Testimonianza raccolta in occasione della pubblicazione del libro “L’idea del dialogo. Cultura del lavoro, contrattazione, relazioni industriali nella chimica italiana”, di Costantino Corbari, BiblioLavoro, Sesto San Giovanni (Mi), 2017
Ho iniziato a lavorare nelle imprese d'appalto di Portovesme, poi nel 1975 ho partecipato ai corsi di formazione per allievi minatori. Dopo due anni di corso, con una mobilitazione, nel 1977 abbiamo costretto la Carbosulcis, settore carbone, ad assumerci e sono rimasto in forza fino a quando sono andato in pensione. In miniera ero addetto alla sicurezza, facevo il grisumetrista, con il compito di misurare il grisou, oltre che verificare la sicurezza delle miscele esplosive, della ventilazione e dell'ambiente.
Fino
al 1976 la miniera era gestita dall'Enel, che però aveva ridotto il suo
interesse per il carbone rivolgendosi per le sue centrali all'impiego del
petrolio. Venne così costituita la Carbosulcis, che faceva capo all'Egam (Ente
nazionale per la gestione delle attività minerarie), affiancato dall'Emsa (Ente
minerario sardo), al fine di rilanciare l’attività di produzione. Quando sono
stato assunto ci lavoravano duecento persone, ma anni prima erano arrivati a
1.500, poi sono entrati i primi duecento corsisti e siamo cresciuti a
cinquecento e alla fine siamo arrivati a mille. Oggi sono circa 400.
Sindacato
Ho
scoperto il sindacato quando lavoravo nelle imprese di appalto, erano gli anni
dell'autunno caldo, poi l'ho incontrato di nuovo facendo il corso per allievi
minatori, perché una serie di problemi ritardavano le assunzioni e le abbiamo
dovute imporre con le lotte, le mobilitazioni, l'occupazione della miniera e
con l'intervento delle organizzazioni sindacali. Mentre eravamo ancora corsisti
abbiamo costituito un gruppetto che coordinava gli altri e quando sono entrato
al lavoro ho fatto la delega e ho iniziato subito il mio impegno sindacale.
Appena assunto mi sono iscritto alla Federchimici, settore minerario. C’era il
consiglio di fabbrica e sono stato eletto delegato, eravamo quattro o cinque.
Ho scelto la Cisl perché era meno ideologica e accettava le persone con
posizioni diverse, anche se la predominanza era democristiana, però c'era un
bell'ambiente, più disponibile al dialogo.
Nell'85
ho avuto un incarico nella segreteria regionale, sono passato a tempo pieno e
ho lasciato la miniera.
I
minatori erano tutti lavoratori sardi e ci seguivano sempre nelle iniziative
sindacali, facevamo le assemblee informative volanti negli spogliatoi dieci
minuti prima di entrare e avevamo sempre una grossa adesione. C'era una
sensibilità politica molto forte e la miniera si fermava anche quando c'erano
problemi di carattere generale, ad esempio quando hanno rapito Moro e quando
l'hanno ucciso abbiamo bloccato tutto.
Le
miniere, soprattutto per questioni ereditarie, sono sempre state un feudo dei
comunisti e della Cgil, ma noi eravamo abbastanza presenti. Loro erano il primo
sindacato come iscritti e noi venivamo subito dopo. Il Partito comunista ha
tentato di costruire una sezione in azienda, ma non ha mai attecchito.
Relazioni industriali
Le
relazioni sindacali delle miniere, con l'ingresso dell'Eni, venivano gestite
dall'Asap. Avevamo un capo del personale molto didattico nei suoi atteggiamenti,
e quando andavamo a discutere non ci dava le cose che chiedevamo, ci dava la
pista e ci costringeva a studiare il contratto per trovare la formula giusta e
le motivazioni adatte a sostenere le nostre richieste. In sostanza ci faceva un
po' di scuola sindacale. Le relazioni erano buone e non si è mai ecceduto, però
bisogna considerare qual era la realtà della miniera. Ad esempio, io ho
faticato tantissimo, nonostante la mia attività, a farmi passare impiegato,
perché non si riteneva che un impiegato potesse essere delegato sindacale.
L'agibilità sindacale era garantita, ma non è che ci venisse regalato niente,
perché quando chiedevamo i permessi a volte ci cambiavano il turno. Però
l'atteggiamento complessivo era di disponibilità, non di rottura. Si cercava il
coinvolgimento del sindacato anche perché le persone andavano governate e senza
sindacato la gestione del personale era rischiosa.
Contrattazione
Il
lavoro in miniera non è certo dei migliori. Uno deve essere abituato a lavorare
nel sottosuolo altrimenti non resiste. Quando capitavano incidenti in miniera
erano sempre gravi, spesso mortali. Il settore minerario in Sardegna conta
migliaia di morti, di caduti sul lavoro, e quindi il tema della sicurezza era
molto in evidenza. Sull'ambiente e la sicurezza avevamo una normativa che ci
aiutava. Il Codice di polizia mineraria del ‘59 prevedeva un articolo specifico
sul delegato alla sicurezza che doveva rispondere al Distretto minerario, che
era un organo decentrato del ministero. C'erano il delegato degli operai,
quello degli impiegati e quello della direzione, con un apposito registro
controllato non dalla direzione ma dal Distretto minerario e questi delegati
venivano eletti. Questo molto prima che il contratto nazionale di lavoro
stabilisse la creazione della figura del delegato alla sicurezza.
A
livello europeo, dopo l'incidente di Marcinelle, era stato costituito l'Organo
permanente (Op), un organismo trilaterale con rappresentanti dei sindacati, dei
governi e delle imprese per affrontare tutti i temi legati alla sicurezza nelle
miniere di ogni tipo. Un organismo che ha sempre operato con competenza, dove
soprattutto venivano valutati gli incidenti che capitavano, venivano
evidenziati gli errori e create delle direttive ai Paesi membri per applicare
delle normative che permettessero di evitare il ripetersi di quel tipo di
infortuni. Ne ho fatto parte per un paio d'anni, fino a quando è stato sciolto,
e devo dire che è stata un’esperienza molto positiva, che mi ha permesso di
conoscere le altre realtà minerarie.
L'orario
in miniera viene preso quando uno ritira la lampada e timbra, poi scende giù
con la gabbia e deve arrivare al posto di lavoro. Molte volte si deve camminare
anche mezz'ora e tutto quel tragitto è orario di lavoro. Si lavorava su tre
turni, a rotazione su cinque giorni, una settimana al mattino, una la sera e
una di notte, poi, quando sono stati introdotti macchinari che funzionavano a
ciclo continuo, si è stabilito di fare quattro turni di sei ore.
Quando
si produceva a cottimo Bedaux, un sistema utilizzato da tutte le società
minerarie, esisteva un premio di produzione che si basava in particolare sulla
quantità di prodotto estratto, poi c'erano i premi legati alle tonnellate
scavate o al numero dei bigonci che venivano riempiti. Quando la produzione è
iniziata a interessare di meno, perché i costi erano alti e l'obiettivo più che
produrre era come smaltire le perdite, si è passati dai premi di cottimo ai
premi di produzione uguali per tutti. Infine, quando hanno inserito le macchine
a ciclo continuo, sono stati reintrodotti i premi di risultato e anche in quel
caso i premi venivano dati in base alla produzione.
Da
noi gli intermedi erano molti e siamo riusciti a eliminarli passando alla
classificazione operai e impiegati, con un intreccio tra le diverse figure che
seguiva un po' la traccia del contratto dei chimici. L'inserimento delle
persone nel nuovo inquadramento era fatto in azienda e spesso erano necessarie
trattative molto lunghe, perché, alla professionalità e all'area di lavoro,
l'azienda faceva prevalere i criteri dell'assenteismo e della qualità del
lavoro. Era una trattativa quasi persona per persona e noi spesso riuscivamo a
far passare la nostra impostazione. Col tempo la cosa è un po' degenerata
perché si è innestato il clientelismo.
Più
che sulle questioni salariali noi abbiamo fatto vertenze sulle condizioni e
sulla qualità del lavoro in miniera. Una delle vertenze più pesanti che abbiamo
fatto negli anni Ottanta è stata quella per l'introduzione della mensa, per
avere un pasto caldo.
Per
la firma dei contratti nazionali di lavoro abbiamo sempre fatto tante
mobilitazioni, qualche sceneggiata, ma si sono sempre regolarmente firmati. In
quelle occasioni emergevano i diversi interessi tra noi in Sardegna e gli altri
tipi di miniere, ma alla fine si raggiungeva un risultato utile per il settore.
Noi
avevamo sempre presente lo spettro del posto di lavoro in pericolo. Quando
abbiamo avuto il problema delle ristrutturazioni e degli esuberi si sono fatte
tante proposte di investimenti e sviluppo di nuove attività, però quasi nessuna
ha avuto successo, anche perché si puntava all'intervento di grandi aziende,
con importanti finanziamenti, e non sulla creazione di un piccolo tessuto
produttivo locale.
Le
pesanti ristrutturazioni hanno comportato sacrifici enormi, con la perdita di
migliaia di occupati nel settore, ma posso dire che se è vero che non abbiamo
creato alternative però non abbiamo lasciato le persone in mezzo alla strada,
utilizzando tutti gli strumenti possibili. In queste vicende ci sono colpe
delle imprese e della politica, ma il nostro compito noi l'abbiamo sempre
svolto con responsabilità. Anche se quella è un'economia che non c'è più.
Welfare aziendale
L'economia
mineraria nasceva dove c'è il giacimento, in aree dove molte volte non esisteva
niente, quindi insieme alla miniera nascevano i servizi, le strutture, le
scuole, i trasporti. Era una realtà autosufficiente, ma questa cultura ha
portato ad annullare l'economia artigiana e contadina, la gente si è abituata al
posto fisso e quando questo è venuto a mancare non c'è più stata la capacità di
creare nuove iniziative.
Le
grosse aziende minerarie, dal carbone alle metallifere, avevano le proprie
colonie, non solo per i figli ma anche per gli stessi minatori che avevano la
possibilità di andare a svernare per alcuni periodi. Era tutto gestito dalle
aziende, poi man mano che il privato se n'è andato ed è subentrato il pubblico
questo ha favorito lo staccarsi dei servizi dall'azienda e una nostra
partecipazione alla gestione.