giovedì 16 aprile 2020

DINO ANDREAZZA - Montedison, Centro ricerche - Bollate (Mi)

Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017

Sono perito chimico. Ho lavorato per 35 anni in Montedison, al Centro ricerche di Bollate. Sono stato assunto nel 1963. In quel momento l’impianto si chiamava Sicedison, poi è diventato Montecatini Edison e quindi Montedison.

Sono entrato nel laboratorio di analisi strumentale e ho fatto tutta la carriera interna fino a diventare responsabile del laboratorio, poi responsabile dei laboratori degli stabilimenti e infine responsabile anche dei laboratori americani. Le persone avevano tutti una professionalità medio alta. Il laboratorio è nato nel 1958 e inizialmente i ricercatori arrivavano da tutte le zone dove l'azienda aveva degli impianti e successivamente un po' da tutta Italia. C'erano alcuni ricercatori russi perché Montedison aveva realizzato degli impianti in Russia e aveva attivato uno scambio con l'università di San Pietroburgo.
In laboratorio inizialmente eravamo sette, otto persone, alla fine eravamo una ventina. Complessivamente a Bollate lavoravano circa 400 ricercatori, compresi i servizi. C’erano molte donne e negli ultimi periodi assumevano più donne che uomini perché l'azienda le considerava più stabili e con meno problemi di carriera, anche se secondo me non era vero. Per me era molto più difficile lavorare con tante donne che non con gli uomini, perché le donne fanno meno gruppo. Inizialmente il gruppo trainante la ricerca era quello che lavorava con Natta, che operava al Politecnico di Milano con trenta ricercatori Montedison. Ricercatori Montedison c'erano anche a Brindisi e a Ferrara, che si occupavano di singoli prodotti.
Nel corso degli anni c'è stata una grande evoluzione dal punto di vista delle tecnologie impiegate, con investimenti importanti. Ad esempio, nel 1978 abbiamo introdotto l'acquisizione dati computerizzata. Il ruolo del laboratorio però è cambiato e da Centro ricerche che si occupava di innovazione è diventato molto più un centro che studiava soprattutto il revamping degli impianti. Cioè si occupava di come diminuire i costi migliorando la produzione. Lo studio si è rivolto più all'esistente per migliorarlo anche perché Montedison aveva ormai tutta la gamma dei prodotti. Questa situazione è andata avanti così fino a quando siamo diventati Montefluos, che era il settore di Montedison che produceva fluorurati, e ci siamo dedicati allo studio di nuove molecole per sostituire il freon che creava il buco nell'ozono. Molecole molto più labili e quindi meno dannose per l'ambiente e che hanno aperto la strada per la realizzazione di nuovi prodotti. L'imperativo però era sempre quello di diminuire i costi e fare un prodotto migliore.
Nei laboratori avevamo dei problemi di sicurezza, perché si studiavano prodotti nuovi ed estremamente rischiosi. Alla fine dei processi i prodotti sono neutri, ma inizialmente si usano materiali pericolosi. Data l'elevata professionalità del personale però non era difficile affrontare i problemi, ma abbiamo avuto incidenti anche gravi per eccesso di sicurezza. Gli impianti erano dotati di tutte le funzioni necessarie per evitare incidenti, il problema eravamo noi che avevamo troppa fiducia nei nostri mezzi.
Sono stato in tutti gli stabilimenti italiani per realizzare analisi sulla situazione degli impianti e delle produzioni e quando hanno comperato negli Stati Uniti ho dovuto andare anche in America.
Il laboratorio di Bollate esiste ancora e appartiene al Gruppo belga Solvay.

Sindacato
Il mio impegno sindacale è iniziato nel 1967 e ho scoperto la Cisl in azienda grazie a un embrione di presenza sindacale che c'era all'interno del Centro di ricerca dove il quaranta per cento della manodopera era composto da impiegati di livello elevato e non c'era una grande sindacalizzazione, però si sentiva l'influenza della presenza sindacale nel gruppo Montedison. Mio papà era stato partigiano, aveva fatto la campagna di Russia, e quindi sulle lotte operaie ero abbastanza informato. In famiglia c'era una sensibilità verso il dovere dell'impegno.
Quando sono stato assunto c'erano solo le rappresentanze sindacali, abbiamo organizzato la prima elezione della commissione interna e sono stato eletto commissario. Successivamente abbiamo fatto il consiglio di fabbrica e sono sempre stato scelto come delegato fino a quando sono andato in pensione. Quando ho avuto la responsabilità del laboratorio abbiamo concordato che non sarei diventato dirigente perché altrimenti non potevo fare il sindacalista e così mi hanno commisurato la retribuzione ma non l'inquadramento.
Il consiglio di fabbrica era composto da venti, venticinque persone, con un esecutivo di sei, sette persone che erano quelli che si impegnavano maggiormente e tenevano i contatti col sindacato esterno. La prima organizzazione nata a Bollate è stata la Cisl, la Uil non c'era fino a quando non è stato trasferito il personale dallo stabilimento di Linate che è stato chiuso. A metà degli anni Settanta la Cgil si è rafforzata e siamo arrivati ad avere più o meno la stessa forza organizzativa, soprattutto per il personale operaio che man mano era arrivato nei servizi e nella manutenzione del laboratorio. I rapporti unitari erano buoni. I problemi maggiori li abbiamo avuti con i lavoratori provenienti da Linate.
C'è stato un tentativo di organizzare il sindacato dei quadri dopo la marcia dei 40mila alla Fiat, ma è miseramente fallito nel breve giro di sei mesi. Negli anni Settanta la partecipazione era altissima poi negli anni Ottanta è andata via via diminuendo, a partire da quando Montedison da 50mila addetti è scesa a 13mila. Una fase che abbiamo gestito con tantissimi accordi sindacali e cassa integrazione, con la situazione che si è fatta sempre più difficile da governare.
Periodicamente ci incontravamo con i rappresentanti sindacali delle altre aziende del gruppo, da Castellanza a Priolo, a Marghera.
Nel 1973 sono stato eletto nel consiglio provinciale della Cisl di Milano e ho fatto parte di volta in volta del consiglio provinciale, regionale e nazionale della Federchimici prima e della Flerica poi, e sono sempre stato nei consigli d'amministrazione delle strutture aziendali di welfare.

Relazioni industriali
Le relazioni industriali erano buone anche perché i dirigenti sono sempre stati in gran parte gli stessi e siamo cresciuti insieme, l'ultimo direttore era il neolaureato che appena entrato aveva lavorato con me.
Normalmente la direzione, quando sollevavamo dei problemi, tentava di dare delle risposte e di risolverli. I rapporti con l'azienda sono stati qualche volta conflittuali, ma comunque si tendeva sempre a trovare una soluzione dei problemi. Era la cultura che è rimasta fino a oggi nel settore della chimica, si firmano dei contratti senza un'ora di sciopero perché al fondo c'è l'idea che stiamo navigando sulla stessa barca anche se ognuno ha i propri interessi, ma c'è la consapevolezza che se l'azienda vuole vivere bene deve far sì che i propri lavoratori stiano bene. Certo il rapporto tra investimenti e personale dell'industria chimica è diverso, ad esempio da quella metalmeccanica, e questo ha favorito relazioni industriali costruttive.
Non abbiamo avuto mai nessun problema per quanto riguarda l'agibilità sindacale e qualcuno ci considerava dei privilegiati per questo, anche se io non ho mai dimenticato che la mia prima preoccupazione era quella di gestire bene il mio laboratorio, ma questo non mi ha mai impedito di partecipare alla vita sindacale.

Contrattazione
Difficilmente ci sono state delle vertenze legate solo al laboratorio, anche perché si operava con piccoli impianti pilota, però più volte abbiamo sollevato problemi legati al tema della sicurezza e dell'ambiente. Ma era più difficile far partecipare i lavoratori a studiare una soluzione che non trovare la soluzione stessa.
Ci siamo impegnati per ottenere la flessibilità sugli orari in ingresso e in uscita con compensazione nella giornata, nella settimana o nel mese, utilizzando quello che il contratto prevedeva per quanto riguarda i riposi compensativi, che erano stati previsti come riduzione dell'orario di lavoro. Su questo tema della flessibilità abbiamo firmato un accordo specifico. Non abbiamo però mai avuto bisogno di fare scioperi perché le caratteristiche del Centro ricerche erano decisamente particolari, anche se pure noi avevamo una trentina di turnisti, dato che gli impianti pilota funzionavano a ciclo continuo, però si trattava di nuclei piccoli di persone e con professionalità anche in questo caso abbastanza elevata.
Per quanto riguarda i premi di produzione abbiamo tentato di indicare degli obiettivi, ma è stato difficile individuare dei parametri omogenei e confrontabili in termini di produttività. Alla fine abbiamo visto che era troppo difficile e abbiamo deciso di lasciare quella strada. È un tentativo che abbiamo fatto insieme alla direzione, la quale però usava altri modi per incentivare le persone.
Con il contratto del 1972 è cambiato l'inquadramento e questo ci ha impegnato tantissimo, abbiamo scritto un mansionario che riguardava la condizione di ciascun lavoratore. All'inizio sembrava una cosa bella, alla fine mi sono reso conto che era la cosa più brutta che avevamo mai fatto, perché relegava una persona in una posizione senza poter più cambiare. Era un modo di ingabbiare le persone senza dargli la possibilità di uscirne. Questo lavoro ci è però servito per capire come definire le mansioni e quale categoria assegnare a quelle mansioni e ha voluto dire cambiare l’inquadramento al 50% delle persone.
Ci siamo occupati della gestione dei turni sugli impianti pilota, delle manutenzioni programmate, dell’organizzazione interna del lavoro, ovviamente non dei programmi di ricerca. L'obiettivo per noi era favorire la motivazione nel lavoro. Parlando di organizzazione del lavoro noi sollecitavamo anche assunzioni dove ritenevamo che fossero necessarie, ma più che nuovi assunti arrivavano persone spostate da altri impianti in chiusura o in ristrutturazione.
Le nostre richieste di investimenti riguardavano interventi sulla sicurezza, perché sul resto era difficile intervenire perché era l'azienda che definiva su quali filoni di ricerca ci si dovesse muovere.
Periodicamente si faceva una vertenza di gruppo Montedison, ma di solito riguardava la chiusura di qualche impianto o dei processi di ristrutturazione. Nel 1987, attraverso una vertenza di gruppo, abbiamo ottenuto la realizzazione di un fondo previdenziale integrativo Montedison, però tutto era gestito dalla categoria nazionale.

Welfare aziendale
Al Centro ricerche di Bollate avevamo un nostro dopolavoro, perché essendoci molto spazio intorno la società aveva realizzato i campi da tennis, aree per le grigliate e il picnic, c'erano dei terreni per gli orti dei dipendenti. Il nostro cral era legato al dopolavoro Montedison che a Milano aveva tantissime attività e strutture. La cosa più importante che avevamo come gruppo era la Cassa previdenza impiegati. La cassa era nata in seguito all’iniziativa fascista, che aveva creato l'Inps che si rivolgeva solo gli operai, e allora Montecatini aveva creato una cassa previdenza per gli impiegati per assicurare una pensione anche a loro. Con gli anni questo istituto era andato in disuso però gestiva una montagna di soldi. Quando sono entrato nel consiglio d'amministrazione aveva in pancia dieci miliardi di lire con fattorie e terreni e nemmeno si capiva bene come funzionasse. La proprietà però era chiara, perché nello statuto c'era scritto che i beni erano di proprietà dei lavoratori. La gestione era paritaria tra impresa e lavoratori. Solo dopo l'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori la gestione è stata totalmente dei lavoratori e abbiamo proceduto a modificare profondamente la gestione che prima era senza alcun controllo, abbiamo venduto le proprietà e abbiamo messo le risorse a disposizione dei lavoratori attraverso la concessione di mutui per l'acquisto della casa e altro ancora. Il fondo era finanziato con i contributi dell'impresa e dei lavoratori e ha continuato ad esistere fino a quando sono andato in pensione. Avevamo anche una cassa mutua Camu, finita nel 1982 con l'entrata in vigore del sistema sanitario nazionale, che nel 1974 aveva un avanzo di quasi un miliardo e siccome per statuto i nostri utili dovevano essere versati nella cassa dell'Inam, abbiamo fatto un check-up di massa al Centro diagnostico - che era nato come iniziativa di Fiat e Montedison -, che ha interessato oltre 12mila persone. L’iniziativa è stata realizzata con la Clinica del lavoro che era interessata a conoscere le condizioni dei lavoratori in un centro di ricerca come il nostro ed è emerso che il 26% dei ricercatori soffriva di stress da lavoro.
Nel 1987, con un accordo, abbiamo dato vita al Fondo di previdenza complementare aziendale Fiprem, con la Cgil che inizialmente era contraria ma poi, con l'intervento di Cofferati, che in quel momento era segretario nazionale dei chimici, siamo andati avanti e nel 1996 la previdenza complementare è diventata legge di Stato.
Inizialmente Montedison mandava i figli dei dipendenti nelle proprie colonie poi, col passare del tempo, dato che bambini ce n'era sempre meno, utilizzava strutture di altri. Il sindacato aveva il compito di fare i controlli sulle condizioni delle colonie, i trattamenti, la mensa.