Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
Sono perito chimico. Ho lavorato per 35 anni in Montedison, al Centro ricerche di Bollate. Sono stato assunto nel 1963. In quel momento l’impianto si chiamava Sicedison, poi è diventato Montecatini Edison e quindi Montedison.
Sono
entrato nel laboratorio di analisi strumentale e ho fatto tutta la carriera
interna fino a diventare responsabile del laboratorio, poi responsabile dei
laboratori degli stabilimenti e infine responsabile anche dei laboratori
americani. Le persone avevano tutti una professionalità medio alta. Il laboratorio
è nato nel 1958 e inizialmente i ricercatori arrivavano da tutte le zone dove
l'azienda aveva degli impianti e successivamente un po' da tutta Italia.
C'erano alcuni ricercatori russi perché Montedison aveva realizzato degli
impianti in Russia e aveva attivato uno scambio con l'università di San
Pietroburgo.
In
laboratorio inizialmente eravamo sette, otto persone, alla fine eravamo una
ventina. Complessivamente a Bollate lavoravano circa 400 ricercatori, compresi
i servizi. C’erano molte donne e negli ultimi periodi assumevano più donne che
uomini perché l'azienda le considerava più stabili e con meno problemi di
carriera, anche se secondo me non era vero. Per me era molto più difficile
lavorare con tante donne che non con gli uomini, perché le donne fanno meno
gruppo. Inizialmente il gruppo trainante la ricerca era quello che lavorava con
Natta, che operava al Politecnico di Milano con trenta ricercatori Montedison.
Ricercatori Montedison c'erano anche a Brindisi e a Ferrara, che si occupavano
di singoli prodotti.
Nel
corso degli anni c'è stata una grande evoluzione dal punto di vista delle
tecnologie impiegate, con investimenti importanti. Ad esempio, nel 1978 abbiamo
introdotto l'acquisizione dati computerizzata. Il ruolo del laboratorio però è
cambiato e da Centro ricerche che si occupava di innovazione è diventato molto
più un centro che studiava soprattutto il revamping degli impianti. Cioè si
occupava di come diminuire i costi migliorando la produzione. Lo studio si è
rivolto più all'esistente per migliorarlo anche perché Montedison aveva ormai
tutta la gamma dei prodotti. Questa situazione è andata avanti così fino a
quando siamo diventati Montefluos, che era il settore di Montedison che
produceva fluorurati, e ci siamo dedicati allo studio di nuove molecole per
sostituire il freon che creava il buco nell'ozono. Molecole molto più labili e
quindi meno dannose per l'ambiente e che hanno aperto la strada per la
realizzazione di nuovi prodotti. L'imperativo però era sempre quello di
diminuire i costi e fare un prodotto migliore.
Nei
laboratori avevamo dei problemi di sicurezza, perché si studiavano prodotti
nuovi ed estremamente rischiosi. Alla fine dei processi i prodotti sono neutri,
ma inizialmente si usano materiali pericolosi. Data l'elevata professionalità
del personale però non era difficile affrontare i problemi, ma abbiamo avuto
incidenti anche gravi per eccesso di sicurezza. Gli impianti erano dotati di
tutte le funzioni necessarie per evitare incidenti, il problema eravamo noi che
avevamo troppa fiducia nei nostri mezzi.
Sono
stato in tutti gli stabilimenti italiani per realizzare analisi sulla
situazione degli impianti e delle produzioni e quando hanno comperato negli
Stati Uniti ho dovuto andare anche in America.
Il
laboratorio di Bollate esiste ancora e appartiene al Gruppo belga Solvay.
Sindacato
Il
mio impegno sindacale è iniziato nel 1967 e ho scoperto la Cisl in azienda
grazie a un embrione di presenza sindacale che c'era all'interno del Centro di
ricerca dove il quaranta per cento della manodopera era composto da impiegati
di livello elevato e non c'era una grande sindacalizzazione, però si sentiva
l'influenza della presenza sindacale nel gruppo Montedison. Mio papà era stato
partigiano, aveva fatto la campagna di Russia, e quindi sulle lotte operaie ero
abbastanza informato. In famiglia c'era una sensibilità verso il dovere
dell'impegno.
Quando
sono stato assunto c'erano solo le rappresentanze sindacali, abbiamo
organizzato la prima elezione della commissione interna e sono stato eletto
commissario. Successivamente abbiamo fatto il consiglio di fabbrica e sono
sempre stato scelto come delegato fino a quando sono andato in pensione. Quando
ho avuto la responsabilità del laboratorio abbiamo concordato che non sarei
diventato dirigente perché altrimenti non potevo fare il sindacalista e così mi
hanno commisurato la retribuzione ma non l'inquadramento.
Il
consiglio di fabbrica era composto da venti, venticinque persone, con un
esecutivo di sei, sette persone che erano quelli che si impegnavano
maggiormente e tenevano i contatti col sindacato esterno. La prima
organizzazione nata a Bollate è stata la Cisl, la Uil non c'era fino a quando
non è stato trasferito il personale dallo stabilimento di Linate che è stato
chiuso. A metà degli anni Settanta la Cgil si è rafforzata e siamo arrivati ad
avere più o meno la stessa forza organizzativa, soprattutto per il personale
operaio che man mano era arrivato nei servizi e nella manutenzione del
laboratorio. I rapporti unitari erano buoni. I problemi maggiori li abbiamo
avuti con i lavoratori provenienti da Linate.
C'è
stato un tentativo di organizzare il sindacato dei quadri dopo la marcia dei
40mila alla Fiat, ma è miseramente fallito nel breve giro di sei mesi. Negli
anni Settanta la partecipazione era altissima poi negli anni Ottanta è andata
via via diminuendo, a partire da quando Montedison da 50mila addetti è scesa a
13mila. Una fase che abbiamo gestito con tantissimi accordi sindacali e cassa
integrazione, con la situazione che si è fatta sempre più difficile da
governare.
Periodicamente
ci incontravamo con i rappresentanti sindacali delle altre aziende del gruppo,
da Castellanza a Priolo, a Marghera.
Nel
1973 sono stato eletto nel consiglio provinciale della Cisl di Milano e ho
fatto parte di volta in volta del consiglio provinciale, regionale e nazionale
della Federchimici prima e della Flerica poi, e sono sempre stato nei consigli
d'amministrazione delle strutture aziendali di welfare.
Relazioni industriali
Le
relazioni industriali erano buone anche perché i dirigenti sono sempre stati in
gran parte gli stessi e siamo cresciuti insieme, l'ultimo direttore era il
neolaureato che appena entrato aveva lavorato con me.
Normalmente
la direzione, quando sollevavamo dei problemi, tentava di dare delle risposte e
di risolverli. I rapporti con l'azienda sono stati qualche volta conflittuali,
ma comunque si tendeva sempre a trovare una soluzione dei problemi. Era la
cultura che è rimasta fino a oggi nel settore della chimica, si firmano dei
contratti senza un'ora di sciopero perché al fondo c'è l'idea che stiamo
navigando sulla stessa barca anche se ognuno ha i propri interessi, ma c'è la
consapevolezza che se l'azienda vuole vivere bene deve far sì che i propri
lavoratori stiano bene. Certo il rapporto tra investimenti e personale
dell'industria chimica è diverso, ad esempio da quella metalmeccanica, e questo
ha favorito relazioni industriali costruttive.
Non
abbiamo avuto mai nessun problema per quanto riguarda l'agibilità sindacale e
qualcuno ci considerava dei privilegiati per questo, anche se io non ho mai
dimenticato che la mia prima preoccupazione era quella di gestire bene il mio
laboratorio, ma questo non mi ha mai impedito di partecipare alla vita
sindacale.
Contrattazione
Difficilmente
ci sono state delle vertenze legate solo al laboratorio, anche perché si
operava con piccoli impianti pilota, però più volte abbiamo sollevato problemi
legati al tema della sicurezza e dell'ambiente. Ma era più difficile far
partecipare i lavoratori a studiare una soluzione che non trovare la soluzione
stessa.
Ci
siamo impegnati per ottenere la flessibilità sugli orari in ingresso e in
uscita con compensazione nella giornata, nella settimana o nel mese,
utilizzando quello che il contratto prevedeva per quanto riguarda i riposi
compensativi, che erano stati previsti come riduzione dell'orario di lavoro. Su
questo tema della flessibilità abbiamo firmato un accordo specifico. Non
abbiamo però mai avuto bisogno di fare scioperi perché le caratteristiche del
Centro ricerche erano decisamente particolari, anche se pure noi avevamo una
trentina di turnisti, dato che gli impianti pilota funzionavano a ciclo
continuo, però si trattava di nuclei piccoli di persone e con professionalità
anche in questo caso abbastanza elevata.
Per
quanto riguarda i premi di produzione abbiamo tentato di indicare degli
obiettivi, ma è stato difficile individuare dei parametri omogenei e
confrontabili in termini di produttività. Alla fine abbiamo visto che era
troppo difficile e abbiamo deciso di lasciare quella strada. È un tentativo che
abbiamo fatto insieme alla direzione, la quale però usava altri modi per
incentivare le persone.
Con
il contratto del 1972 è cambiato l'inquadramento e questo ci ha impegnato
tantissimo, abbiamo scritto un mansionario che riguardava la condizione di
ciascun lavoratore. All'inizio sembrava una cosa bella, alla fine mi sono reso
conto che era la cosa più brutta che avevamo mai fatto, perché relegava una
persona in una posizione senza poter più cambiare. Era un modo di ingabbiare le
persone senza dargli la possibilità di uscirne. Questo lavoro ci è però servito
per capire come definire le mansioni e quale categoria assegnare a quelle
mansioni e ha voluto dire cambiare l’inquadramento al 50% delle persone.
Ci
siamo occupati della gestione dei turni sugli impianti pilota, delle
manutenzioni programmate, dell’organizzazione interna del lavoro, ovviamente
non dei programmi di ricerca. L'obiettivo per noi era favorire la motivazione
nel lavoro. Parlando di organizzazione del lavoro noi sollecitavamo anche
assunzioni dove ritenevamo che fossero necessarie, ma più che nuovi assunti
arrivavano persone spostate da altri impianti in chiusura o in
ristrutturazione.
Le
nostre richieste di investimenti riguardavano interventi sulla sicurezza,
perché sul resto era difficile intervenire perché era l'azienda che definiva su
quali filoni di ricerca ci si dovesse muovere.
Periodicamente
si faceva una vertenza di gruppo Montedison, ma di solito riguardava la
chiusura di qualche impianto o dei processi di ristrutturazione. Nel 1987,
attraverso una vertenza di gruppo, abbiamo ottenuto la realizzazione di un
fondo previdenziale integrativo Montedison, però tutto era gestito dalla
categoria nazionale.
Welfare aziendale
Al
Centro ricerche di Bollate avevamo un nostro dopolavoro, perché essendoci molto
spazio intorno la società aveva realizzato i campi da tennis, aree per le
grigliate e il picnic, c'erano dei terreni per gli orti dei dipendenti. Il
nostro cral era legato al dopolavoro Montedison che a Milano aveva tantissime
attività e strutture. La cosa più importante che avevamo come gruppo era la
Cassa previdenza impiegati. La cassa era nata in seguito all’iniziativa
fascista, che aveva creato l'Inps che si rivolgeva solo gli operai, e allora
Montecatini aveva creato una cassa previdenza per gli impiegati per assicurare
una pensione anche a loro. Con gli anni questo istituto era andato in disuso
però gestiva una montagna di soldi. Quando sono entrato nel consiglio
d'amministrazione aveva in pancia dieci miliardi di lire con fattorie e terreni
e nemmeno si capiva bene come funzionasse. La proprietà però era chiara, perché
nello statuto c'era scritto che i beni erano di proprietà dei lavoratori. La
gestione era paritaria tra impresa e lavoratori. Solo dopo l'entrata in vigore
dello Statuto dei lavoratori la gestione è stata totalmente dei lavoratori e
abbiamo proceduto a modificare profondamente la gestione che prima era senza
alcun controllo, abbiamo venduto le proprietà e abbiamo messo le risorse a disposizione
dei lavoratori attraverso la concessione di mutui per l'acquisto della casa e
altro ancora. Il fondo era finanziato con i contributi dell'impresa e dei
lavoratori e ha continuato ad esistere fino a quando sono andato in pensione.
Avevamo anche una cassa mutua Camu, finita nel 1982 con l'entrata in vigore del
sistema sanitario nazionale, che nel 1974 aveva un avanzo di quasi un miliardo
e siccome per statuto i nostri utili dovevano essere versati nella cassa
dell'Inam, abbiamo fatto un check-up di massa al Centro diagnostico - che era
nato come iniziativa di Fiat e Montedison -, che ha interessato oltre 12mila
persone. L’iniziativa è stata realizzata con la Clinica del lavoro che era
interessata a conoscere le condizioni dei lavoratori in un centro di ricerca
come il nostro ed è emerso che il 26% dei ricercatori soffriva di stress da
lavoro.
Nel
1987, con un accordo, abbiamo dato vita al Fondo di previdenza complementare
aziendale Fiprem, con la Cgil che inizialmente era contraria ma poi, con
l'intervento di Cofferati, che in quel momento era segretario nazionale dei
chimici, siamo andati avanti e nel 1996 la previdenza complementare è diventata
legge di Stato.
Inizialmente
Montedison mandava i figli dei dipendenti nelle proprie colonie poi, col
passare del tempo, dato che bambini ce n'era sempre meno, utilizzava strutture
di altri. Il sindacato aveva il compito di fare i controlli sulle condizioni
delle colonie, i trattamenti, la mensa.