Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Impegno e passione. Gli anni caldi della Cisl in Lombardia”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2016
Sono nato il 14 aprile 1937 a
Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria, sono diplomato ragioniere. Ho
fatto tanti anni di università ad Economia e commercio ma non mi sono laureato.
Mio papà era segretario comunale, la mia famiglia era di Locri, ma io sono nato
a Brancaleone perché mio papà era occupato in quel paese. La mia era una
famiglia numerosa, mio papà si è sposato tre volte.
Ha avuto tre figli dalla prima moglie che sono stati per me, che ero l'ultimo dei figli, dei secondi genitori perché erano molto più grandi di me. Mia mamma si è sposata all'età di 19 anni con un uomo che aveva già tre figli, è sempre rimasta in casa e non ha mai lavorato. Era una famiglia religiosa, ma quando è morto mio papà ho scoperto che era massone. Avevo tredici anni, a casa si sono presentati dei personaggi, illustri professionisti, che hanno chiesto a mia madre che il suo corpo venisse messo in un lenzuolo bianco con sotto dei carboni. Quando mia mamma ha chiesto la ragione di quella richiesta loro hanno risposto che quella era la modalità in uso tra i massoni. Mia mamma ha detto di no, anche perché lei aveva visto che almeno nell’ultimo periodo si era avvicinato alla chiesa.
Ha avuto tre figli dalla prima moglie che sono stati per me, che ero l'ultimo dei figli, dei secondi genitori perché erano molto più grandi di me. Mia mamma si è sposata all'età di 19 anni con un uomo che aveva già tre figli, è sempre rimasta in casa e non ha mai lavorato. Era una famiglia religiosa, ma quando è morto mio papà ho scoperto che era massone. Avevo tredici anni, a casa si sono presentati dei personaggi, illustri professionisti, che hanno chiesto a mia madre che il suo corpo venisse messo in un lenzuolo bianco con sotto dei carboni. Quando mia mamma ha chiesto la ragione di quella richiesta loro hanno risposto che quella era la modalità in uso tra i massoni. Mia mamma ha detto di no, anche perché lei aveva visto che almeno nell’ultimo periodo si era avvicinato alla chiesa.
Mentre studiavo facevo il
calciatore professionista, giocavo nella Locrese in serie D, ero abbastanza
bravo e giocavo come centro mediano. Ho fatto parte della rappresentativa
calabrese e nel 1960 sono stato convocato nella nazionale olimpica senza però
giocare. Poi ho avuto un incidente automobilistico, sono stato operato a Firenze
e sono stato ingessato a un braccio per otto mesi. Quando sono tornato non ero
più il calciatore di prima, avevo un po' paura, per cui ho lasciato il calcio.
Per qualche mese ho fatto il professore di educazione fisica. Quindi ho partecipato
ad un concorso pubblico per entrare all'Enpi, Ente nazionale prevenzione
infortuni. Il pubblico impiego nel meridione voleva dire posto fisso.
L'alternativa era l'agricoltura. Avendo vinto il concorso potevo scegliere di
andare in due città: Como o Bergamo, e siccome a Como c'era mio fratello ho
scelto quella città. Era il 1963. Era una struttura interprovinciale che si
occupava di Como, Varese e Sondrio. Ho iniziato a lavorare il 1° maggio 1964
come impiegato amministrativo. La sede si trovava presso l'Unione industriali,
perché l'Enpi era considerato vicino alle imprese. Si faceva prevenzione
tenendo conto delle esigenze delle aziende mentre il rapporto con i lavoratori
era secondario. In quegli anni si cominciava però a discutere dei problemi della
salute nei luoghi di lavoro e ho iniziato ad appassionarmi a quella attività. Ho
cominciato a conoscere il sindacato, che fino ad allora non avevo mai
incontrato. Siccome ero una persona che si interessava ai problemi sono stato
trasferito all'ufficio propaganda, un'attività che si svolgeva a livello
regionale e consisteva in iniziative di educazione alla sicurezza. Facevamo dei
corsi nelle scuole e nelle colonie con i ragazzi e, finalmente, anche con i
lavoratori, cercando di far capire cosa significasse prevenzione.
Quando sono arrivato all'Enpi ci
lavoravano 27 persone, uno era iscritto alla Cgil e nessun altro era iscritto
al sindacato. Dopo un paio d'anni che ero in quell'ufficio è arrivato un
segretario nazionale della Cisl per fare un'assemblea e ci sono andato, mi sono
appassionato e nel giro di qualche tempo ho fatto 26 iscritti. Ho conosciuto il
presidente dell'Inam di Como, il senatore Valsecchi, segretario generale della
Cisl di Como, uomo di Pastore. Nel frattempo avevo organizzato una squadra di
calcio e mi occupavo delle attività del cral. Nel mio lavoro avevo molta
libertà e quindi non ho mai avuto bisogno del distacco per svolgere l'attività
sindacale, l'importante era fare il proprio lavoro, ma senza vincoli
particolari. Rapidamente sono diventato: prima segretario Cisl dell'ente di
Como, poi regionale, poi nazionale, fino al 1968, '69, nell'ambito della
Federpubblici. L'Enpi era uno degli enti più piccoli.
Nella seconda metà degli anni '60
il pubblico impiego in Lombardia era scarsamente rappresentativo e la sua
influenza, anche dal punto di vista dell'elaborazione culturale, era
estremamente limitata. Quando a Como è diventato segretario generale della Cisl
l'avvocato Paolo Sala il rappresentante del pubblico impiego nel consiglio
generale veniva nominato direttamente da lui e nessuno metteva in discussione
questo fatto. Questo perché il ruolo del pubblico impiego nella Cisl di Como e
in Lombardia era assolutamente marginale rispetto alla realtà preponderante
dell'industria. A livello nazionale invece la Federpubblici era una categoria
importante. Il leader nazionale era Franco Marini, dipendente della Cassa per
il mezzogiorno.
Ero iscritto alla Democrazia
cristiana che a Como era una Dc di centro destra, mentre i cislini erano con
l'ala sinistra del partito. Quando ancora non si discuteva dell'incompatibilità
tra cariche sindacali e cariche politiche sono stato presidente di una
circoscrizione, un incarico che ho ricoperto per poco tempo, perché non appena
si è aperto il tema dell'incompatibilità ho fatto un passo indietro e ho scelto
la Cisl. In Cisl si è discusso animatamente di questo, anche se da Roma arrivavano
notizie contrastanti. E’ stata la Lombardia che ha sostenuto con decisione
l'incompatibilità tra cariche politiche e cariche sindacali. In Lombardia c'era
un vero anelito di autonomia e io ero convinto di questo e quando incontravo
sindacalisti che avevano anche ruoli politici mi interrogavo su come potessero
mantenere entrambi gli incarichi.
In ufficio si discuteva solo
dell'applicazione dei contratti nazionali, i più erano assunti con contratti
semestrali, pochissimi con concorso pubblico. Abbiamo iniziato a chiedere delle
garanzie anche per loro e ad avviare i primi confronti con il consiglio di
amministrazione, dove il presidente era nominato dal governo e i due vicepresidenti
erano uno in rappresentanza delle imprese e l'altro in rappresentanza dei
lavoratori.
Sul finire degli anni Sessanta si
cominciava a parlare di medicina del lavoro, di sicurezza e prevenzione e
all'interno del nostro ente ci si chiedeva se dovesse ancora esistere un
istituto di quel genere ed è a quel punto che ho fatto il salto verso un
impegno sindacale più maturo. Lo spunto che ha fatto scattare la molla è stato
uno scontro con il direttore il quale, incontrandomi sulla scala che si usava per
scendere dal piano dove lavoravo a quello dove c'erano i tecnici, mi ha
minacciato di licenziamento. Tutto è finito in niente e anzi col passare degli
anni siamo pure diventati amici, perché sono diventato forte come sindacato e
anche i dirigenti avevano bisogno di noi.
Il dibattito interno e il clima
generale stimolavano anche gli altri lavoratori ad una maggiore partecipazione.
La maggior parte dei dipendenti erano tecnici. C'erano medici e psicologi del
lavoro. Molti ingegneri impegnati nei collaudi, nelle verifiche e avevano
rapporti con i lavoratori e anche loro iniziavano a chiedersi se avesse senso
un ente pubblico di parte.
La partecipazione alle iniziative
di carattere generale come gli scioperi per le riforme non è mai stata elevata.
Uno dei temi di cui si discuteva in quegli anni era quello della riforma
sanitaria e, mentre i miei colleghi si chiedevano quale sarebbe stato il loro
futuro, io mi sono buttato su questa questione e ho lavorato anche a livello
regionale insieme a medici ed esperti per costruire un nuovo modello di sanità
che offrisse un servizio di qualità per tutti. Mi sono schierato con decisione
a favore della chiusura dell'Enpi e degli altri enti e a sostegno della riforma
sanitaria. Ero un confederale, non difendevo gli interessi corporativi dei
dipendenti degli enti, ero più preoccupato della salute di tutti i lavoratori
che del destino dell'ente, anche perché tutti sapevano che nessuno ci avrebbe
mandati a casa.
Anche all'inizio degli anni
Settanta le battaglie sindacali all'Enpi erano tutte rivolte al nostro interno
e riguardavano il posto fisso, i contributi, le pensioni. In quegli anni in
alcuni settori le donne potevano andare in pensione con 14 anni, sei mesi e un
giorno di lavoro. Io sono andato in pensione con 25 anni di contributi. Dentro
la categoria erano i rappresentanti dei grandi gruppi pubblici, come l'Inps,
che tiravano le fila dell'azione sindacale dei pubblici, noi come enti minori
ci siamo accodati e pian piano il pubblico impiego ha iniziato ad avere un suo
ruolo, avviando anche processi di contrattazione locale seppure tutto fosse
sostanzialmente definito dai contratti nazionali. La mia attività in azienda si
limitava a cercare di risolvere eventuali problemi che nascevano nella
quotidianità del lavoro. La prima vera contrattazione l'abbiamo fatta sulle
note di qualifica. Avevamo quattordici mensilità, dodici piene e altre due
mezze, 13ª e 14ª, regolate dalle note di qualifica. Se le note del direttore
erano negative queste riducevano le due mensilità. Ho cominciato a porre il
problema dicendo che dovevamo discuterne insieme e non lasciare solo al
direttore in modo discrezionale la scrittura delle note. Si discuteva di soldi
e quindi era una questione molto sentita in un momento in cui lo stipendio era di
70mila lire al mese.
Da noi non c'erano i delegati
sindacali, c'erano solo le rappresentanze sindacali e l'arrivo dello Statuto
dei lavoratori non ha cambiato praticamente nulla.
Unità sindacale. Si è cominciato a
discuterne partendo dai problemi concreti, i problemi più seri erano quelli
sociali: le pensioni, la sanità, le riforme e le grandi questioni del lavoro. A
Como la discussione è stata forte, io mi ero già inserito a pieno titolo nella
vita della Cisl, in quel momento il segretario generale era Noseda, poi è
arrivato Cornelio Fontana e con lui ho stabilito un bel rapporto. Veniva da
un'azienda metallurgica e ha visto che uno che arrivava dal pubblico impiego si
dava da fare a partire dai problemi della salute in fabbrica e della medicina
del lavoro. Abbiamo fatto tante battaglie sulla salute nei luoghi di lavoro
affiancati da un gruppo di medici amici, in particolare mi ricordo nel settore
del legno sull'uso dei collanti. Sono stato inserito nei Cuz, i consigli
unitari di zona.
Ero favorevole all'unità sindacale
e anche nel pubblico impiego mi vedevano come uno che portava avanti il
percorso unitario. Mi rendevo conto che dietro non avevo molto, ma mi facevo
forza della posizione dell'organizzazione nel suo insieme. Quando intervenivo
in qualche assemblea o al consiglio generale i rappresentanti del settore
privato mi guardavano con occhio favorevole perché finalmente avevano uno del
pubblico impiego con loro. Io sostenevo questa visione nuova.
Il segretario generale della
Federpubblici a Como era un dipendente dell'Inam, Vincenzo Piatti, e io non ho
mai ricoperto quella carica pur essendo stato a lungo in segreteria. Sono stato
poi in segreteria dell'Unione dal '77 al 1989. Nei congressi precedenti ero
entrato prima nel consiglio generale e poi nell'esecutivo della Cisl di Como.
Nella segreteria della Cisl avevo come incarico quello di seguire il pubblico
impiego e la categoria è sempre stata con me. Ero considerato il riformatore
del pubblico impiego rispetto alla visione tradizionale che c'era nel settore.
Nel congresso del '73 e nei periodi
successivi avevo una posizione strana in casa Cisl, perché pur essendo in
Federpubblici, che a livello nazionale era allineata con la tesi due di Scalia
e Franco Marini, io ero con tesi uno con Storti e Carniti. A Como ero schierato
con l'industria e con me c'era la scuola media. La categoria però non mi ha
creato nessun problema, era venuto Marini a fare un'assemblea per spiegare le
tesi di Scalia e poi mi hanno invitato a una cena dove Marini insisteva perché mi
schierassi con loro, ma io non ho cambiato idea e questa cosa nella Cisl di
Como è stata molto apprezzata.
In quel periodo nascevano le
categorie unitarie e abbiamo condotto molte battaglie insieme, anche se quando
non eravamo d'accordo con la Cgil facevamo sentire la nostra posizione. Quando
la Cgil ha voluto fare uno sciopero contro il sindaco noi non abbiamo
partecipato perché l'abbiamo considerata una iniziativa di tipo politico. Mi
sentivo partecipe del percorso unitario, abbiamo creato anche i comitati
unitari per il turismo, e anche se qualcuno ogni tanto mi tirava la giacchetta
io ero convinto di proseguire su quella strada. Era un dibattito tutto interno
alle organizzazioni però, i lavoratori non se ne interessavano più di tanto e
non a caso finiti i congressi la spaccatura in casa Cisl è stata rapidamente
superata. Con Franco Marini sono sempre rimasto amico pur essendomi schierato
con tesi uno senza mezzi termini e con chiarezza. Questa è la bellezza della
nostra organizzazione, finite le discussioni si tornava ad essere persone con
rapporti splendidi.
Governi di unità nazionale. Nello
statuto della Dc di Como era previsto che nella scelta dei candidati alle
elezioni fosse presente un rappresentante dalla Cisl e i cislini democristiani
erano sempre invitati a partecipare alle riunioni del partito. Quando si è
iniziato a porre il problema dell'ingresso dei comunisti nel governo nazionale
il dibattito è stato molto forte. A Como la Cgil aveva un segretario generale
socialista, ma vedevo che negli incontri i comunisti erano più seri. Quando
parlavi con un comunista, se raggiungevi un accordo potevi essere tranquillo
che quello sarebbe stato mantenuto. Per cui, con una Dc che si stava
trasformando anche a livello locale, con una guida nazionale affidata a Moro,
io ho vissuto come un passaggio entusiasmante la nascita dei governi di unità
nazionale e ho visto con favore che si mettessero insieme le anime popolari del
paese. Da democristiano, ma da democristiano cislino, ho sostenuto quel
processo. Anche in Cisl a Como c'erano quelli contrari, ma non discutevano
molto.
A Como nel 1981 ci sono stati
numerosi attentati in una sola notte, che infatti è stata chiamata “la notte
dei fuochi”, e hanno arrestato diversi delegati iscritti alla Cisl che facevano
riferimento alle Brigate rosse o ad altri gruppi violenti. Mentre la Cgil era
formata da socialisti e comunisti e non volevano coloro che provenivano da
gruppi extraparlamentari, in Cisl ci stavano tutti tranne i fascisti e ogni
tanto ci trovavamo qualche sorpresa e abbiamo vissuto dei momenti difficili.
Il sindacalismo per me è stata una
passione che poi è diventata lavoro. Sono iscritto alla Cisl dal 1964, cioè da
cinquant'anni, la prima tessera l'ho fatta dopo pochi mesi che ero arrivato
all'Enpi. Sono andato in pensione nel 1989 e da quel momento sono diventato un
sindacalista professionista. Di questo mio impegno per cinquant'anni non credo
di dovermi pentire neppure per un momento avendo unito alla passione anche
l'etica che un sindacalista deve avere. La Cisl è casa mia. Certo, forse questa
mia scelta ha pesato un po' sulla famiglia, ho lasciato alla moglie qualche
peso in più. Penso di aver fatto un lavoro bellissimo che da ragazzo, quando
facevo il calciatore a Locri, non avrei mai immaginato. Oggi se dovessi tornare
indietro rifarei la stessa cosa.
La cultura sindacale non è
marginale nel nostro paese, cultura sindacale vuol dire contrattazione, vuol
dire concertazione, che sono idee della Cisl. Oggi che siamo messi un po' in
disparte ci rendiamo conto del valore di questi fattori. Non possiamo
dimenticare alcune scelte che hanno cambiato l'Italia.
Non sempre la Cisl è riuscita ad
essere autonoma dalla politica. Gli intenti e gli obiettivi erano veri, ma
abbiamo visto molti dirigenti che passavano direttamente dalla Cisl alla Dc e
la Dc li metteva in posti sicuri, gli garantiva l'elezione in Parlamento. In
più occasioni si è sentita la sponda del partito. Una presenza della Dc c'è
stata in occasione del confronto tra tesi uno e tesi due. Se penso a me stesso,
io non mi sentivo condizionato o pressato dal partito però guardavo con occhio
diverso alla Democrazia cristiana. Non ero autonomo? Non lo so, però la mia
ideologia era legata a quelle radici, ad alcuni valori, all'insegnamento di
Romani e di Pastore.