domenica 26 luglio 2020

BEPPE SALA - Cisl - Monza

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto”, di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Jaca Book, Milano, 2019

Nato il 27 agosto 1949 ad Arcore, vive a Usmate Velate (Mb). Impiegato alla Gilera, dopo l’esperienza di segretario della Fim e poi della Cisl della Brianza, ha cercato un rapporto più diretto con le persone e ha fatto il direttore della Fondazione San Carlo della Caritas Ambrosiana.

La mia formazione all’impegno è avvenuta in famiglia, ma senza troppi discorsi, sulla base dell’esempio. Mio papà lavorava, è stato anche in commissione interna della Gilera. Più avanti ho scoperto che era stato consigliere comunale in paese, che mia mamma era stata segretaria della Dc e delle Acli appena finita la guerra, ma non ho avuto nessuna spinta particolare verso un impegno sociale o politico.

Ho sempre frequentato l’oratorio. A scuola la sola cosa che contava era lo studio. Finito il liceo sono andato al lavoro. Nel frattempo ho iniziato a occuparmi di Terzo mondo con Mani Tese. L’impegno sul lavoro è diventato un’esperienza parallela. Ero impegnato sui temi terzomondisti ed ero impegnato anche nell’ambiente di lavoro. Nelle mie letture, però, ero più interessato ai problemi internazionali e molto meno ai temi del lavoro.

Sono entrato in fabbrica nel 1969 come impiegato. Era un momento molto caldo. L’anno in cui la Gilera è stata ceduta alla Piaggio, rischiando di essere messa in liquidazione, e c’erano molte iniziative di lotta. La situazione ti chiedeva di schierarti. Non potevi estraniarti. Sono stato trascinato da quello che stava accadendo, era inevitabile, se non l’avessi fatto mi sarei sentito un meschino e quindi molto probabilmente è stata una scelta motivata sulla base delle mie esperienze giovanili.

Era un ambiente in cui c’era molta Cgil e non c’erano tanti discorsi da fare relativamente ai valori di riferimento. Molta Fiom storica veniva dai tempi della guerra e dalla Resistenza. La Gilera è stata un punto molto forte della Resistenza durante la guerra. Non c’era la necessità di distinguersi, c’era da trovare, e non si faceva fatica, un terreno comune su cui darsi da fare. Sono entrato abbastanza in fretta in consiglio di fabbrica e nell’esecutivo, gli altri erano tutti vecchi militanti. Di giovani c’ero solo io. Poi sono arrivati gli immigrati dal Sud perché la Piaggio ha fatto una grande infornata di operai meridionali e in quel momento le cose sono cambiate. Da parte di queste persone c’è stata una militanza più istintiva, più viscerale, meno ragionata e più rivendicativa. Meno progettuale.

Penso che tutti sapessero che ero un credente, ma non andavo in giro a dire il rosario e nessuno mi ha mai creato problemi per questo. Peraltro non ero l’unico. Ho avuto grandi esempi di impegno gratuito nel sindacato in fabbrica, sia in ambiente cattolico, quindi Fim e Cisl, sia in ambiente marxista, Cgil e Fiom. Erano i grandi leader sindacali interni. Molto puliti, molto onesti, molto lineari. Non ho avuto altri ferimenti fuori dall’ambiente di lavoro.

Le responsabilità sono arrivate quando, dopo otto anni di fabbrica, nel 1976 qualcuno mi ha proposto di fare il sindacalista. Sono uscito a fare l’operatore per la Fim a Vimercate e lì è cambiata la vita. Contemporaneamente mantenevo anche un piccolo impegno politico, non in ambito cattolico, in ambienti terzomondisti.

Nel sindacato ho scelto la Cisl perché la sentivo più vicina, più in sintonia con me, con il mio percorso senza bisogno di fare tanti ragionamenti. Non ho speso molto tempo a pensare questo piuttosto che quello, dove stavano le diversità. Mio papà era stato della Cisl, a volte si parlava di Cisl in casa perché anche mia mamma aveva lavorato in fabbrica durante la guerra e poi fino a quando sono nato io. E’ stato un approdo naturale, fisiologico.

Anche nella Cisl non ho mai ritenuto di dover evidenziare il mio essere credente, anzi bisognava stare attenti a farlo perché si rischiava di marcare troppo questa dimensione, quindi di escludere gli altri. In alcuni dirigenti si percepiva il desiderio di esprimere maggiormente il loro essere credenti, però questo non ha mai influito più di tanto nel modo di fare sindacato. Ha rischiato semmai di giustificare certi schieramenti, certi gruppi, certe organizzazioni interne che si autolegittimavano in funzione di questo: noi siamo i credenti. Però mi pare che non abbiano fatto molta strada.

Ho fatto il sindacalista del 1976 al 2003. Poi mi sono reso conto che valeva la pena spostarsi di lato, non rinnegare niente dei motivi e del senso delle cose che facevo, ma provare a farle da un’altra parte, in particolare costruendo un contatto più diretto con il bisogno più immediato. Anche perché, con il passaggio dalla categoria alla confederazione, mi sono reso conto di un rapporto che rischiava di essere sempre più mediato con la realtà. Avevo bisogno di un bagno di concretezza, ho lasciato il sindacato e mi sono impegnato nella Caritas Ambrosiana come direttore alla Fondazione San Carlo. Un ambito che ho cercato io. E’ stata una scelta per me, per il bisogno di fare delle cose il cui risultato fosse immediatamente percepibile. Basta riunioni, ma un rapporto diretto con le cose da fare e con le persone.

Sono stato il direttore dal 2003 al 2007, fino a quando sono andato in pensione. Ora sono un volontario, sempre alla Caritas, nell’area casa e lavoro. Ho avuto altri incarichi come consigliere d’amministrazione della Fondazione lombarda antiusura della Cariplo, della scuola di formazione professionale Luigi Clerici e della stessa Fondazione San Carlo.

Gli incarichi in Caritas mi hanno riavvicinato ad ambienti che già conoscevo, al rapporto con le associazioni imprenditoriali, ho ritrovato persone che avevo conosciuto dall’altra parte dei tavoli di confronto, ma ho ritrovato in giro nella diocesi come volontari anche non pochi ex sindacalisti della Cisl e questo mi ha fatto molto piacere. Anche in Caritas non viene chiesta l’immaginetta, la certificazione che vai a messa la domenica. Percepisco una sintonia particolare tra le cose che faccio e quello che penso, è un terreno dove diventa più evidente il senso delle cose che si fanno. Quindi anche la dimensione religiosa di base.

Sono impegnato anche nella Caritas parrocchiale e questa è una conseguenza del mio impegno in diocesi, che prima non avevo. Ogni tanto mi chiamano a presentare i documenti e le iniziative della diocesi sui temi di cui mi occupo, a fare qualche incontro. Incontri che mi aiutano a mettere a fuoco meglio alcune questioni, misurandomi con gli altri, con le loro opinioni, ascoltandoli. Sullo sfondo ci sono gli importanti documenti che papa Francesco ha prodotto, che sono belli da leggere da soli, ma che sono ancora più belli da riflettere assieme.

Nel mio percorso ho sentito la Chiesa, il mondo cattolico, la comunità vicini solo nei problemi. Quando c’è la crisi, quando il lavoro manca. Sono andato in giro a parlare molto di lavoro in questo periodo di crisi, dicendo che è importante stare attenti al lavoro che manca ma occorre stare attenti anche al lavoro che cambia. Sul tema del lavoro che cambia non vedo impegno, non vedo nessuna riflessione. Tre, quattro cose buttate là, che vanno bene, ma che sono le solite e che non trovano la mediazione con la situazione reale e rimangono solo affermazioni di principio. Vedo l’assenza di una esplicazione, di un senso cristiano nel modo in cui oggi si sta organizzando il lavoro, anche da parte delle persone che poi trovi alla messa la domenica. Quello che il cardinale Scola diceva: “La carità, la fede non si trasformino in cultura”, vedo invece che sta avvenendo e ho una gran paura di un simile fenomeno. La fede che diventa individuale, privata, che si rinchiude in quattro formule e che non diventa vita. E’ tragica per me questa situazione e non vedo luoghi nei quali in qualche modo ribaltare questa realtà.

Le Acli sono i Caf, nell’Azione cattolica al mio paese la persona più giovane iscritta è mia moglie, che non è vecchissima ma non è più una bambina. Davvero qui c’è un buco e i preti su questo non ci sono, ma d’altra parte non dovrebbe essere neanche dei preti questo compito. Io colgo questa situazione nello spazio dentro il quale vivo, che conosco direttamente, ma ho l’impressione che questa sia una realtà molto più ampia di quella che osservo io, che sia una realtà, un modo di essere, un atteggiamento molto diffuso.

Il grosso problema oggi nel mondo del lavoro è l’assenza di nesso tra il credere e l’agire. La fede che non cambia il mondo, relegata in un cantuccio, sempre più individuale. Dopo di che non c’è da stupirsi se i giovani non ti seguono, se si chiedono che senso ha. Cosa aggiungerebbe la fede alla mia vita? Non essere riusciti a spiegarglielo è colpa nostra, perché immaginiamo una fede separata dalla vita. Meno male che c’è papa Francesco che ci sta provando. Quando dice che il Vangelo è gioia, di smetterla di parlare di valle di lacrime.

Possiamo ripartire da qui, in un mondo dove di gioia ce n’è poca e di speranza non ce n’è più, per ricostruire un sistema di pensiero e un modello di vita in cui il lavoro è centrale. Il lavoro è la vocazione dell’uomo, se ti portano via il lavoro ti portano via la vocazione. Tu sei chiamato a migliorare il mondo e lo fai attraverso il lavoro: il lavoro retribuito, il lavoro gratuito, il dono. Se non hai lo spazio per farlo è un pezzo di vita che ti viene negata.