Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Lavoro e cristianesimo. Un problema aperto”, di Sandro Antoniazzi e Costantino Corbari, Jaca Book, Milano, 2019
Nato il 27 agosto 1949 ad Arcore, vive a Usmate Velate (Mb). Impiegato alla Gilera, dopo l’esperienza di segretario della Fim e poi della Cisl della Brianza, ha cercato un rapporto più diretto con le persone e ha fatto il direttore della Fondazione San Carlo della Caritas Ambrosiana.
La mia formazione all’impegno è avvenuta in famiglia, ma senza troppi discorsi, sulla base dell’esempio. Mio papà lavorava, è stato anche in commissione interna della Gilera. Più avanti ho scoperto che era stato consigliere comunale in paese, che mia mamma era stata segretaria della Dc e delle Acli appena finita la guerra, ma non ho avuto nessuna spinta particolare verso un impegno sociale o politico.
Ho sempre frequentato l’oratorio. A
scuola la sola cosa che contava era lo studio. Finito il liceo sono andato al
lavoro. Nel frattempo ho iniziato a occuparmi di Terzo mondo con Mani Tese.
L’impegno sul lavoro è diventato un’esperienza parallela. Ero impegnato sui
temi terzomondisti ed ero impegnato anche nell’ambiente di lavoro. Nelle mie
letture, però, ero più interessato ai problemi internazionali e molto meno ai
temi del lavoro.
Sono entrato in fabbrica nel 1969 come
impiegato. Era un momento molto caldo. L’anno in cui la Gilera è stata ceduta
alla Piaggio, rischiando di essere messa in liquidazione, e c’erano molte
iniziative di lotta. La situazione ti chiedeva di schierarti. Non potevi
estraniarti. Sono stato trascinato da quello che stava accadendo, era
inevitabile, se non l’avessi fatto mi sarei sentito un meschino e quindi molto
probabilmente è stata una scelta motivata sulla base delle mie esperienze
giovanili.
Era un ambiente in cui c’era molta Cgil
e non c’erano tanti discorsi da fare relativamente ai valori di riferimento.
Molta Fiom storica veniva dai tempi della guerra e dalla Resistenza. La Gilera
è stata un punto molto forte della Resistenza durante la guerra. Non c’era la
necessità di distinguersi, c’era da trovare, e non si faceva fatica, un terreno
comune su cui darsi da fare. Sono entrato abbastanza in fretta in consiglio di
fabbrica e nell’esecutivo, gli altri erano tutti vecchi militanti. Di giovani
c’ero solo io. Poi sono arrivati gli immigrati dal Sud perché la Piaggio ha
fatto una grande infornata di operai meridionali e in quel momento le cose sono
cambiate. Da parte di queste persone c’è stata una militanza più istintiva, più
viscerale, meno ragionata e più rivendicativa. Meno progettuale.
Penso che tutti sapessero che ero un
credente, ma non andavo in giro a dire il rosario e nessuno mi ha mai creato
problemi per questo. Peraltro non ero l’unico. Ho avuto grandi esempi di
impegno gratuito nel sindacato in fabbrica, sia in ambiente cattolico, quindi
Fim e Cisl, sia in ambiente marxista, Cgil e Fiom. Erano i grandi leader
sindacali interni. Molto puliti, molto onesti, molto lineari. Non ho avuto
altri ferimenti fuori dall’ambiente di lavoro.
Le responsabilità sono arrivate quando,
dopo otto anni di fabbrica, nel 1976 qualcuno mi ha proposto di fare il
sindacalista. Sono uscito a fare l’operatore per la Fim a Vimercate e lì è
cambiata la vita. Contemporaneamente mantenevo anche un piccolo impegno
politico, non in ambito cattolico, in ambienti terzomondisti.
Nel sindacato ho scelto la Cisl perché
la sentivo più vicina, più in sintonia con me, con il mio percorso senza
bisogno di fare tanti ragionamenti. Non ho speso molto tempo a pensare questo
piuttosto che quello, dove stavano le diversità. Mio papà era stato della Cisl,
a volte si parlava di Cisl in casa perché anche mia mamma aveva lavorato in
fabbrica durante la guerra e poi fino a quando sono nato io. E’ stato un
approdo naturale, fisiologico.
Anche nella Cisl non ho mai ritenuto di
dover evidenziare il mio essere credente, anzi bisognava stare attenti a farlo
perché si rischiava di marcare troppo questa dimensione, quindi di escludere
gli altri. In alcuni dirigenti si percepiva il desiderio di esprimere
maggiormente il loro essere credenti, però questo non ha mai influito più di
tanto nel modo di fare sindacato. Ha rischiato semmai di giustificare certi
schieramenti, certi gruppi, certe organizzazioni interne che si
autolegittimavano in funzione di questo: noi siamo i credenti. Però mi pare che
non abbiano fatto molta strada.
Ho fatto il sindacalista del 1976 al
2003. Poi mi sono reso conto che valeva la pena spostarsi di lato, non
rinnegare niente dei motivi e del senso delle cose che facevo, ma provare a
farle da un’altra parte, in particolare costruendo un contatto più diretto con
il bisogno più immediato. Anche perché, con il passaggio dalla categoria alla
confederazione, mi sono reso conto di un rapporto che rischiava di essere
sempre più mediato con la realtà. Avevo bisogno di un bagno di concretezza, ho
lasciato il sindacato e mi sono impegnato nella Caritas Ambrosiana come
direttore alla Fondazione San Carlo. Un ambito che ho cercato io. E’ stata una
scelta per me, per il bisogno di fare delle cose il cui risultato fosse
immediatamente percepibile. Basta riunioni, ma un rapporto diretto con le cose
da fare e con le persone.
Sono stato il direttore dal 2003 al
2007, fino a quando sono andato in pensione. Ora sono un volontario, sempre alla
Caritas, nell’area casa e lavoro. Ho avuto altri incarichi come consigliere
d’amministrazione della Fondazione lombarda antiusura della Cariplo, della
scuola di formazione professionale Luigi Clerici e della stessa Fondazione San
Carlo.
Gli incarichi in Caritas mi hanno
riavvicinato ad ambienti che già conoscevo, al rapporto con le associazioni
imprenditoriali, ho ritrovato persone che avevo conosciuto dall’altra parte dei
tavoli di confronto, ma ho ritrovato in giro nella diocesi come volontari anche
non pochi ex sindacalisti della Cisl e questo mi ha fatto molto piacere. Anche
in Caritas non viene chiesta l’immaginetta, la certificazione che vai a messa
la domenica. Percepisco una sintonia particolare tra le cose che faccio e
quello che penso, è un terreno dove diventa più evidente il senso delle cose
che si fanno. Quindi anche la dimensione religiosa di base.
Sono impegnato anche nella Caritas
parrocchiale e questa è una conseguenza del mio impegno in diocesi, che prima non
avevo. Ogni tanto mi chiamano a presentare i documenti e le iniziative della
diocesi sui temi di cui mi occupo, a fare qualche incontro. Incontri che mi
aiutano a mettere a fuoco meglio alcune questioni, misurandomi con gli altri,
con le loro opinioni, ascoltandoli. Sullo sfondo ci sono gli importanti
documenti che papa Francesco ha prodotto, che sono belli da leggere da soli, ma
che sono ancora più belli da riflettere assieme.
Nel mio percorso ho sentito la Chiesa,
il mondo cattolico, la comunità vicini solo nei problemi. Quando c’è la crisi,
quando il lavoro manca. Sono andato in giro a parlare molto di lavoro in questo
periodo di crisi, dicendo che è importante stare attenti al lavoro che manca ma
occorre stare attenti anche al lavoro che cambia. Sul tema del lavoro che
cambia non vedo impegno, non vedo nessuna riflessione. Tre, quattro cose buttate
là, che vanno bene, ma che sono le solite e che non trovano la mediazione con
la situazione reale e rimangono solo affermazioni di principio. Vedo l’assenza
di una esplicazione, di un senso cristiano nel modo in cui oggi si sta
organizzando il lavoro, anche da parte delle persone che poi trovi alla messa
la domenica. Quello che il cardinale Scola diceva: “La carità, la fede non si
trasformino in cultura”, vedo invece che sta avvenendo e ho una gran paura di
un simile fenomeno. La fede che diventa individuale, privata, che si rinchiude
in quattro formule e che non diventa vita. E’ tragica per me questa situazione
e non vedo luoghi nei quali in qualche modo ribaltare questa realtà.
Le Acli sono i Caf, nell’Azione
cattolica al mio paese la persona più giovane iscritta è mia moglie, che non è
vecchissima ma non è più una bambina. Davvero qui c’è un buco e i preti su
questo non ci sono, ma d’altra parte non dovrebbe essere neanche dei preti
questo compito. Io colgo questa situazione nello spazio dentro il quale vivo,
che conosco direttamente, ma ho l’impressione che questa sia una realtà molto
più ampia di quella che osservo io, che sia una realtà, un modo di essere, un
atteggiamento molto diffuso.
Il grosso problema oggi nel mondo del
lavoro è l’assenza di nesso tra il credere e l’agire. La fede che non cambia il
mondo, relegata in un cantuccio, sempre più individuale. Dopo di che non c’è da
stupirsi se i giovani non ti seguono, se si chiedono che senso ha. Cosa
aggiungerebbe la fede alla mia vita? Non essere riusciti a spiegarglielo è
colpa nostra, perché immaginiamo una fede separata dalla vita. Meno male che
c’è papa Francesco che ci sta provando. Quando dice che il Vangelo è gioia, di
smetterla di parlare di valle di lacrime.
Possiamo ripartire da qui, in un mondo
dove di gioia ce n’è poca e di speranza non ce n’è più, per ricostruire un
sistema di pensiero e un modello di vita in cui il lavoro è centrale. Il lavoro
è la vocazione dell’uomo, se ti portano via il lavoro ti portano via la
vocazione. Tu sei chiamato a migliorare il mondo e lo fai attraverso il lavoro:
il lavoro retribuito, il lavoro gratuito, il dono. Se non hai lo spazio per
farlo è un pezzo di vita che ti viene negata.