Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “Memorie in tuta blu. Gli anni caldi dei metalmeccanici bresciani”, di Costantino Corbari, Edizioni Lavoro, Roma 2005
Sono nato il 20 agosto del
1933 a Brescia. Ho iniziato a lavorare in nero come garzone da un calzolaio. Ho
fatto lo “stufista”, come “piccolo”, andavamo a impiantare e a pulire le stufe
Becchi di terracotta, poi le cucine economiche che andavano a legna e avevano
il forno di terracotta. Noi andavamo a ripararle e a pulire i camini. L’ho
fatto per anno, nel 1947. E’ stato in quel periodo che andando all’oratorio
della Pace ad aggiustare le stufe ho conosciuto gli operai dell’Om che andavano
a scuola. Nel 47, 48, infatti, l’Om era in crisi ed è stata inventata la
“scuola di riconversione” per non
licenziare e hanno fatto dei corsi all’oratorio della Pace e alla Pavoniana
dove c’erano delle aule. Non la chiamavano cassa integrazione, gli operai
timbravano il cartellino, facevano la presenza, ma era qualcosa di simile.
Dopo quella prima esperienza
ho fatto il lattoniere e l’idraulico, sempre come aiutante. Costruivamo i
bidoni dell’immondizia, i canali da mettere sui tetti, le converse. Andavamo in
giro a fare impianti sanitari. Poi nel 1950 sono entrato nella scuola
apprendisti della Om, che era nata su proposta dei sindacati bresciani. Siamo
entrati in 60, suddivisi in due corsi da 30. Si faceva mezza giornata di aula e
mezza in officina e i due gruppi si alternavano. Io sono entrato perché un cugino
di mio papà lavorava all’ufficio di collocamento e mi ha inserito tra gli
allievi.
Il giorno in cui mi hanno
chiamato per iniziare il corso avevo la febbre, ma ho dovuto farmela passare.
Quando sono arrivato mi hanno detto di correre perché ero l’ultimo. Forse
volevano solo prendermi in giro e vedermi correre. Sono entrato in una
palazzina che ora non c’è più facendo tutto il percorso di corsa, perché avevo
paura di non arrivare in tempo. Entrare in Om era come toccare il cielo con un
dito. Non solo per me, ma per tutti. Avevo 17 anni.
Quando Om è diventata Iveco
la situazione in azienda non è cambiata, anche perché Om era già Fiat e
diventare Iveco è stata solo una riorganizzazione del settore veicoli pesanti
che sono stati riuniti nel nuovo gruppo. Beccaria era il direttore della Om ed
è diventato direttore generale di Iveco.
Quando la Fiat ha comperato l’Om l’ha rilanciata con la produzione del
“leoncino”.
A quel tempo giocavo a
calcio la sera, quando uscivo dal lavoro. Giocavo con la tuta di lavoro e
all’oratorio mi chiamavano Om. C’era una certa invidia nei miei confronti,
perché entrare all’Om era come essere diventato un dipendente statale. Il
lavoro era sicuro e si era pagati bene.
Ho frequentato la scuola per
8 o 9 mesi. Si andava in un capannone fuori dall’azienda dove avevano allestito
un’officina con i banchi di lavoro, le frese, i torni. Non si faceva produzione
di serie, ma si imparava a usare tutte le macchine. Mentre per le lezioni di
teoria si andava alla Pavoniana, dove c’era un’aula a nostra disposizione. Si
facevano quattro ore, si studiava tecnologia, disegno, italiano, chimica. Io
avevo fatto la quinta elementare e poi avevo frequentato la Moretto, quattro
ore la domenica mattina, perché gli altri giorni lavoravo dalle sette del mattino
fino alle sette di sera. Ho frequentato la scuola di domenica per tre anni e ho
preso la prima qualifica. Alla sera partecipavo alle adunanze dell’Azione
Cattolica, andavo al coro della parrocchia, c’erano le commedie e molte altre
attività.
Durante il corso alla Om,
prima che finisse chiamavano qualcuno e lo inserivano in fabbrica e così è
toccato anche a me. Alla fine comunque furono tutti assunti. Sono andato a
lavorare nel reparto dove si costruivano le pompe a iniezione del leoncino. Un
bel reparto, sono entrato come fresatore e sono stato affiancato a un bravo
operaio che faceva diverse mansioni e così ho imparato a lavorare anche su
altre macchine e mi sono trovato bene. Per qualche anno sono rimasto lì. La Om
costruiva iniettori su licenza della svizzera Sauber, poi la produzione è
passata alla Bosch. Allora sono passato a lavorare dove si costruivano le
teste, poi le bielle, e in altre aree, sempre sulle macchine. Ho lavorato un
po’ dappertutto. Sono stato anche in montaggio dei motori, in catena, per un
anno. Ho lavorato alle riparazioni dei camion che si rompevano in garanzia,
oppure subivano una modifica perché c’era qualcosa che non andava bene e i
camion che erano usciti venivano richiamati.
Nel 1956 hanno cominciato a
licenziare i comunisti a Torino con Valletta, mentre Scelba che era ministro
dell’Interno li estrometteva dagli uffici statali. Coloro che non se ne
andavano da soli venivano trasferiti a Lecce costringendoli a licenziarsi.
A Brescia il Beccaria non
voleva licenziarli, ma doveva fare qualcosa anche lui. Allora ha creato un
reparto cattivi, il reparto confino dove facevano i pezzi di ricambio che erano
ormai fuori serie. Ci sono finito
anch’io anche se ero della Cisl. L’unico. E molti dei miei compagni di reparto
mi dicevano che ero una spia. Mi ci hanno trasferito perché sul giornale della
Fim avevo scritto un articolo contro il mio capo. L’ho incontrato un mese fa
che è venuto a sentire le mie poesie.
L’avevo scritto perché aveva
dei modi un po’ bruschi, era giovane, aveva un paio d’anni più di me. Titolava:
Lo sai che i papaveri sono alti alti … L’articolo era anonimo, ma c’è stato chi
ha fatto il
mio nome e così sono finito
nel reparto dei cattivi. Sono rimasto lì per una decina d’anni, in mezzo ai
comunisti, i duri, però mi sono fatto ben volere. Il loro leader era Carlo
Bassani. Si lavorava a cottimo e avevamo un tempo assegnato per fare un pezzo e
quando non si è pratici non è facile fare il cottimo, io le prime volte facevo
fatica, ma Bassani è venuto da me con un atteggiamento di comprensione.
La Fim aveva accettato il
premio antisciopero. "Non era sindacato giallo, ma un po’ canarino
sì". Perché c’era la guerra fredda in tutti gli ambiti. In fabbrica ci
chiamavano i “culi bianchi”. Cislini era usato in senso dispregiativo. Si
discuteva accanitamente, ma me la cavavo. Il premio antisciopero era nato per
scoraggiare l'adesione agli scioperi di fabbrica. Per farcelo accettare i
leader della Cisl ci avevano detto che invece gli scioperi nazionali o
provinciali avremmo dovuto farli. Il premio era semestrale ed era di 20mila
lire.
Nel ’58 era stato
programmato uno sciopero provinciale per l’occupazione, perché c’erano diversi
licenziamenti, anche se non alla Fiat e non all’Om. L’idea di partecipare allo
sciopero alla Om era nata nella sas della Fim, perché anche la Fiom non aveva
proclamato lo sciopero in fabbrica. I leader della Fim si sono incontrati con i
dirigenti della Fiom e hanno deciso di fare lo sciopero anche alla Om. La Om,
che doveva pagare il premio antisciopero ai primi di dicembre, continuava a
ritardarne la distribuzione aspettando il giorno dello sciopero che è stato il
14 di dicembre. Lo sciopero lo abbiamo fatto, ma eravamo in 22 e di questi 18
erano della Fim e della Fiom, che aveva otto commissari su dodici, hanno
scioperato in quattro. Era uno sciopero di due ore a fine turno e i commissari
della Fiom si sono fatti cambiare il turno o hanno trovato delle scuse per non
partecipare. Uno è andato all’Avis.
Quello sciopero non riuscito
ha comunque rappresentato una svolta. Per la prima volta venne stampato un
volantino unitario. Fare un volantino con La Fiom, con i comunisti, era un
fatto talmente grave che sono intervenuti il vescovo, padre Marcolini, don
Agazzi, che era l’assistente delle Acli. Le Acli, di cui era presidente Capra,
che lavorava in Om, erano con noi. Landi era delegato giovanile
dell'associazione. Gran parte del mondo cattolico però era contrario. Sono
state vicende che ci hanno forgiato.
Il reparto cattivi si
chiamava “fuoriserie”. Lì ho incontrato di nuovo l’operaio che era stato il mio
maestro appena entrato in fabbrica (Ugo Zappa), anche lui della Fim. Lavorava
all’alesatrice, una macchina complessa, che dava soddisfazione. Lui non era lì
per ragioni politiche. Quello era il suo reparto da sempre che poi era stato
potenziato con l’arrivo dei comunisti. Ho lavorato un po’ con lui, era un bel
lavoro anche se difficile. Si dovevano fare i conti con la trigonometria. Era
bello e mi ha consentito di applicare alcune regole che avevo imparato a
scuola.
Nel '59, '60 c’è stato il
boom dell’Om e hanno assunto quasi duemila persone e tutti i reparti sono stati
potenziati, anche il fuoriserie. La Fim aveva un giornaletto e in quel reparto
Zappa ne vendeva una decina, poi ho preso io l’incarico e nel giro di qualche
mese sono arrivato a venderne sessanta. Io comperavo quella della Fiom e andavo
a vendere il mio anche a loro. Quando sono entrati i nuovi operai io ho fatto
man bassa di tessere. Sono riuscito a farne una cinquantina. Nel '64, '65 il reparto
confino non interessava più, la Fiat si stava riorganizzando meglio e quel
reparto fuori serie venne smantellato. Io sono finito ai compressori.
Applicavamo un sovralimentatore a tutti i camion, ma è stata una modifica che
non ha avuto molto successo. C’era un compressore che veniva applicato e si
usava quando serviva più potenza al motore. Era composto da due rotori che
comprimevano l’aria e quindi lo scoppio era più forte e, quando serviva, si
poteva aumentare la potenza o la velocità. Se ne facevano di diverse dimensioni
perché si costruivano, oltre al “Leoncino”, l'“Orione”, il “Super Orione”, il
“Taurus”. Al montaggio eravamo in cinque o sei chiusi in una gabbia di vetro,
isolata perché si doveva sentire il rumore che faceva il compressore senza essere
disturbati. Era un bel lavoro, delicato, di soddisfazione, ma dove sono passato
io le produzioni non hanno mai avuto grande successo. Quella produzione è stata
presto abbandonata e sono finito al reparto Auto A, ai basamenti, alle teste.
Ho lavorato anche agli ingranaggi.
Poi hanno fatto il reparto
ponti e assali e negli anni ’70 mi ci hanno mandato. Facevo un po’ il jolly. Ho
lavorato lì per dodici, tredici anni fino al 1985.
Mi sono formato
nell’oratorio di Lurago Mella dove ho incontrato Vittorio Gasparini, il vecchio
Gasparini che lavorava in Om, era un po’ lo scomunicato del mondo cattolico, e
con lui abbiamo fatto delle belle lotte con i preti della parrocchia, era
impegnato nelle Acli. E' stato lui che mi ha sollecitato ad impegnarmi anche in
fabbrica. Io comunque sono entrato in Om con già in tasca la tessera della
Cisl.
Questo perché mio padre, che
lavorava in una distilleria, faceva un po’ da referente sindacale. Ci
lavoravano venti persone. La sera facevano le riunioni sindacali e a volte mi
prendeva con sé e mi portava nella sede della Cisl in Corso Matteotti e quando
mi hanno assunto alla Om mi ha fatto la tessera del sindacato, ancora prima che
iniziassi a lavorare. Quando sono entrato in fabbrica sono stato avvicinato da
un operaio che poi è diventato della Uilm, e mi ha chiesto se facevo la tessera
del sindacato. Prima era venuto uno della Fiom e alla fine è arrivato il
rappresentante della Fim. A tutti ho detto che io la tessera ce l’avevo già.
Quello della Cisl lo ha detto immediatamente a Manenti, che faceva il
collettore in fabbrica e tutti i mesi passava ritirare la quota. Ho fatto
anch’io il collettore, mi ricordo che le ultime volte la quota era di 500 lire.
Ma andare tutti i mesi a chiedere i soldi alla gente era dura e poi dovevamo
portare i soldi in sede provinciale dove c’era Castrezzati che tirava la
cinghia. Dopo qualche tempo che ero in fabbrica – nel '52, '53 - ho cominciato
a frequentare le riunioni del nucleo della Cisl. Ci si trovava fuori
dall’orario di lavoro alla Pavoniana. La prima volta che ho preso la parola
lavoravo al montaggio motori e sono intervenuto perché avevano sospeso alcuni
lavoratori. Erano stati sbagliati dei filetti dei perni che bloccano la testa
nel basamento ed era nata una grana non da poco perché si doveva buttare il
basamento. Ma l’attivista vero e proprio ho iniziato a farlo quando sono andato
nel reparto dei cattivi.
In quel periodo i leader
della Fim erano Landi e Gasparini. Sono stato eletto in commissione interna e
ci sono stato tre anni e ho partecipato alla gestione del contratto nazionale
del '66, sono uscito nel 67. Quando i consigli di fabbrica hanno sostituito la
commissione interna non sono stato eletto delegato. C’era un delegato della Fim
che era contrario all’unità sindacale, mentre io ero favorevole e allora lo
hanno fatto dimettere e sono subentrato al suo posto e da allora sono sempre
stato rieletto fino a quando sono andato in pensione.
Sono stato componente
dell’esecutivo del cdf. I delegati alla Om erano un centinaio, forse più. In
quel periodo eravamo quasi seimila lavoratori. Sono stato nel direttivo
provinciale della Fim e per quattro anni nel direttivo nazionale, poi sono
caduto in disgrazia perché ci siamo messi contro Castrezzati.
Nel congresso di Manerbio
del ’77 eravamo sicuri di perdere perché avevamo contro tutto l’apparato, ma
siccome c’era la regola per la quale toccava qualcosa anche alla minoranza ci
siamo dati da fare ma è andata male. Io ho vissuto quella vicenda da tifoso. Il
vero leader era Landi, anche se lui non ha mai avuto incarichi particolari.
Quando è diventato segretario cittadino della Dc avrebbe potuto, e qualcuno
certamente ha tentato di spingerlo, ma lui ha fatto altre scelte. Eppure noi
alla Om abbiamo eletto parlamentari come Capra e Rossignoli, un operaio.
Nel '69 abbiamo fatto il
contratto dell’autunno caldo e dopo abbiamo raccolto 2300 tessere Fim all’Om e
la Fiom 1100, la metà. La Fiom non sapeva più cosa fare. Venivano in fabbrica
la sera di nascosto a distribuire volantini clandestini, contro la Fim, contro
la Cisl, perché gli operai erano scappati di mano alla Fiom.
Invece con la Fim di Brescia
non andavamo bene. I rapporti si sono rimessi a posto con il cambio della
segreteria della Fim e l’arrivo di Marino Gamba.
La battaglia che abbiamo fatto
dentro la Cisl l’ho vissuta come un momento di progresso, di conquista. Mi
sembrava di camminare in un vicolo che però andava allargandosi e diventava un
viale. Stavamo lottando a gomitate ma ero convinto che avremmo vinto noi,
perché secondo me era l’unica via di uscita buona, che portava al miglioramento
della condizione operaia. Perché l’unità dei lavoratori dava forza a tutti.
Castrezzati all’inizio ha
fatto delle lotte portentose sull’unità sindacale, sull’autonomia,
sull’incompatibilità. In quel periodo era Brescia contro il resto del mondo,
poi con l’arrivo di Carniti ai metalmeccanici le nostre idee si sono
differenziate. Io credevo nell’incompatibilità. Negli anni '60 sono diventato
segretario della sezione della Dc del mio quartiere, villaggio Pavia, di
Brescia ed ero nel direttivo provinciale. Avevamo 40 iscritti ed ho lasciato
quegli incarichi, ma sono sempre stato iscritto alla Dc, anche Castrezzati era
iscritto.
Ricordo di aver partecipato
ad un corso di formazione sindacale nel '53, '54 e c’era Carniti che era un
ragazzotto. E lui ci ha parlato dell’importanza di essere staccati dai partiti,
di guardare ai programmi e non agli schieramenti e di avere la nostra autonomia
e la capacità di fare proposte autonome e se i partiti fanno cose che non vanno
bene avere la libertà di essere contro.
Su questi temi quando,
Carniti è diventato segretario generale della Cisl e Castrezzati suo vice,
hanno un po’ rallentato la loro spinta, mentre per noi della Om questo è sempre
stato un punto centrale.
Autoconvocati. Forattini non
aveva ancora iniziato a dipingere Craxi, che era presidente del consiglio, come
un fascista, però noi lo vedevamo già così. Noi pensavamo che i comunisti
fossero più sinceri, mentre abbiamo cominciato un po’ a odiare i socialisti, in
fabbrica lavoravamo bene con i comunisti della Fiom
La rottura della Flm e il
ritorno al tesseramento per sigla l’ho vissuto molto male perché è stato come
tornare agli anni 50, forse anche peggio. La Fiom si era conquistata tutta
l’organizzazione e dominava. Castrezzati negli anni dell’unità ci diceva di non
preoccuparsi, tanto c’era una accordo sulla divisione delle deleghe. I
lavoratori ci firmavano la delega in bianco e io una volta, in polemica con
questa scelta, avevo scritto Uilm su tutte. Secondo me, dicevo, stiamo
svendendo la Fim. Io ero favorevole all’unità sindacale, ma serviva un po’ di
spirito d’organizzazione, noi dovevamo mantenere la nostra identità. Lui invece
ci diceva che ormai queste cose non contavano più. Queste scelte e la polemica
continua con la segreteria provinciale ci hanno fatto perdere pian piano il
mordente.
Una volta abbiamo fatto un
direttivo provinciale della Fim di Brescia al Centro studi della Cisl di
Firenze ed era venuto anche Carniti. Ha fatto un intervento Landi per 5 minuti
e Carniti ha parlato per un’ora per contrastarlo. Eravamo in continua polemica
anche con la segreteria nazionale, ma dell’Om avevano paura. All’epoca delle
prime battaglie negli anni cinquanta avevamo un gruppo di moderati in Om, che
cercò di contrastare la nostra iniziativa. Quando invece entrammo in polemica
con la segreteria Fim e poi con la vicenda degli autoconvocati eravamo
compatti.
Sono sposato con tre figli e
sei nipoti. Mia moglie ha sempre accettato il mio impegno, non mi ha mai detto
non fare questo o quello, anche suo fratello, che lavorava alla Breda, quando
ci siamo conosciuti è diventato un attivista ed è entrato nel direttivo
provinciale. Mia moglie, però, ha sofferto, perché la qualifica io l’ho presa
solo dopo 15 anni di Om a causa del mio impegno sindacale. Quando lavoravo
all’alesatrice, che era un lavoro da operaio di 5° livello, io ero inquadrato
come manovale specializzato. Non facevo straordinari, gli scioperi li facevo
tutti. Negli anni ’60, quando non c’erano i permessi sindacali, si doveva
andare al sindacato a prendere i volantini perché non c’erano molti operatori,
si usciva con un permesso in bianco e a volte la Fim te lo pagava, ma era
sempre meno di quello che si perdeva. L’Om, poi, faceva le trattenute per i permessi
sulla tredicesima, per cui invece di prendere le 200 ore io ne prendevo 150,
160.
Nel 1968 mi sono fatto male
ad una gamba sciando e sono rimasto a casa due mesi e mezzo e allora si
prendeva il 50 per cento del salario e avevo già tre figli e il mutuo della
casa da pagare. E’ stato un periodo duro. Mia moglie era a casa, faceva un po’
di lavoro a domicilio, era sarta, si arrangiava adattando i vestiti dei suoi
fratelli per i figli e anche per me. Sono sempre andato in bicicletta fino al
1980, quando ha iniziato a lavorare il primo figlio.
Nell’organizzare
picchettaggi davanti ai cancelli della Om non eravamo secondi alla Fiom. La
Cisl è sempre stata presente in modo massiccio. C’erano quelli che volevano
entrare e camminavano su e giù sui marciapiedi intorno all’ingresso. Allora ho
preso delle scope e insieme ad altri siamo andati a scopare i marciapiedi per
mandarli via.
Un’altra volta abbiamo fatto
un fascio di erbacce e l’abbiamo messo davanti all’ingresso degli impiegati con
un cartello con scritto “erba per i conigli”.
C’è stato un momento in cui
nelle direzione di Om c’era un gruppetto di provocatori. Attorno all’Om c’era
una ringhiera di ferro con sopra dei fili elettrici per l’allarme e per far
entrare gli impiegati durante gli scioperi avevano fatto aprire dei cancelletti
mimetizzati, ma gli operai dell’impresa che aveva fatto il lavoro ce lo hanno
detto. Noi di notte siamo andati dove c’erano i cancelli e con dei chiodi
abbiamo martellato sulle serrature in modo che non riuscissero più ad aprirle
con le chiavi. Allora hanno messo dei lucchetti, ma noi siamo riusciti a
bloccare anche quelli.
Nella Om non c’è stato
nessun problema di violenza o di terrorismo. Una volta in fabbrica abbiamo
trovato dei volantini delle Brigate rosse, e in un'altra occasione l’Om ha
tentato di montare una vicenda dicendo che c’era stato un sabotaggio. Una
domenica si era rotto un tubo dell’acqua di lubrificazione di una macchina e la
direzione aveva fatto chiamare un fotografo e aveva parlato di sabotaggio, ma
il tubo era marcio. Diceva che l’avevano tagliato gli operai. Poi furono
trovate delle scritte fatte con delle bombolette sui muri della mensa, ma
secondo noi le avevano fatte questi provocatori che stavano nella direzione.
Hanno tentato di montare questi fatti con articoli sui giornali ma è finito
tutto in niente.
Una ho avuto due giorni di
sospensione da un caposquadra, che tra l’altro era stato mio compagno alla
scuola per apprendisti. Era uno degli ultimi sabati in cui abbiamo lavorato. Si
facevano due turni: il primo usciva alle 11,30 e il secondo faceva dalle 11,30
alle 5 di sera. Il sabato si usava smettere un po’ prima la produzione per
pulire le macchine e mettere a posto il banco e gli attrezzi e quando si finiva
si andava nello spogliatoio anche se l’orario non era ancora finito. Il
caposquadra, che aveva cambiato turno e quindi non conosceva gli operai di cui
era responsabile, era andato negli spogliatoi e aveva multato tutti coloro che
erano già saliti a cambiarsi. Non solo, siccome c’era un’uscita diversa
dall’entrata, aveva chiesto aiuto ad un altro caposquadra per bloccare le due
porte e dare la multa a tutti. Un operaio è venuto a dirmi cosa stava
succedendo. Allora ho chiamato quelli che erano ancora in reparto e gli ho
proposto di aspettare il caposquadra quando sarebbe sceso dalla scala per
applaudirlo in segno di scherno. Tutti d’accordo, mi sono diretto ai piedi
della scala e quando l’ho visto scendere ho iniziato ad applaudire gridando:
bravo. Dietro di me non c’era nessuno! In quella situazione, dopo un attimo di
smarrimento, mi sono messo ad urlare: "vergognati, vuoi fare carriera
facendo fare brutta figura ad un altro caposquadra. Altro che capo, sei un
gestapo. Vergognati, vuoi diventare il ruffiano della Om". Lui non sapeva
che cosa fare e diceva solo: vada via, vada via! Usava il lei anche se
normalmente ci davamo del tu. Si allontani, la smetta. Alla fine mi ha dato due
giorni di sospensione. Ma gli operai, che mi avevano lasciato solo, hanno fatto
una colletta e mi hanno pagato i due giorni di sospensione.