogli e mariti.
In
fabbrica, allora, non vivevamo una conflittualità permanente, ma ciclica, sì.
Abbiamo fatto vertenze aspre, seguiti da tutti i 250 lavoratori. Grazie al
consiglio di fabbrica, su qualsiasi problema, la gente veniva coinvolta.
Bastava un fischio e tutti arrivavano. Non c’erano divergenze con la Cgil: gli obiettivi
unificavano tutti.
Nel
1973, la valle Seriana ha subito fortemente l’austerity, soprattutto nel tessile,
e noi siamo stati coinvolti anche nelle loro manifestazioni. Ogni sciopero generale
lo facevamo, ricordo scioperi generali che coinvolgevano tutti, il sindacato
era seguito, eravamo creduti. Se avvicinavi qualcuno e parlavi del sindacato,
lo facevi con passione. E poi lo si informava e soprattutto si convincevano
anche i più reticenti e dubbiosi.
Erano
anni in cui si facevano vertenze per qualsiasi argomento utile a cambiare le
condizioni del lavoro e dei lavoratori, e abbiamo ottenuto quasi tutto, con
gradualità, con mesi di trattative, anche fermando la fabbrica. Qualche volta
ottenendo subito tutto.
Fermare
la produzione, a quel tempo, voleva dire buttare via cinque sei ore di lavoro,
perché ripartire era difficile. Quando lo si faceva, la direzione Italcementi piombava
in fabbrica e in un pomeriggio si trovava l’accordo.
Questo
ci ha un po’ illuso: siamo andati avanti per un po’ di tempo.
Poi
sono partite altre rivendicazioni: abbiamo ripetuto la stessa modalità, ma senza
lo stesso effetto…ci abbiamo riprovato ancora: l’azienda ha iniziato a
rispondere picche.
La
nostra forza giocata così era per loro motivo di non contrattazione, mancava il
rispetto delle regole. Dopo l’ennesimo sciopero con presidio dei cancelli, hanno
denunciato tutto il consiglio di fabbrica. C’è stata un’udienza urgente del
pretore del lavoro, che siamo riusciti a chiudere senza troppi guai, ma ha voluto
dire impegnarsi per costruire un’intesa, un accordo nel quale pur ottenendo
parte delle nostre richieste, abbiamo dovuto sottoscrivere che non avremmo più utilizzato
forme di protesta che potessero fermare l’azienda.
La
sentenza diceva che il danno era superiore a tutti i benefici che si potevano ottenere
e metteva in difficoltà l’azienda.
Nonostante
questo, o forse perché anche in questa occasione sono riuscito a mantenere un
comportamento adeguato agli insegnamenti e agli obiettivi di un sindacalista,
nel 1975, sono uscito dalla fabbrica e entrato ufficialmente alla Cisl, anche
se con un po’ di preoccupazione (avevo due figli piccoli, non sapevo se avevo
le capacità di condurre un altro tipo di attività…). Zonca e Suagher mi hanno
convinto a fare esperienza a Gazzaniga, nella sede territoriale, come operatore
di zona e come riferimento per tutta una serie di aziende. C’erano ancora
tantissime fabbriche non sindacalizzate, in tutti i settori. “Tu vai – mi
dissero -, prendi contatto, cerca di parlare con qualcuno e portali al
sindacato”. Così ho iniziato a fare questa attività.
Quel
periodo ha coinciso anche con le tantissime riunioni per mettere insieme la
federazione unitaria. Fu istituito il delegato unitario. Poi si è spaccato
tutto molto velocemente, quindi ho fatto l’operatore tessile per la Cisl. Sono
poi tornato alla Filca. C’era bisogno di operatori. Suagher era andato via e Pesenti,
diventato generale, mi ha portato in segreteria. Era il 1981.
Vivevo
uno strano rapporto con la politica sindacale, le grandi discussioni, gli
scontri tra “correnti. Avevo un forte rapporto con la Cisl, ma il mio lavoro,
il mio impegno andava tutto nella contrattazione e nel rapporto con i
lavoratori.
Partecipavo,
seguivo convegni e consigli generali…ma il primo congresso a cui ho partecipato
è stato quello della Cisl del 1977. Mi ricordo delle due linee sindacali, delle
grandi battaglie ideologiche e di posizione che si fecero, ma io rimanevo un piccolo
operatore di provincia, e quando a Bergamo qualcuno mi chiese di accompagnare
un gruppo di iscritti a Lourdes, io ci sono andato…mi interessava di più.
Vivevo
il mio lavoro come un servizio, e il clima di quegli anni mi ha certamente
aiutato. C’era fermento di novità e cambiamenti in ogni cosa che decidevamo di
fare, anche quando, alla fine degli anni 70, la situazione si era fatta più
difficile.
Tante
conquiste erano state fatte. Adesso, le crisi industriali arrivavano di continuo
e mettevano difficoltà... Anche in Val Seriana, la situazione si era fatta
complicata: nelle confezioni, nelle piccole aziende, spesso aperte da un ex
operaio, si era creato un filo diretta tra lavoratori e datore: convincere allo
sciopero lavoratori scelti uno per uno dal “capo”, spesso parenti, o ancora di
più convinti che anche loro avrebbero potuto fare il salto in poco tempo, era difficile.
Rimaneva
comunque un grande fermento. Nell’edilizia era bello ancora andare nelle
fabbriche…parlavi con i lavoratori, andavi a confrontarti con i datori…ai lavoratori
parlavi di cose che loro comprendevano: allora il lavoratore lo avvicinavi personalmente,
non come adesso…oggi si lavora sui computer e si scopre che c’è un edile dalle
liste delle casse e degli enti bilaterali...noi andavamo di persona a
conoscerli, a parlargli. Erano gli anni più belli, perché costruivi un rapporto
con il lavoratore, poi i frutti si raccoglievano meglio.
Eravamo
portatori di valori richiesti e condivisi. Oggi la solidarietà è più difficile,
è cambiato il mondo, è tutto più difficile. Noi il rispetto ce lo meritavamo,
per il lavoro continuo che facevamo. Ci vedevano di continuo sui luoghi di
lavoro, e lo facevamo dopo che avevamo finito il nostro turno di lavoro.
Parlavamo con tutti e a tutti procuravamo risposte.
Di
quanto è accaduto e della crisi di rappresentanza, molte colpe le hanno i sindacalisti:
si è creduto che il “marchingegno” potesse funzionare all’infinito. Anche la
scelta degli operatori ha avuto il suo peso. Prima noi non lasciavamo la
fabbrica. Adesso la prima cosa che fanno è lasciare il lavoro per chiudersi
negli uffici…manca la predisposizione a “vivere” il territorio.
Io
se torno indietro, rifaccio tutto quello che ho fatto, perché ho preso più di
quello che ho dato, e ne sono consapevole. Ho incontrato storie sindacali
incredibili in tantissime persone; in ogni persona ho incontrato una storia…